Destra di Popolo.net

LA LEGA RISCHIA LA SCISSIONE: STORICI MILITANTI DELLA LEGA NORD CONTRO LA LEGA DI SALVINI

Agosto 4th, 2020 Riccardo Fucile

PINI E ALTRI 20 LEGHISTI DELLA VECCHIA GUARDIA HANNO INVIATO UNA DIFFIDA AL COMMISSARIO DELLA LEGA NORD SULLE PROCEDURE DI TESSERAMENTO: PRONTI A PRENDERSI IL SIMBOLO, IL NOME E IL   LOGO DI ALBERTO DA GIUSSANO

Vecchi militanti della Lega “Nord” contro la Lega di Salvini. Carmelo Lopapa e Claudio Tito su Repubblica raccontano una disfida interna al Carroccio che vede la Vecchia Guardia contro il Capitano. E la possibilità  di adire le vie legali:
I nostalgici di Bossi hanno chiesto un parere ad alcuni avvocati. La scelta di “regalare” e di non far pagare l’iscrizione alla Lega Nord che viene mantenuta in vita solo formalmente, potrebbe invalidare l’intero percorso che conduce alla Lega per Salvini Premier e al sistema del doppio tesseramento.
Alcuni dirigente fedeli al Senatur sono pronti a far valere l’illegittimità  e a riprendersi il simbolo, il nome e l’immagine di Alberto da Giussano.
Tutto si fonda su un interrogativo presente nei pareri legali: «E’ possibile non pagare le quote associative per un partito che avrebbe ancora 49 milioni di debito con lo Stato?».
Gianluca Pini, ex deputato leghista e sfidante di Salvini all’ultimo Congresso, insieme ad una ventina di esponenti della vecchia guardia ha inviato una diffida a Igor Iezzi, il Commissario federale della Lega Nord (Salvini si è dimesso dalla segreteria per incompatibilità  rispetto al nuovo partito), richiamando proprio le procedure del tesseramento.
«In attesa di ricevere un celere e puntuale riscontro, significando sin d’ora che in caso di palesi violazioni delle norme interne, saranno espletati tutti gli atti necessari al rispetto dello statuto e del regolamento».
L’universo leghista, dunque, sta entrando in fibrillazione. Se non supererà  lo stress test del 2021, allora partirà  la caccia a Salvini o si aprirà  la ricerca del nuovo segretario della Lega Nord scissionista.
E il prescelto sarà  cercato in quello che un tempo era il cerchio magico di Bossi, a partire da Maroni. Il progetto sovranista, insomma, non corre più lungo i binari della certezza ma della precarietà . Gli spazi in politica non restano mai vuoti troppo a lungo.

(da agenzie)

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LEGA: IL 30% DEGLI ISCRITTI DEL NORD LASCIA SALVINI

Agosto 3rd, 2020 Riccardo Fucile

GLI ISCRITTI SCENDONO DA 80.000 A 50.000 … FLOP AL SUD: SOTTO LE 300 TESSERE IN SICILIA E IN SARDEGNA

Il 30% dei militanti del Nord ha abbandonato la Lega di Matteo Salvini. Mentre il Carroccio diventa sempre più il partito del Capitano, Repubblica scrive oggi che dietro il trionfalismo nella campagna di tesseramente sbandierato dai salviniani c’è una rottura ben precisa:
I numeri ufficiali del tesseramento sono stati comunicati fino ad ora con un certo entusiasmo. A febbraio già  in oltre 50 mila avevano versato i dieci euro per iscriversi al partito nuovo e mantenere gratuitamente la tessera del partito “vecchio”.
Nei prossimi giorni ci dovrebbe essere il risultato definitivo. Da tenere presente che secondo gli ultimi dati pubblicati nel 2017 gli iscritti erano circa 80 mila: 19 mila cosiddetti “militanti” e 60 mila “sostenitori”.
Quindi non una grande differenza rispetto alla cifra annunciata prima del lockdown. Ma quel che non dice la propaganda è che una fetta importante dei militanti storici non ha rinnovato l’iscrizione. I responsabili dell’organizzazione di un tempo parlano di almeno un terzo. Almeno il 30 per cento, dunque, rinuncia.
Molti di loro si definiscono bossiani, maroniani. Ma non salviniani. E si allontanano proprio perchè manca la parola per loro “magica”: Nord. L’indipendenza, il federalismo, l’Autonomia era la ragione sociale della forza politica ideata da Bossi.
Senza quelle prospettive — giuste o sbagliate che fossero -, si assiste ad una mutazione genetica della Lega. Il “padano” che impegnava le vacanze nelle feste di partito si sente “disimpegnato” dal personalismo sovranista.
Ma la strategia ormai è segnata:
Salvini punta a compensare l’esodo nordista con i nuovi ingressi, anche “sudisti”. La sua Lega Nazionale apre i battenti alla destra da Napoli a Palermo. Eppure, se si prende l’ultimo bilancio ufficiale del Carroccio si capisce che l’operazione non sarà  facile. Che la militanza settentrionale è ancora assolutamente prevalente, a partire dal piano economico. I contribuenti che hanno versato nella dichiarazione dei redditi il 2xmille alla Lega sono stati 63.689 per un totale di 753.093 euro.
La distribuzione geografica è illuminante: i finanziatori più numerosi sono i lombardi, circa 24 mila. Seguiti dai veneti, circa 20 mila. Terzi sul podio i piemontesi: 5 mila. Le regioni del sud sono, come prevedibile, i fanalini di coda. Ma molto in coda. I sardi sono più attivi ma non arrivano a trecento e i siciliani sono appena 266. Numeri che hanno ancora più irritato i “militanti ignoti” del nord.

(da “NextQuotidiano”)

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“A SALVINI ABBIAMO DETTO: SERVE UNA LINEA, MENO DA CAZZARI”: L’ULTIMATUM DI GIORGETTI E ZAIA

Maggio 19th, 2020 Riccardo Fucile

ABROGARE BORGHI E LE SUE TEORIE ANTI-UE… IL BISOGNO DI RAPPRESENTARE I BISOGNI DEL NORD DIETRO LE PROFEZIE DI GIORGETTI E IL PROTAGONISMO DI ZAIA… DAL SOVRANISMO AL PRAGMATISMO

Quella Cassandra di Giorgetti lo aveva detto in tempi non sospetti, lo raccontano in molti: “In Italia volevano fare accordi coi francesi contro i tedeschi e poi, tac, quelli fanno l’accordo, e ti rendi conto che c’è un europeismo a trazione tedesca”.
Il sottotesto evidente è che i 500 miliardi a fondo perduto che Parigi e Berlino propongono di mettere in campo al posto del Recovery Fund, in proporzione ai bisogni creati dalla pandemia sono una novità  politica.
Lo aveva detto, la Cassandra leghista, che oggi, dopo la lettura dei giornali, ha consegnato una pillola di saggezza a qualche amico che tanto assomiglia a un messaggio a chi vuole intendere: “Vogliamo parlare di nazionalismo? Beh, il nazionalismo è la capacità  di incidere facendo gli interessi nazionali con le regole date”. Il che non fa una piega a livello teorico.
Se il concetto viene poi confrontato con l’intervista data al Foglio da Claudio Borghi sulla necessità  di “abrogare Giorgetti”, posizionare la Lega su una linea anti-europeista, abolire il pareggio di bilancio, nutrirsi di scetticismo rispetto al sistema tradizionale di alleanze atlantiche, allora sì capisce di cosa si sta parlando.
Ecco il punto: va bene la manifestazione del centrodestra, anche se ancora non c’è uno straccio di canovaccio, va bene la piazza a un metro di distanza, il recupero di un minimo di normalità  dopo lo stato di eccezione ma una mobilitazione non basta senza un “progetto politico”.
O meglio, mantenendo una ambiguità  su due progetti politici, la cui convivenza finora, nella Lega, è stata garantita dalla leadership di Salvini nella fase dell’ascesa prima, del potere poi, dell’opposizione facile fino a poco tempo fa: Borghi e Giorgetti, Bagnai e Zaia, la Lega sovranista e la Lega pragmatica dei produttori, il “no euro” e il “sì euro”. Quel che sta accadendo, complice il declino nei consensi, il quadro mutato, il grido di dolore dell’Italia reale più rumoroso del ruggito di qualunque Bestia, è che questa tensione, dentro la Lega, è squadernata.
E c’è un motivo se, negli ultimi tempi, il governatore del Veneto concede un’intervista politica al giorno, anzi sempre più politica, da interprete autentico del nord operoso e realista avvezzo a lavorare con gli imprenditori tedeschi, senza chiacchiere ideologiche sull’Euro, che rivendica l’autonomia perchè “non oso pensare cosa sarebbe stata questa epidemia se tutto fosse stato gestito da Roma”.
In parecchi, fuori e dentro la Lega, hanno interpretato questo protagonismo guadagnato sul campo con una gestione efficiente dell’emergenza, senza polemiche politiche col governo nazionale e senza i disastri lombardi, come una candidatura alla leadership o, se preferite, l’affermazione di una leadership sostanziale, destinata prima o poi a diventare reale.
In verità , il messaggio è tutto in una frase che Salvini ha capito bene. In quel “ma no, io vengo dalla campagna”, professione di finta modestia con cui il governatore del Veneto ha smentito le sue ambizioni.
È un messaggio (per Salvini) che suona più o meno così, detta in modo un po’ sbrigativo, ma che rende l’idea: io non ti vengo contro, non faccio nè conte interne, nè un’Opa ostile, nè scissioni, ma è ora di scegliere una linea, meno improvvisata, meno da cazzari, che tenga conto dell’enorme bisogno di serietà  e di governo che viene innanzitutto dal Nord, dopo la fase degli aperitivi, del “chiudiamo, ma anche no”, “apriamo ma anche no”, collaboro anzi non collaboro, “sosteniamo Draghi” anzi “usciamo dall’euro”.
Perchè è evidente che il Nord è all’opposizione del governo, si capisce anche dalle parole del sindaco di Milano Sala, ma chiede un’alternativa di governo, non persa nell’ideologia del “no euro”: soldi alle imprese, autonomia, una classe dirigente degna di questo nome, visto che dal Po in giù praticamente è inesistente e a fine settembre si vota.
Ci risiamo, Salvini, che questi ragionamenti non li ha appresi dalle pagine dei giornali ma da una serie di confronti diretti, deve scegliere e comunque prima o poi sarà  costretto a farlo perchè quel che vale per il governo, e cioè che prima o poi la ricreazione finirà  perchè lo scenario emergenziale potrebbe diventare drammatico, vale anche per le attuali leadership in campo.
In un recente incontro con un diplomatico Giorgetti si è sentito rivolgere questa domanda: “Ma la linea è quella tua o quella di Salvini?”.
Al momento la risposta non c’è. Ma ogni Cassandra che si rispetti si affida al tempo, sperando che non sia tardi.

(da “Huffingtonpost”)

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FINANCIAL TIMES FA RODERE IL FEGATO A SALVINI: “ZAIA ASTRO NASCENTE DELLA LEGA CHE OFFUSCA SALVINI”

Maggio 5th, 2020 Riccardo Fucile

IL QUOTIDIANO ECONOMICO BRITANNICO DEDICA UN EDITORIALE AL GOVERNATORE LEGHISTA, LUI SI SCHEMISCE: “E’ SOLO UN MOMENTO PARTICOLARE”

“L’astro nascente di Venezia offusca Salvini”. E’ il titolo di un editoriale pubblicato oggi sul Financial Times e dedicato al governatore del Veneto Luca Zaia.
L’articolo cita un sondaggio del politologo dell’università  Luiss Roberto D’Alimonte, secondo il quale mentre la Lega scende dal 34 per cento dei consensi ottenuti alle ultime elezioni europee al 25-26% per cento, quelli personali di Zaia sono saliti attorno al 50 per cento.
Un alto indice di gradimento, quello riscosso dall’esponente leghista, confermato anche da uno studio di Ilvo Diamanti pubblicato su Repubblica, che pone Zaia al primo posto nella classifica sull’apprezzamento dei leader con una percentuale che supera il 50 per cento.
L’articolo sul quotidiano economico britannico parla dunque di un “offuscamento” della parabola di Matteo Salvini causato dall’affermazione, graduale ma inesorabile, del governatore. Con la frenata a un’ascesa politica che durava da 4 anni e pareva inarrestabile, “la minaccia più pericolosa” per il capo della Lega “non arriva dai suoi numerosi nemici ma dall’interno del suo stesso partito”, scrive appunto il FT.
A suffragio di questa tesi, vengono offerte una serie di motivazioni. Durante l’emergenza italiana del coronavirus Salvini “ha faticato a stabilire l’agenda come faceva prima”, facendo “scivolare la Lega nei sondaggi”, e “lo sfidante alla leadership è ora il presidente della Regione Veneto Luca Zaia, dopo che la sua strategia di lotta al Covid-19 ha attirato l’attenzione globale”.
Lombardia e Veneto, spiega il quotidiano della City, sono state le due regioni inizialmente più colpite dal virus. Entrambe guidate da governatori leghisti, hanno adottato approcci diversi ma il “modello veneto” è risultato vincente, con 1.500 morti contro i 14 mila della Lombardia, grazie a una politica di test e tracciamento dei contagi. Il governatore Zaia, spiega ancora il Ft, è stato definito dai giornali “mr 80%” o “il Doge”.
Zaia, da parte sua, si schermisce: “Astro nascente? E’ un’ossessione, stiamo parlando di sondaggi fatti in un momento particolare. Non me ne frega niente”, dice rispondendo sulle ipotesi di un impegno politico nazionale, “L’obiettività  – ha aggiunto Zaia – porta a dire che nella classifica sono in testa tutti quelli che si sono occupati di coronavirus, da Conte in giù. Poi la politica ha un corso diverso dal coronavirus, non sono minimamente interessato, lasciatemi fuori da queste manfrine”.
Zaia poi cita Sallustio: “Il sentimento che viene dopo la gloria è l’invidia, dobbiamo governare una regione complessa e non abbiamo tempo da perdere con le distrazioni. E stavolta è vero – scherza – non è Eracleonte da Gela”.

(da agenzie)

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LUCA ZAIA, IL “DEMOCRISTIANO” CHE PRESIDIA LE SAGRE DI PAESE E FA CONTENTI TUTTI QUELLI CHE CONTANO

Maggio 3rd, 2020 Riccardo Fucile

EVITA DI INTERVENIRE SULLE QUESTIONI NAZIONALI, MANTIENE IL PROFILO BASSO MA ORA E’ PREFERITO A SALVINI DAI LEGHISTI

Il temperamento di un politico lo si vede dai particolari: Luca Zaia, 52 anni, è presenza fissa nelle seguite reti locali, che siano Telenuovo, Telearena, Canale Italia o Serenissima Tv; ma centellina col contagocce la propria voce quando c’è da intervenire sulle questioni nazionali, sui giornali e men che meno nei talk show.
Quando poi si esprime andando fuori dai confini veneti, raramente regala quei titoli urlati che invece tanto piacciono, da sempre, al capo del suo partito, Matteo Salvini.
Zaia quindi è un politico dai piccoli passi misurati, ma sempre un po’ più avanti; un democristiano fuori tempo massimo, capace di navigare nelle acque tempestose della Lega (Nord) e del centrodestra senza mai uno strappo clamoroso.
Venetista più che veneto, gavetta militare e laurea in veterinaria, a 29 anni già  presidente della provincia a Treviso, di cui prima era stato assessore all’Agricoltura, poi vicepresidente di Regione, ministro – sempre all’Agricoltura – con Silvio Berlusconi e infine presidente della sua regione da dieci anni, la prima volta di un leghista che conquistava in prima persona il Veneto.
A casa sua ha sempre stravinto, incarnando la figura del politico che fa contenti un po’ tutti quelli che contano da quelle parti: gli industriali, i piccoli imprenditori, gli artigiani, gli allevatori, e infine la chiesa, gli amministratori locali.
Da anni presidia sagre e feste di paese e come facevano un volta i democristiani (appunto) incontra regolarmente chiunque abbia bisogno di un colloquio.
Parla come i propri concittadini, si veste come loro, si atteggia come loro: lavorare, lavorare, lavorare, pochi voli pindarici con le teorie politiche, incrollabile fede nelle virtù del mercato e degli schei, concretezza, ampio utilizzo del dialetto e i locali per divertirsi.
Bossiano con Umberto Bossi, maroniano con Roberto Maroni, salviniano con Salvini, ex “amico fraterno” del rinnegato già  sindaco di Verona Flavio Tosi, in questo Zaia somiglia e si intende molto a e con Giancarlo Giorgetti, un altro che ha imparato bene la lezione in un partito che non ha mai ammesso voci fuori dal coro: mai disturbare il manovratore, anche quando le combina grosse (vedi la scorsa pazza estate del “Capitano”, mossa mai capita davvero da Zaia ma non contestata pubblicamente), perchè tutto passa e tutti passano ma la Lega resta.
Solo che adesso l’emergenza covid ha certificato che le due storiche leghe – quella lombarda, che è sempre stata più forte, e la Liga Veneta – hanno una resa differente. La prima comanda, ma la seconda appare funzionare.
Tanto che Salvini è stato costretto a prestare un pezzo del proprio staff comunicazione, la famosa “Bestia”, per risollevare le sorti di una Lombardia uscita a pezzi dalla gestione della pandemia. E se la Lombardia affonda, affonda anche il milanese Salvini. Questo nel mentre, anche con una certa dose di malizia, centrosinistra e 5 Stelle sottolineano le virtù venete nell’approccio della crisi, dal modello sanitario legato al territorio ai test a tappeto sulla popolazione.
Oggi gli indici di gradimento di Zaia, se messi a confronto con quelli di Salvini, dicono che tra i due non ci sarebbe partita. Ma se qualcuno si aspetta una mossa del presidente del Veneto, un assalto al comando di quel che ancora rimane il primo partito italiano, rimarrà  deluso. Non rientra nel modus operandi di Zaia, un politico ambizioso ma abituato a imporsi senza rotture.

(da agenzie)

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“E SE LUCA SCENDESSE IN CAMPO?”

Aprile 24th, 2020 Riccardo Fucile

NELLE TRUPPE LEGHISTE STANCHE DI SALVINI SI FA STRADA LA SUGGESTIONE DI UN CAMBIO DELLA GUARDIA PER UNA LEGA NON SOVRANISTA

E’ il presidente che ha reagito meglio all’emergenza Covid-19, nella sua Regione ha un consenso che è quasi plebiscitario. Tanto che, secondo un sondaggio della maga dei numeri Alessandra Ghisleri (Euromedia Reasearch), Luca Zaia ha un indice di gradimento che si attesta all’80,5%.
Un numero significativo che in rapporto alla popolazione non è dissimile a quello della cancelliera tedesca Angela Merkel.
L’altra Lega di Zaia non è più una fantasia ma è sempre più una realtà .
Si muove in silenzio il doge, nato e cresciuto in una famiglia democristianissima, il diversamente leghista che preferisce rispondere non con le parole, ma con i fatti. E non a caso da quando è esplosa questa pandemia dalle parti di via Bellerio alti dirigenti che si trincerano dietro l’anonimato fanno un ragionamento che più o meno suona così: “Luca (Zaia ndr.) non ha mai fatto polemiche politiche, ha preso dal governo quello che poteva prendere, ha fatto da solo, senza inveire contro l’esecutivo di Conte. E se fa un passo in avanti, come quello sulla riapertura, lo fa perchè ne è consapevole. Attilio (Fontana ndr.) invece ha cercato di dare colpe al governo, senza però dare l’idea di come gestire la situazione”.
Eppure dietro queste parole che ruotano attorno alla contrapposizione fra Veneto e Lombardia si cela un’altra annosa questione che inizia a prendere forma nei passaparola delle truppe del fu Carroccio.
Ecco allora la domanda che ricorre con più insistenza fra Montecitorio e Palazzo Madama: “E se Luca scendesse in campo?”. Silenzio.
Ed è un dilemma che registra un malessere diffuso, un sentimento dovuto oggi al fatto che “ nella fase due non possiamo pensare di aiutare il Paese con le dirette instagram o con le piazzate su Telelombardia”.
Ecco, la prospettiva del dopo rimanda a una opposizione della responsabilità  sul modello del Veneto, di una Lega di governo, pragmatica, che piace agli imprenditori, che viene apprezzata da Forza Italia e da tutto la galassia moderata.
Non a caso, alla fine del 2017, a poche settimane dalle elezioni politiche, Silvio Berlusconi si era lasciato scappare: “Se non posso correre io, indico Zaia”.
Sappiamo tutti come è andata a finire. E sappiamo che da quel momento in poi l’ex ministro dell’Interno e la Bestia di Luca Morisi hanno scalato il centrodestra e poi hanno primeggiato alle Europee del 2019.
Ma oggi il quadro è cambiato, non c’è più la piazza, nè tanto meno la campagna elettorale. Per la prima volta la leadership di Salvini appare in crisi e, dettaglio di non poco conto, si staglia il volto di Zaia.
Che in questa emergenza si è beccato i complimenti dell’Università  di Harvard per essersi mosso in maniera efficace e in particolare per aver adottato “un approccio molto più proattivo al contenimento del virus”, si legge nella rivista scientifica “Harvard Business Review”.
“E se Luca scendesse in campo?”. Al dilemma nessuno osa rispondere. Non è dato sapere se sono maturi o meno i tempi per la nascita di un’alternativa al salvinismo. Di una nuova Lega non sovranista. Di un nuovo Carroccio a trazione Zaia-Giorgetti.
Pare che il primo non parli con il secondo ma tutti sanno che Giorgetti è un uomo partito che è sopravvissuto a tutte le stagioni. Nell’attesa “Luca” non ha ancora sciolto la riserva sul terzo mandato. “Non è così scontato che si ricandidi”.
Sarà  un caso? Qualcuno ironizza e la mette così: “A Galan non portò bene il terzo mandato. Ecco perchè il presidente frena”. E allora potrebbe accadere che questa sia la volta buona, che siano maturi i tempi del grande passo del leghista “democristiano”. E se a via Bellerio osservano che “Zaia non farà  mai la prima mossa, non si metterà  mai pubblicamente contro Salvini, ma forse aspetterà  la fine del salvinismo”, nel frattempo il doge si gode la scena assieme al plurivotato Roberto Marcato, assessore regionale allo Sviluppo economico. E con il fedelissimo Marcato rimembra una frase che una volta pronunciò Salvini: “La Lega è la Lombardia, il Veneto non esiste”.
Forse non sarà  più così.

(da “Huffingtonpost”)

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SALVINI A NAPOLI, BOTTE TRA LEGHISTI, COINVOLTO UN DISABILE

Febbraio 19th, 2020 Riccardo Fucile

SPINTONI, INSULTI E MINACCE: DIRIGENTE LEGA BLOCCATO DOPO AVER FORZATO SERVIZIO D’ORDINE

Ci sono stati anche momenti di tensione all’interno del teatro Augusteo, dove si è tenuta la manifestazione della Lega.
Dario Renzullo, figlio di Claudio Renzullo, dirigente di Alleanza Nazionale, ha forzato il blocco del servizio d’ordine che ormai aveva impedito l’accesso visto il tutto esaurito.
Dopo una prima colluttazione, l’ex Casapound ha iniziato a minacciare i membri del servizio d’ordine, per poi prendersela con un operatore, il quale si è sentito dire anche “Tu ti salvi solo perchè sei disabile”.
Soltanto l’intervento della Digos è riuscito a placare gli animi ed a identificare Renzullo.

(da Anteprima24)

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SALVINI IN CADUTA LIBERA SUI SOCIAL, I NUMERI DEL CROLLO DELLA “BESTIA” DI MORISI: DA 14 MILIONI DI INTERAZIONI A 6,6 MILIONI IN POCHE SETTIMANE

Febbraio 12th, 2020 Riccardo Fucile

DOPO LA SCONFITTA IN EMILIA-ROMAGNA PER SALVINI UN LIVELLO DI COINVOLGIMENTO MAI COSI’ BASSO DA ANNI

C’è uno spettro che si aggira per i social. È il fantasma di Matteo Salvini.
E non è un modo di dire: nelle ultime due settimane il leader della Lega è letteralmente sparito dalla home di milioni di italiani. Una percezione diffusa ampiamente confermata dai numeri: impietosi.
Vero è che il mondo dei social network è tradizionalmente liquido e si muove alla velocità  con cui Morgan cambia umore o il testo di una canzone. Ma, se tre indizi fanno una prova, abbiamo sufficienti elementi per poter parlare di crisi aperta nella macchina della comunicazione apparentemente infallibile della Lega, al secolo “La Bestia“.
Per capire da vicino cos’è accaduto, è necessario fare un balzo all’indietro al 13 novembre 2019. È il giorno prima del lancio ufficiale della campagna elettorale di Lucia Borgonzoni in Emilia-Romagna.
La Lega sta organizzando la grande serata del Paladozza che, nelle intenzioni di Morisi & C., avrebbe dovuto essere la location perfetta dello sbarco dell’alieno Salvini nella terra rossa per eccellenza.
Una sorta di prova generale di una cavalcata trionfale che avrebbe dovuto cambiare la storia di questa regione e, a stretto giro, dell’Italia. In quel momento esatto, la pagina Facebook personale di Matteo Salvini viaggia saldamente attorno ai 10 milioni di interazioni a settimana, con una media di 120 post prodotti ogni sette giorni e 3,8 milioni di followers netti sulla pagina (vale a dire di seguaci che hanno scelto di mettere il like). Numeri che ne fanno la pagina personale numero uno in Italia sotto tutti i parametri, staccando di più del doppio i diretti inseguitori.
Il giorno successivo, senza alcun reale preavviso, si abbatte come un asteroide sulla scena italiana un nuovo movimento civile e di piazza che, in una notte di novembre apparentemente come altre, riempie piazza Maggiore, a Bologna, e cambia la storia non solo delle elezioni regionali ma della storia politica recente di questo Paese.
Si fanno chiamare Sardine e, in meno di 24 ore, diventano il nemico numero di Salvini. Si può dire senza tema di smentita che c’è un prima e c’è un dopo le Sardine, il cui avvento provoca sostanzialmente due effetti conseguenti e per certi versi in contraddizione.
Il primo: Salvini perde le piazze. O, per essere più precisi, non le perde: scompare proprio. Dall’ultima adunata di popolo di piazza San Giovanni a Roma, il 19 ottobre scorso, e con ancora più evidenza dalla nascita delle Sardine, il numero uno della Lega evita le piazze come se dei cecchini sparassero a vista dai tetti e si rifugia puntualmente in palasport, palestre, tendoni, bar, ristoranti, viuzze laterali, sedi di partito, ovunque ci sia un luogo “bonificato” dal rischio flop e nessun rischio di confronto con le sardine, che da Bologna in poi nuotano in mare aperto inondando l’Emilia-Romagna e l’Italia con ondate oceaniche che a sinistra non si vedevano da tre lustri abbondanti.
Il secondo, che altro non è che un effetto del primo: la crescita esponenziale della “Bestia” sui social, su ogni piattaforma, sull’intera galassia di pagine più o meno direttamente legate a Lega Salvini Premier, e in particolare sulla propria pagina Facebook, con un boom che ha pochi precedenti nella storia del social network inventato da Mark Zuckerberg.
Nel giro di appena due mesi, le interazioni settimanali passano dai 10 milioni di novembre ai quasi 14 milioni di fine gennaio, in coincidenza con l’apice della campagna elettorale in Emilia-Romagna e Calabria, mentre il numero complessivo di follower cresce dai 3,8 milioni agli attuali 4,1, con un aumento netto addirittura del +7,5 per cento: una performance sbalorditiva per una pagina che era già  la più seguita dell’intero social network e i cui margini di crescita erano, almeno in apparenza, pressochè nulli.
Anche il numero complessivo di post e video è cresciuto a dismisura, superando abbondantemente quota 200 settimanali, ma senza giustificare da soli un progresso così repentino.
Quanto abbiano inciso su questo boom il “doping” digitale di profili fake e bot acquistati in batteria è difficile tanto da affermare quanto da dimostrare.
Limitandoci ad osservare i numeri nudi e crudi, non è difficile ravvisare come il successo delle “sardinate” abbia provocato e, in un certo senso, alimentato una risposta social prepotente della “Bestia”, che ha trovato nel movimento di Mattia Santori al tempo stesso un avversario e uno sparring partner abbastanza forte e credibile da poter essere utilizzato di sponda e in contrasto.
D’altra parte, la comunicazione leghista è stata per anni un modello inarrivabile nell’uso dell’influenza dell’avversario come arma per la propria propaganda. Basti pensare a quando i personaggi di riferimento della sinistra — da Saviano a Renzi, alla Boldrini — venivano mostrati in serie, a ridosso delle grandi manifestazioni sovraniste, con tanto di foto e quattro parole diventate un mantra: “Lui (o lei) non ci sarà ”.
Fermi tutti, so cosa state pensando. “Ma questo non era un articolo sul crollo social della Lega?” E ancora: “Ma quale crollo? Dopo un boom del genere, quello di oggi è un normale calo fisiologico.” Le risposte a questi dubbi, più che legittimi, sono rispettivamente: Sì e No. Più esattamente: Sì, ora arriviamo al crollo. E No: non si tratta di un semplice calo fisiologico.
Sono trascorse più di due settimane dalle elezioni regionali che hanno visto Bonaccini sconfiggere nettamente Lucia Borgonzoni, fermando un filotto di dieci vittorie (considerando anche la Calabria) che avrebbe consegnato, di fatto, a Salvini non solo le chiavi della regione rossa per eccellenza ma dell’Italia intera.
L’impatto emotivo, prima ancora che numerico e politico, di quella notte — ora lo sappiamo, numeri alla mano — è stato devastante. Per la prima volta quel treno in corsa lanciato verso la conquista del Paese si è fermato bruscamente in stazione, con il doppio effetto di rafforzare gli avversari interni (su tutti Giorgia Meloni e i malpancisti dentro il partito sin qui rimasti silenti) e di mettere a nudo, per la seconda volta dopo il colpo di sole del Papeete, tutte le fragilità  della Bestia sul terreno a lei caro: la comunicazione social.
A certificarlo in modo impietoso ci sono gli insight della F più famosa del mondo: nell’ultima settimana le interazioni complessive di Matteo Salvini si sono fermate a 6,6 milioni, mentre sia il numero di follower, sia il numero di post è rimasto invariato.
Un risultato che, se gli permette di mantenere il primato, resta un dato straordinariamente deludente per una pagina da oltre 4 milioni di follower.
Per spiegarlo ancora meglio: dopo la sconfitta in Emilia-Romagna, Salvini non è “fisiologicamente” tornato ai 10 milioni di engagement pre-elettorale, ma ha fatto un balzo indietro addirittura di quasi 8 milioni di interazioni (per un clamoroso -60 per cento), fino a toccare un livello di coinvolgimento degli utenti mai così basso da anni.
Altro che calo fisiologico: siamo di fronte a una Waterloo social, che in casa Lega stanno vivendo in queste ore con un clima di crescente apprensione.
Questi numeri rappresentano un campanello d’allarme che nessuno si può permettere di sottovalutare, e dimostra per la prima volta in maniera plastica una tesi con cui chiunque si occupi di comunicazione politica social prima o poi deve fare i conti: che la propaganda virtuale funziona nella misura in cui funge da grancassa di un clima di consenso esistente o quantomeno percepibile nella società  reale, di cui post e tweet sono uno straordinario propellente virtuale.
Ma, nel momento in cui la macchina va a sbattere, viene sconfitta alle urne (non accadeva dal 2016) e si dimostra vulnerabile, Facebook e Instragram, da soli, non bastano per evitare lo scontro, ma, anzi, per certi versi, rendono ancora più manifesta la difficoltà  del momento, come la linea di mercurio su un termometro.

Lorenzo Tosa
(da TPI)

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SALVINI, LA FINE DI UNA MONARCHIA: IL RE LEGHISTA RIDIMENSIONATO ED AMMACCATO

Gennaio 27th, 2020 Riccardo Fucile

SI ALZANO I MUGUGNI INTERNI MENTRE LA MELONI PASSA ALL’INCASSO PER LE PROSSIME REGIONALI

Da domani non basteranno le citofonate ma serviranno i contenuti per riempire la lunga traversata nel deserto che attende Matteo Salvini.
E non basterà  nemmeno l’onnipotenza da leader monarchico della coalizione che pone veti sui candidati altrui, cerca di imporre profili marcatamente leghisti e oscura gli alleati di sempre.
Ecco, il dato politico della tornata elettorale di ieri ci consegna un re leghista, ridimensionato, ammaccato, senza più la corona.
Che non solo è stato sconfitto in quella che aveva definito la partita della vita, vale a dire l’Emilia Romagna, ma ora è messo sotto processo dagli storici compagni di coalizione, Fratelli d’Italia e Forza Italia.
Non a caso la pasionaria Giorgia Meloni avverte: “Ora si dia l’idea di squadra”. Che è un modo per ridiscutere tutte le candidature delle regionali della primavera prossima, dalla Toscana alla Puglia, dalla Campania alle Marche.
Eccezion fatta, per Liguria e Veneto dove il centrodestra schiererà  gli uscenti Giovanni Toti e Luca Zaia.
Sia come sia, è vero che il Capitano leghista, in una surreale conferenza stampa di circa sessanta minuti, dissimula, rispolvera l’importanza del gruppo e della coalizione e porge l’altra guancia quando appunto sottolinea che “mi sono alzato soddisfatto, abbiamo fatto quello che è stato possibile”. Perchè l’Emilia Romagna è la regione rossa per antonomasia, ed è già  un risultato essersela giocata al fotofinish. Come dire, una sconfitta ci può stare, anche perchè “siamo alla ottava vittoria su nove”.
Un attimo dopo però l’ex ministro dell’Interno ritorna in sè e si proietta già  in campagna elettorale, puntando tutte le fiches sulla tornata della primavera prossima quando si voterà  in sei regioni.
Ma se questa è la superficie di un racconto, la dichiarazione ufficiale da diffondere alla stampa, poi c’è la realtà  con cui scontrarsi.
E ora, appunto? Può essere ancora una volta il terreno della campagna elettorale la strategia di questo leader che gioca da solo, che oscura la sua candidata governatrice, che accentra tutto su di sè, e che si immagina presto, molto presto Palazzo Chigi?
A via Bellerio, manco a dirlo, ufficialmente sono tutti con l’ex ministro dell’interno e nessuno osa pubblicamente mettere in discussione una leadership che ha consentito al fu Carroccio di veleggiare ora al 30 per cento di media nazionale. Trattasi di un partito leninista.
Poi però ci sono i mugugni, i punti sulle i, che vengono a galla una volta che ci si ritrova davanti alla prima sconfitta vera, definitiva. E all’errore di aver reso il match emilian-romagnolo un referendum su sè stesso.
Eccolo allora il fronte interno. Quando i taccuini si chiudono alcuni uomini vicini a Giancarlo Giorgetti confidano che occorrerebbe aprire una riflessione per gli errori commessi nel corso di questo ultimo mese e mezzo.
Dal citofono alla drammatizzazione sul caso Gregoretti. Una propaganda che ha spaventato l’elettorato moderato dell’Emilia Romagna
Eppure c’è chi assicura che la resa dei conti si celebrerà  al consiglio federale di venerdì quando qualcuno proverà  a sollevare il polverone, cercando di far riflettere un leader abile a non passare la palla e a prendere qualsiasi decisione confrontandosi con la famosa Bestia di Luca Morisi.
Ad esempio, i nodi su cui ragionano alcuni fedelissimi dell’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio rimandano non solo alla debolezza di una candidata, Lucia Borgonzoni, “attorno alla quale bisognava almeno mettere in piedi una squadra più forte”, ma soprattutto alla selezione della classe dirigente.
“Ad oggi la Lega non è strutturata per andare oltre il 34 per cento, ma con il 34 per cento non si va da nessuna parte perchè si governa con il 50 per cento più”.
E per arrivare a quel numero non solo è necessario riconsiderare gli snobbati alleati Meloni e Berlusconi, che gli hanno consentito di vincere un’altra regione, la Calabria. Dove primeggia appunto Jole Santelli, la fedelissima del Cavaliere, grazie al traino di una ritrovata Forza Italia e a una serie di liste civiche di stampo moderato.
Stando alle osservazioni che giungono da alcuni leghisti, “Matteo dovrebbe fermarsi, coinvolgere il gruppo dirigente nelle decisioni, abbassare i toni per intercettare quel mondo di centro che oggi ci manda e ci è mancato alle regionali in Emilia Romagna”. In sintesi, parlare ai moderati.
Da qui in avanti se la dovrà  vedere con un fronte interno che parla sottovoce ma comincia a rumoreggiare e con un fronte esterno, coalizionale, ringalluzzito dalla performance calabrese.
“Il modello è quello calabro”, spiega Ignazio Larussa, fedelissimo della pasionaria di Fratelli d’Italia. “A sua tempo Giorgia aveva fatto delle obiezioni sulla Borgonzoni”.
E allora qual è la strategia per provare a vincere le sei regioni che torneranno al voto in primavera? Di certo, gli alleati   chiedono di sedersi al tavolo e discutere ogni singolo candidato.
Non ci saranno più profili imposti da via Bellerio. D’altro canto, insiste Larussa,   “resta il dubbio nel caso dell’Emilia Romagna che con una campagna elettorale meno esposta a livello del binomio candidato/partito di appartenenza e di certe esternazioni forse il trend sarebbe stato diverso. Non recrimino sul passato, ci serva da valutazione del futuro”.
Insomma, gli alleati oggi battono i pugni. Non accettano la monarchia salviniana. Ma ora tocca solo comprendere se l’ex ministro dell’Interno ha imparato la lezione, o se continuerà  a ballare da solo. Questa volta, però, senza più la corona.

(da “Huffingtonpost”)

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