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LA CANDIDATA DI SALVINI A ROMA ARRESTATA PERCHE’ VENDEVA INFORMAZIONI AI CLAN SULLE INDAGINI IN PROCURA

Giugno 26th, 2018 Riccardo Fucile

INSIEME A SEI AGENTI DI POLIZIA, ARRESTATA ANCHE SIMONA AMADIO, DIPENDENTE DELLA PROCURA DI ROMA E CANDIDATA ALLE AMMINISTRATIVE PER LA LEGA

Lui, un uomo legato al clan. Loro, poliziotti che gli fornivano indicazioni sui processi nei quali era coivolto.
I carabinieri del nucleo investigativo di Roma e gli agenti della Squadra mobile hanno eseguito all’alba un’operazione che ha portato in manette sei agenti di polizia, l’impreditore pregiudicato Carlo D’Aguano e   una dipendente della procura di Roma: sono accusati a vario titolo di corruzione per atti contrari ai doveri di ufficio, corruzione per l’esercizio della funzione, accesso abusivo al sistema informatico e rivelazione di segreti di ufficio. Un settimo poliziotto è stato raggiunto da una misura interdittiva.
Al centro dell’inchiesta, coordinata dai procuratori aggiunti Paolo Ielo e Michele Prestipino e dal sostituto Nadia Plastina, l’imprenditore Carlo D’Aguano, da tempo attenzionato dalla Direzione distrettuale antimafia per una serie di attività  legate alle sale giochi e presunti contatti con la camorra.
Le altre sette persone, a cominciare da Amadio e il compagno, poliziotti addetto al servizio scorte, sono tutte accusate di aver fornito a D’Aguano una serie di utilità  e informazioni sulle inchieste in cui era coinvolto in cambio di denaro e favori: in manette sono finiti oltre alla coppia, tre poliziotti del reparto volanti e due del Commissariato Fidene.
Tra gli arrestati c’è anche il poliziotto eroe Francesco Macaluso del reparto volanti. Macaluso è l’agente che martedì 17 aprile scorso riuscì ad afferrare per le gambe un giovane di 28 anni che tentava il suicidio dall’ultimo piano di un palazzo in via Lorenzo il Magnifico, a due passi da piazza Bologna. Per quel gesto Macaluso venne ricevuto anche dal capo della polizia, Gabrielli.
E’   stata candidata alle ultime elezioni amministrative del 2016 a Roma, nelle fila di ‘Noi con Salvini’, Simona Amadio, la funzionaria della procura finita in carcere.
In servizio nella segreteria di uno dei procuratori aggiunti, Amadio era compagna di Angelo Nalci (addetto all’ufficio scorte della Questura) anch’egli finito in carcere. Nell’ordinanza del gip Cinzia Parasporo viene citato un dialogo tra i due, in cui lei “ripercorre una conversazione avuta con D’Aguano che aveva necessità  di qualcuno che gli potesse fornire informazioni circa l’esistenza di procedimenti penali sul suo conto”.
Amadio dice: “Io Carlo me lo voglio tenere, allora tu devi pensare amore, che come tutti ‘gli impiccioni’ lui ha amici poliziotti… la talpa in Procura…lui (D’Aguano ndr)…la prima cosa che mi ha chiesto è: ‘mi posso fidare?’…a lui gli serve un appoggio in Procura, cioè qualcuno che va ad aprire a va a vedere”.
Figura centrale dell’inchiesta, la cancelliera, grazie al suo ruolo, aveva accesso alle informazioni su tutti i fascicoli di indagine.
Tanto che, nel marzo scorso, intercettata dai carabinieri , dice al fidanzato: “Ma sta gente che pensa…che io veramente da 23 anni sto a pettinare le bambole dentro alla Procura, prima di Milano e poi quella di Roma… Cioe’ se io voglio arrivo dappertutto… e a me nessuno mi dice di no. Il collega che mi ha fatto il favore di fare i tabulati – ricorda la Amadio facendo riferimento a un vecchio episodio -, lo sa che io mi faccio tagliare la gola ma i tabulati non escono fuori… a me nessuno mi dice di no… ma non perche’ sono un Padre eterno…perche’ in questi anni, forse, tra le tante sventure che mi sono capitate nella vita ho dato qualcosa a chi mi stava di fronte…quindi come si muovono, si muovono male”.

(da agenzie)

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ALLA LEGA DI SALVINI PIACE OFFSHORE: GLI AFFARI DEI CASSIERI DEL PARTITO

Giugno 2nd, 2018 Riccardo Fucile

DA BERGAMO AL LUSSEMBURGO VIA LUGANO: LA DIRETTRICE   LUNGO LA QUALE SI DIPANANO GLI AFFARI E I FINANZIAMENTI

In via Angelo Maj 24, a Bergamo, c’è un piccolo studio contabile di proprietà  di Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba.
Due professionisti come tanti, se non fosse per la loro ascesa, a partire dal 2014, all’interno dell’amministrazione del partito di Salvini.
Alla coppia, poco nota alle cronache, si aggiunge un terzo uomo, più conosciuto: Giulio Centemero, il tesoriere ufficiale del partito, voluto dal leader.
Centemero è stato eletto alla Camera alle ultime elezioni, ma è soprattutto l’uomo ingaggiato da Salvini per gestire i conti dopo gli scandali della truffa sui rimborsi elettorali durante la gestione di Umberto Bossi e Francesco Belsito.
Di Rubba, Manzoni e Centemero: i cassieri di Matteo, insomma.
Tutti nati nel 1979, tutti laureati in economia e commercio all’università  di Bergamo, dove si sono conosciuti nei primi anni 2000.
Un trio al cui vertice c’è proprio il neodeputato e tesoriere.
Gestiscono decine di società  con base in via Angelo Maj, nuovo quartier generale delle finanze leghiste,   sette delle quali controllate- attraverso delle fiduciarie italiane tra i cui soci c’è anche un’anonima impresa svizzera- da una holding lussemburghese che fa capo a un’altra fiduciaria. Impossibile dunque, vista la sofisticata schermatura finanziaria, sapere chi sono i reali proprietari delle società  registrate presso lo studio di Di Rubba e Manzoni.
E impossibile è anche conoscere l’origine dei capitali attraverso cui sono state costituite.
L’unica certezza è che seguendo il flusso di denaro si arriva nel Granducato, uno dei principali paradisi fiscali europei.
Ma non è tutto.
Approfondendo gli affari dei cassieri del Carroccio si arriva a un’impresa che noleggia auto, di proprietà  di Manzoni e Di Rubba, il cui fatturato si è impennato da quando la Lega è diventata sua cliente.
E c’è pure una grande tipografia della bergamasca, anche questa diventata fornitrice di punta del partito dopo l’elezioni di Salvini a segretario federale, il cui proprietario pochi giorni fa ha fatto guadagnare oltre un milione di euro a Di Rubba.
Da aprile scorso Manzoni e Di Rubba ricoprono anche una carica formale e delicata all’interno del partito: il primo è stato nominato direttore amministrativo del gruppo parlamentare alla Camera, il secondo è stato scelto come revisore legale del gruppo Lega al Senato.
Non solo: entrambi hanno ottenuto incarichi di peso all’interno della Pontida Fin e della Fin Group, ammiraglie finanziarie del partito.
Proprio la Fin Group ha cambiato sede con l’entrata in scena di Salvini e Centemero. Dalla storica via Bellerio, sede e simbolo di una Lega nordista, secessionista, padana, è stata trasferita in via Angelo Maj 24, presso lo studio Di Rubba – Manzoni, con quest’ultimo che è diventato l’amministratore unico della società .
Alle domande de L’Espresso, sia Centemero che i colleghi Di Rubba e Manzoni hanno risposto allo stesso modo. Non hanno fornito informazioni sui beneficiari ultimi delle fiduciarie, ma hanno assicurato che le sette aziende in questione non hanno legami nè diretti nè indiretti con la Lega. Tuttavia un fatto è indiscutibile: in una di queste imprese l’amministratore è il tesoriere del partito, cioè Centemero, e in una seconda lo stesso ruolo è ricoperto dal professionista Manzoni, scelto per vigilare sui conti del gruppo parlamentare alla Camera.
Sempre presso lo studio di Manzoni e Di Rubba è registrata anche la associazione culturale “Più Voci”: l’organizzazione fondata da Centemero, Di Rubba e Manzoni per incamerare contributi da imprenditori, di cui L’Espresso aveva dato conto in esclusiva due mesi fa nell’inchiesta di copertina “ I conti segreti di Salvini ”.
Sull’associazione Più voci questa volta la Lega ha risposto.
Lo ha fatto con il tesoriere Centemero: «I soldi ricevuti non sono stati trasferiti al partito o utilizzati in attività  di carattere politico, come ad esempio la campagna elettorale». Il tesoriere ha sottolineato che «l’associazione, come da ragione sociale, stimola il pluralismo dell’informazione, perciò i progetti di sostegno (le donazioni private, ndr) sono stati indirizzati su Radio Padania e su Il Populista (il giornale online edito da Mc Srl, ndr)».
Insomma, Centemero sostiene che quei soldi non servivano a finanziare la campagna elettorale della Lega, ma a sostenere l’informazione realizzata dai suoi media.
Difficile capire quale sia la differenza sostanziale, visto che Radio Padania e Il Populista sono testate attraverso cui la Lega fa campagna elettorale.
E piuttosto complicato risulta anche comprendere perchè, se le cose stanno così, Esselunga e Parnasi (i donatori dell’associazione che avevamo rivelato due mesi fa) non sono stati invitati a donare soldi direttamente a Radio Padania e a Il Populista.
Il tesoriere Centemero ci ha anche fatto sapere che l’associazione è ancora attiva, e che a partire dalla sua fondazione, nell’ottobre nel 2015, «ha raccolto qualche centinaia di migliaia di euro da aziende e privati».

(da “L’Espresso”)

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GIORGETTI E LA CLAMOROSA COERENZA DELLA LEGA SULL’EURO

Maggio 29th, 2018 Riccardo Fucile

OGGI DICE “MAI PENSATO DI USCIRE DALL’EURO, SONO CRITICO MA SENZA ECCESSI”, MA DIECI MESI FA SCRIVEVA L’OPPOSTO: “SE DICESSERO DI NO ALLE NOSTRE PROPOSTE NON CI FAREMO CERTO UMILIARE”

Oggi Giancarlo Giorgetti, capogruppo e vicesegretario della Lega, rilascia un’intervista a Carmelo Lopapa di Repubblica in cui spiega che c’è un equivoco, signori, la Lega è stata oggetto di una campagna di stampa con “allarmi strumentali” sulle sue posizioni riguardo l’euro.
Giorgetti assicura all’intervistatore che se la strategia del governo fosse stata quella che portava all’uscita dall’euro lui non l’avrebbe sostenuta perchè il capogruppo del Carroccio è per una critica all’Europa, sì, ma senza eccessi.
«Io non credo che il mio nome sia mai stato fatto dal Colle per l’Economia. Forse il presidente ha tracciato un identikit che è stato liberamente interpretato, ma non mi risulta»
Ha condiviso la soluzione “Savona o morte” di Salvini?
«Il professor Savona rappresenta il dna di questo governo. E vorrei spazzare via il campo dagli equivoci. Se la strategia fosse stata quella che portava all’uscita dall’euro, io non l’avrei sostenuta, nè avrei condiviso il contratto che lo prevedesse».
A dire il vero gli scritti e le dichiarazioni dell’economista non lasciano margini di incertezza.
«Qui sta l’errore. È un falso che fossimo pronti a uscire dall’Euro. Non avevamo alcun piano B. Allarmi strumentali. Io per primo sono sempre stato per una critica all’Europa, ma senza eccessi».
Chiaro, chiarissimo. Si vede proprio che Giancarlo Giorgetti è la mente della Lega.
E giusto per chiarire che Giorgetti non è mai stato uno cattivo e ha sempre criticato l’Europa “senza eccessi” si può andare a rileggere quello che ha scritto dieci mesi fa (non dieci anni fa, dieci mesi fa) in un articolo pubblicato su Il Populista, organo web della Lega Nord:
L’articolo, spiegano lo stesso Giorgetti e Claudio borghi Aquilini, ovvero responsabile politica estera e politica economica Lega Nord, sosteneva che su UE ed euro “la nostra posizione, democraticamente discussa e approvata a maggio all’ultimo Congresso di Parma con due nostre mozioni, è chiarissima, scritta e coerente da sempre. La riepiloghiamo in due righe per chi non avesse voglia di leggere i nostri documenti e per chi, magari, fa finta di non capire”.
E qual è la posizione, secondo quanto scrivevano i due?
Questa:
Gli altri Stati Europei sono partner naturali e fondamentali per l’Italia ma l’Unione Europea dopo Maastricht è diventata un mostro che danneggia tutti e soprattutto noi. Quindi noi vogliamo riscrivere tutti i trattati con l’obiettivo di tornare allo status di cooperazione pre-Maastricht che ha imposto moneta, parametri inventati di finanza pubblica e che col fiscal compact è diventato ancora più assurdo. Pensiamo che uno smantellamento controllato e concordato di Euro e trattati capestro sia nell’interesse di tutti. Se però dovessero dirci di no, non ci faremo umiliare come invece capita al Pd in ogni situazione, vedi beffa dei migranti.
Tutto chiaro quello che pensava dieci mesi fa il “moderato” Giorgetti che non ha mai cambiato idea, no?
Senza eccessi, l’Unione Europea è un mostro e, sempre senza eccessi per carità , l’euro bisogna smantellarlo; se ci dicono di no, non abbasseremo la testa (e che significa? Se sei per la modifica dei trattati e la modifica viene bocciata che fai? Mica abbandonerai l’euro unilateralmente, no?).
E speriamo che adesso sia chiaro a tutti quello che a Mattarella forse è stato ben chiaro fin dall’inizio.

(da “NextQuotidiano”)

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QUANDO SAPELLI, POSSIBILE PREMIER DEL GOVERNO M5S-LEGA, DICEVA CHE LA MATRICE DEL MOVIMENTO ERA DI STAMPO NEONAZISTA

Maggio 14th, 2018 Riccardo Fucile

SAREBBERO STATI SICURAMENTE CONTENTI GLI ELETTORI GRILLINI

C’è una intervista a Giulio Sapelli che circola parecchio sui social network ma non è di oggi, risale allo scorso settembre.
In una conversazione con VITA, il possibile presidente del Consiglio in quota Lega – in lizza con il candidato M5S, il giurista Giuseppe Conte – attaccava duramente il Movimento 5 Stelle, uno dei due partiti che sulla base dell’accordo di governo potrebbe conferirgli l’incarico da presidente del Consiglio di un esecutivo giallo verde. L’economista commentava i risultati delle elezioni in Germania che avevano visto l’ascesa di Afd, il partito di estrema destra che per la prima volta dalla fine del nazismo metteva di nuovo piede nel Bundestag. Ecco uno stralcio:
Non è una cosa drammatica?
No perchè bisogna anche dire che non tutti nel AfD la pensano così, un caso è Alice Weidel e che hanno preso solo il 12%. Esiste un arco istituzionale in Germania, in cui si muovno molti partiti che sapranno arginare questi neonazisti. Mi sembra, da questo punto di vista, che la situazione sia molto più preoccupante in Italia con il M5S. La Germania è vaccinata e ha gli anticorpi. Noi no. E non mi riferisco alle presunte istanze populiste del Movimento di Beppe Grillo, ma al suo evidente dna di matrice neonazista.

(da “Huffingtonpost”)

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IL CAZZARO VERDE: TRAVAGLIO DISTRUGGE SALVINI. “UN FANFARONE CHE NESSUNO HA MAI PRESO SUL SERIO”

Maggio 6th, 2018 Riccardo Fucile

“E’ IL LEADER PIU’ VECCHIO, IN POLITICA DA 28 ANNI, NEMICO A PAROLE DELLE RACCOMANDAZIONI E’ RIUSCITO A PORTARSI IL FRATELLO DI BOSSI COME PORTABORSE AL PARLAMENTO EUROPEO E A PIAZZARE DUE EX MOGLI A CARICO DEI CONTRIBUENTI”… “NEMICO DELLA UE SALVO CHE DELLO STIPENDIO CHE PRENDE DALLA UE, CONFONDE IL LIBRO SACRO DEGLI EBREI CON IL CORANO”

Non so voi, ma io ho una voglia matta di un bell’incarico al Cazzaro Verde, al secolo Matteo Salvini.
Sono due mesi che reprimo questa irrefrenabile pulsione, ma ora non ce la faccio più: l’idea di vederlo uscire dal Quirinale col pennacchio e i galloni di premier incaricato sulla felpa è troppo allettante, soprattutto dal punto di vista estetico e scenico.
Lo so che, per un incarico pieno, il presidente della Repubblica pretende una maggioranza con numeri certi in Parlamento, altrimenti preferisce sciogliere le Camere e far gestire le nuove elezioni da un governo elettorale di minoranza che si faccia bocciare in Parlamento e resti in carica per gli affari correnti (come il governo Gentiloni, ma non più espressione di un partito che ha appena dimezzato i suoi voti). E questa, intendiamoci, è l’unica via costituzionalmente corretta.
Però sperare non costa niente, e io spero che Salvini venga finalmente messo alla prova.
La sua fortuna, infatti, è che nessuno l’abbia mai chiamato a un pizzico di responsabilità , nei 28 anni della sua carriera politica (è il leader politicamente più vecchio su piazza, essendosi iscritto alla Lega nel lontano 1990, essendo stato eletto consigliere comunale a Milano nel 1993, e rappresenta il partito più vecchio sul mercato, l’ultimo nato nella Prima Repubblica, classe 1989).
È più di un quarto di secolo che il Cazzaro verde spara a salve, senza che nessuno verifichi mai la sua mira.
Le rare volte che qualcuno ha provato a inchiodarlo a un dato di fatto, la sua maschera è caduta da sola.
Quando sbarcò dalla Lombardia al Parlamento europeo, nel 2004, l’anti-Casta Salvini si portò il fratello di Bossi come assistente parlamentare (“portaborse”, direbbero i padani duri e puri di una volta, ma con un curriculum di tutto rispetto: terza media e scuola commerciale, negozio di autoricambi a Fagnano Olona, allenatore della squadra di ciclismo della Padania, il che giustificava il modico stipendio di 12.750 euro al mese).
Nemico giurato delle raccomandazioni e dei familismi di Roma ladrona, l’intransigente Salvini ebbe l’ex moglie Fabrizia Ieluzzi sistemata al Comune di Milano con contratti a chiamata dalle giunte Albertini e poi Moratti, e poi la sua nuova compagna Giulia Martinelli assunta a chiamata alla Regione Lombardia dalla giunta Maroni a 70 mila euro l’anno.
Quando esplode lo scandalo dei rimborsi del Carroccio rubati o buttati dal tesoriere per mantenere la famiglia Bossi, Salvini fa il moralista: “La mia paghetta era 500 lire”. Lui con la Family non c’entra, ci mancherebbe: infatti pochi mesi prima era in ferie col Trota.
All’Europarlamento, le rare volte che ci mette piede (a fine mese non manca mai per ritirare lo stipendio da quel “Gulag sovietico” che per lui è l’Ue, senza offesa per l’amico Putin), matura grande esperienza internazionale.
Infatti, dopo la strage di Charlie Hebdo, spiega a Sky che l’estremismo islamico deriva “da un’errata interpretazione della Torah” (il libro sacro degli ebrei, che lui confonde col Corano: forse per l’assonanza col dio Thor, figlio di Odino, nel cui culto celtico si sposavano i leghisti d’antan).
Un’altra volta riesce a trasformare in uno statista persino Balotelli, chiedendo il rimpatrio del ghanese del Milan Muntari, definito “un immigrato che non lavora”, e beccandosi la lavata di capo del campione italiano di colore (“Ma davvero Salvini è un politico? Allora votate me, è meglio”).
Ora, siccome è piuttosto rozzo ma tutt’altro che fesso, lucra sul declino di B., succhiando i voti di FI grazie a una serie bluff che funzionano solo perchè nessuno va mai a vedere.
Tipo le ricette miracolistiche contro gli immigrati e i rom (curiosamente presenti in massa anche nelle regioni e nei comuni amministrati dalla Lega), contro l’Ue (che lo mantiene da 14 anni a spese nostre), contro la legge Fornero e pro Flat tax.
Diversamente da Di Maio, che per tentare di fare un governo, anzichè cambiare tutto subito, s’è accontentato di cambiare qualcosa nel tempo, il Cazzaro Verde ha continuato a ripetere — restando serio — che gli basta l’incarico per, nell’ordine: trovare una maggioranza (in due minuti), fare il governo (subito), espellere tutti i clandestini e bloccare tutti i nuovi sbarchi (oggi pomeriggio), cancellare la Fornero (domattina), tagliare le tasse all’aliquota unica del 15% (domani sera) e accontentare il M5S con mezzo reddito di cittadinanza (entro dopodomani al massimo).
E solo nei primi due o tre giorni: seguiranno altre cuccagne.
Siccome tutti sanno che è un fanfarone e nessuno l’ha mai preso sul serio, non è tenuto a dire con quali parlamentari farà  la maggioranza, chi glieli comprerà  e con quali soldi manterrà  le promesse elettorali.
Ma intanto la gente ci casca e lui vola nei sondaggi. In questi due mesi ha raccontato solo balle (a Mattarella, a B., a Di Maio), giurando a B. eterna fedeltà  a FI e contemporaneamente assicurando al M5S l’imminente sganciamento da FI, annunciando intanto urbi et orbi che, se dipendesse da lui, il governo sarebbe già  bell’e fatto. “Datemi ancora due giorni…”, “Appena si vota in Molise…”, “Aspettate il Friuli e poi vedrete…”.
L’ultima supercazzola è il “governo di scopo”, a guida leghista e “a termine fino a dicembre” (e perchè non fine gennaio o metà  aprile?), praticamente pronto col centrodestra unito e i 5Stelle, per “cambiare la legge elettorale”: il fatto che il M5S non voglia vedere B. neppure in cartolina, che Di Maio non voglia fargli da ruota di scorta e che i tre partiti di destra e i 5Stelle propongano quattro leggi elettorali diverse e incompatibili, per tacere di tutto il resto, sono dettagli che non lo riguardano.
La prego, presidente Mattarella, gli dia l’incarico: dopo tanta noia, anche lei ha bisogno di un po’ di svago.

Marco Travaglio
(da “il Fatto Quotidiano”)

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GIORGETTI EVOCA LA RIBELLIONE DEL NORD CONTRO UN GOVERNO M5S-PD, COME BOSSI EVOCAVA I 300.000 SCHIOPPI BERGAMASCHI O MINACCIAVA LO SCIOPERO FISCALE PRIMA DELLE VACANZE

Aprile 25th, 2018 Riccardo Fucile

NON SI E’ ACCORTO CHE QUELLI STANNO A PENSARE AL CONTO IN BANCA E AI CAZZI LORO COME HANNO SEMPRE FATTO

“Chi dovesse consentire e siglare il sodalizio M5S-Pd si assumerebbe una grande responsabilità , non solo perchè verrebbe lasciata fuori dal governo la coalizione che ha vinto le elezioni a vantaggio dei secondi e dei terzi, ma ancor più perchè verrebbe escluso dall’area di governo tutto il Nord produttivo. L’esasperazione delle regioni che continueranno a tirare la carretta non so se sarà  ancora contenibile”: è un Giancarlo Giorgetti in forma bossiana quello che si presenta oggi in un’intervista a Repubblica per paventare addirittura pericoli per la democrazia da un governo formato da forze liberamente elette in Parlamento.
Un po’ come i 300mila martiri bergamaschi che il Senatùr era pronto a scatenare ai bei tempi in cui ancora guadagnava i titoli delle prime pagine dei giornali.
E infatti anche Giorgetti dice che “faremo fatica a contenere certe spinte perfino secessionistiche. Penso al Veneto, per esempio, con forti propensioni autonomistiche da noi canalizzate responsabilmente nel referendum autonomista”.
Sembra proprio di essere tornati ai bei tempi in cui la Lega minacciava lo sciopero fiscale (tutte le volte, alla vigilia dell’estate) e poi puntualmente non succedeva nulla perchè   il ricatto politico del momento era andato a buon fine con due sottosegretari in più.

(da agenzie)

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L’IDEOLOGO DELLA FLAT TAX DI SALVINI E LA CONDANNA PER BANCAROTTA FRAUDOLENTA

Aprile 24th, 2018 Riccardo Fucile

ARMANDO SIRI, NEO SENATORE DELLA LEGA, E   LA PENA RICEVUTA PER UNA SOCIETA’ SVUOTATA DAI BENI

Nella puntata di Report dedicata alla flat tax ieri ha parlato anche Armando Siri, il senatore della Lega che è l’alfiere della proposta del partito di Salvini.
Siri ha detto la sua sulle coperture della flat tax e parlato anche del patteggiamento per bancarotta fraudolenta che l’ha visto protagonista:
Siri: “Ma guardi io ultimamente sento solo previsioni negative. Se tu non hai un po’ di speranza nel domani, se non hai un po’ di forza nell’intravedere il domani in modo positivo e cosa fai ti arrendi?
Sì, ma voglio dire con la speranza ci facciamo poco. Mi dica qualcosa di più…
“No ma guardi la speranza, l’immaginazione, i sogni e l’ottimismo sono alla base di tutta la crescita evolutiva dell’uomo. Se lei non immagina le cose, le cose non avvengono.”
In estremissima sintesi, possiamo dire che il recupero dei 63 miliardi per voi significa recuperare dall’evasione e stralcio delle cartelle esattoriali.
“Non è evasione, è sommerso, son due cose diverse. Io non mi rivolgo a quello che deve essere ovviamente perseguito, trovato e come dire sanzionato. Mi rivolgo invece a quei migliaia di atteggiamenti che sono forme di difesa fiscale, di difesa verso un fisco aggressivo, fortemente sanzionatorio.”
L’Espresso dice che lei ha avuto, ha patteggiato una pena di un anno e otto mesi per bancarotta fraudolenta, ha lasciato un debito, la sua società , di un milione di euro, e non ha pagato tasse per 162 mila euro. Me la racconta questa storia?
“Ma aver patteggiato non significa aver compiuto atti di bancarotta fraudolenta, io non ho mai compiuto atti di bancarotta fraudolenta.”
Lei ha riconosciuto che c’era il…
“No, io non ho riconosciuto affatto nulla.”
Cioè lei a un certo punto ha detto andiamo a patteggiare perchè così me ne libero.
“No guardi glielo spiego, no, non è che siamo tutti ricchi o siamo tutti Berlusconi che possiamo pagare gli avvocati. Siamo tutti persone normali
L’intervistatore si riferisce a un articolo pubblicato il mese scorso da Giovanni Tizian e Stefano Vergine su L’Espresso, che racconta le vicende in cui è rimasto coinvolto Siri: la condanna è stata comminata tre anni e mezzo fa dal tribunale di Milano in sede di patteggiamento per il fallimento della Mediatalia, società  che ha lasciato debiti per oltre 1 milione di euro.
Secondo i magistrati che hanno firmato la sentenza, prima del crack Siri e soci hanno svuotato l’azienda trasferendo il patrimonio a un’altra impresa la cui sede legale è stata poco dopo spostata nel Delaware, paradiso fiscale americano.
Secondo il racconto della vicenda Mediaitalia, società  che produceva contenuti editoriali per media e aziende (editava anche la rivista della Air One di Carlo Toto), aveva debiti per un milione di euro quando Siri e gli altri soci hanno trasferito il suo patrimonio alla Mafea Comunication, gratuitamente.
Meno di un anno dopo Siri decide di chiudere la MediaItalia e nomina come liquidatrice Maria Nancy Marte Miniel, immigrata in Italia da Santo Domingo e oggi ufficialmente titolare di un negozio di parrucche e toupet a Perugia.
«Una vera e propria testa di legno», la definiranno i giudici nella sentenza di condanna. Già , perchè la donna non ha le competenze per gestire un’azienda nè i mezzi per pagare i debiti.
E così a rimanere con il cerino in mano sono i creditori della MediaItalia: fornitori, banche e lo Stato italiano.
Lo stesso che adesso Siri vuole rappresentare in qualità  di uomo di governo.
La sentenza del tribunale di Milano parla chiaro: l’ideologo della flat tax e i suoi soci, Fabrizio Milan e Andrea Iannuzzi, hanno provocato il fallimento della società  con operazioni dolose, svuotando l’azienda e omettendo di pagare alle amministrazioni dello Stato 162 mila euro tra tasse e contributi previdenziali.
Altre due società  italiane in cui il guru economico di Salvini ha avuto ruoli di spicco (socio di maggioranza e amministratore unico) hanno trasferito la sede legale nella piazza offshore a stelle e strisce.
È successo negli stessi anni in cui la MediaItalia andava a picco.
Le aziende in questione si chiamano Top Fly Edizioni e Metropolitan Coffee and Food.

(da “NextQuotidiano”)

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LEGHISTI OFFSHORE: E I SOLDI PER LA BENEFICENZA VOLANO A MALTA

Aprile 19th, 2018 Riccardo Fucile

UNA FONDAZIONE PRESIEDUTA DA UN LEGHISTA HA INVESTITO MILIONI SUI TITOLI DI PICCOLE SOCIETA’ CON BASE SULL’ISOLA

È una miniera di sorprese l’ultima pagina della millenaria storia del castello medievale di Collalto Sabino, 70 chilometri da Roma sulla strada per L’Aquila.
Tra investimenti milionari, intrighi politici e conflitti d’interessi assortiti, si arriva nell’isola di Malta, dopo una sosta a Mauritius, paradiso vacanziero nell’Oceano Indiano. Niente più papi e cardinali, nobili e briganti, che per secoli hanno popolato le stanze della fortezza nel reatino.
La trama che L’Espresso è in grado di svelare racconta i sorprendenti affari di un ente benefico con sede a Varese sostenuto e finanziato dalla potente Fondazione Cariplo. Dietro le quinte si muovono professionisti con solidi agganci politici.
Come per esempio Luca Galli, targato Lega per un decennio e più fino all’espulsione dal partito, l’estate scorsa.
E poi Andrea Gemma, consigliere di amministrazione dell’Eni, avvocato dalle mille relazioni nei palazzi del potere romano, in primis con Angelino Alfano, ministro degli Esteri dimissionario.
Per tirare le fila di questa vicenda conviene partire da Malta, piattaforma d’affari nel Mediterraneo ad alta densità  di investitori internazionali, attratti dai generosi sconti fiscali del governo di La Valletta.
Batte bandiera maltese il gruppo Global Capital, una piccola compagnia di assicurazioni che una quindicina di anni fa ha investito circa 3 milioni di euro per comprare il castello di Collalto Sabino, con le sue alte mura merlate che cingono un palazzo nobiliare con nove camere da letto, saloni, sala da ballo e biblioteca.
L’affare italiano non sembra aver portato molta fortuna a Global Capital.
Le cronache finanziarie danno conto della storia piuttosto travagliata della società , che fino al 2015 era controllata dal miliardario mauriziano Dawood Rawat, a capo della British American Investment company (Bai) con base a Mauritius.
Il cambio di governo nel minuscolo Paese africano, un milione e duecentomila abitanti, è stato fatale al finanziere, molto vicino al primo ministro uscente Navinchandra Ramgoolam. Accusato di una gigantesca truffa da oltre 600 milioni di dollari, tre anni fa Rawat è stato costretto a fuggire all’estero per non essere arrestato, mentre le sue proprietà  venivano commissariate.
Arrivano gli italiani
Gli effetti del ribaltone si sono fatti sentire anche a Malta. Global Capital esce dall’orbita del gruppo Rawat e a metà  del 2015 compare all’orizzonte un nuovo socio forte, l’italiano Paolo Catalfamo, 55 anni, una lunga carriera alle spalle come gestore di fondi e investitore in proprio.
Catalfamo non è entrato in scena per caso. È stato console onorario in Italia di Mauritius, dove risulta residente, e gli vengono anche attribuiti buoni rapporti con Navinchandra Ramgoolam, l’ex primo ministro che fu a suo tempo sponsor di Rawat, il miliardario caduto in disgrazia. Tramite la Investar, una holding con base a Malta, il nuovo arrivato mette sul piatto una manciata di milioni e prende il controllo della compagnia di assicurazioni di La Valletta.
Ad aprile 2016 su Global Capital sventola il tricolore italiano.
Nel consiglio di amministrazione presieduto da Catalfamo troviamo l’avvocato quarantenne Andrea Gemma, protagonista di una rapidissima carriera. Insieme a Gemma, nel board maltese siede anche il leghista Luca Galli, che in passato ha collezionato poltrone in Cariplo, nel gruppo bancario Intesa e in Finlombarda, controllata dalla regione Lombardia.
I due amministratori di Global Capital hanno condiviso almeno un altro incarico: entrambi sono stati consiglieri di Serenissima sgr, la società  di gestione di fondi immobiliari che fa capo alla Centrale Finanziaria presieduta da Giancarlo Elia Valori, un altro nome che ricorre da decenni nel mondo di mezzo tra la politica e gli affari.
Soldi dalla Onlus
Torniamo a Malta. Una volta in sella, Catalfamo fa il pieno di capitali freschi. Nel corso dei primi mesi del 2016 Global Capital e la holding Investar piazzano sul mercato obbligazioni per un totale di 15 milioni di euro.
Chi ha sottoscritto quei titoli? La Fondazione comunitaria del Varesotto sborsa circa 2,5 milioni. I documenti ufficiali che L’Espresso ha potuto consultare rivelano che 720 mila euro sono andati a Global Capital, mentre 1,8 milioni hanno preso il volo verso la Investar di Catalfamo.
In altre parole, il piccolo ente con sede a Varese ha investito quasi il 20 per cento del proprio portafoglio titoli puntando sulle obbligazioni di due società  maltesi, praticamente sconosciute fuori dall’isola.
Una scelta sorprendente per un’istituzione benefica nata 20 anni fa per «migliorare la qualità  della vita della comunità  e promuovere la cultura della donazione», finanziando tra l’altro la ricerca scientifica, le attività  culturali, l’assistenza sociale e sanitaria.
La Fondazione comunitaria del Varesotto opera di fatto come un satellite di Cariplo, che oltre ad avere voce in capitolo nella nomina del consiglio di amministrazione è anche di gran lunga il principale finanziatore.
Bilanci alla mano, ora si scopre che la onlus varesina è diventata uno sponsor importante della Investar di Catalfamo, che ha come unica attività  in bilancio la partecipazione azionaria in Global Capital.
I conti della holding maltese segnalano che la quota di controllo nel capitale della compagnia di assicurazioni vale 4,4 milioni finanziati per intero con il prestito da 5 milioni emesso all’inizio del 2016.
Lo stesso prestito che è stato sottoscritto per 1,8 milioni (il 36 per cento del totale) dalla Fondazione comunitaria del Varesotto.
Le obbligazioni sono convertibili in azioni Global Capital nel settembre di ogni anno a partire dal 2017 e in prospettiva potrebbero rivelarsi molto difficili da liquidare, visto che sono trattate soltanto in un piccolo listino alternativo maltese.
Interessi in conflitto
Per quale motivo un ente benefico, che dovrebbe evitare speculazioni finanziarie, si è avventurato fino a Malta per investire in una piccola compagnia di assicurazioni e in una holding come la Investar che a fine 2016, data dell’ultimo bilancio disponibile, vantava mezzi propri per soli 139 mila euro?
Dalle carte emerge che la rotta di Global Capital si incrocia almeno in un’altra occasione con la onlus varesina.
Come detto, infatti, tra gli amministratori della società  maltese compare il nome di Luca Galli. Proprio lui, il consulente finanziario nonchè piccolo imprenditore di Castellanza (ramo costruzioni), a lungo esponente di punta della Lega in provincia di Varese. Galli fino all’estate scorsa sedeva sulla poltrona di presidente della Fondazione comunitaria del Varesotto.
Ricapitoliamo: nel 2016 l’ente guidato da Galli investe 2,5 milioni di euro nelle obbligazioni Global Capital e della controllante Investar.
A luglio di quell’anno, lo stesso Galli entra anche nel consiglio della compagnia di assicurazioni di La Valletta. «Conosco Galli da una decina di anni», ha spiegato Catalfamo a L’Espresso. «Gli ho chiesto di entrare in consiglio proprio per poter sorvegliare da vicino la gestione della compagnia in cui aveva investito la Fondazione che presiedeva».
Ribaltone a metà 
Per un po’ tutto fila liscio, a Varese. L’ente benefico approva il bilancio dove vengono segnalati gli investimenti a Malta e il 1° giugno del 2017 i 14 amministratori votano all’unanimità  la riconferma del presidente uscente Galli, designato da Cariplo.
Nel board della fondazione varesina siedono importanti esponenti delle professioni e dell’imprenditoria locale, come l’avvocato leghista Andrea Mascetti, l’ex presidente dell’Unione industriali, Michele Graglia, il banchiere Giorgio Papa, già  direttore generale della finanziaria regionale Finlombarda e dal 2015 alla guida della Popolare Bari.
Un primo stop a Galli arriva il 13 luglio 2017. Quel giorno il presidente si presenta dimissionario davanti al consiglio della fondazione varesina, che prende atto del passo indietro. È una svolta sorprendente, visto che solo 40 giorni prima Galli era stato riconfermato all’unanimità .
Nel frattempo la Lega aveva scaricato il suo dirigente, espulso poche ore prima di lasciare l’incarico di vertice nella onlus con le obbligazioni a Malta. L
a decisione non è mai stata motivata, ma non è difficile metterla in relazione con il coinvolgimento di Galli in un’indagine della procura di Varese sulla gestione della casa di riposo cittadina.
L’ex leghista, però, ha fatto un passo indietro solo a metà : è infatti ancora amministratore della Fondazione, ora presieduta da Maurizio Ampollini, legato al mondo del volontariato.
«Stiamo cercando di vendere i titoli maltesi un po’ alla volta», spiega Ampollini , «ma serve tempo».
Intanto la società  Quaestio, partecipata da Cariplo, ha completato la sua verifica sulla consistenza e i rischi legati agli investimenti dell’ente benefico varesino.
Le sorprese non mancano. E ancora una volta si corre sul filo del conflitto d’interessi. Galli, in questo caso insieme all’avvocato Gemma, compare tra gli amministratori di Serenissima sgr, a cui fa capo il fondo Real Energy. Ebbene, dai documenti ufficiali risulta che la Fondazione Varesina ha investito 520 mila euro proprio nel fondo Real Energy.
Tra il 2016 e il 2017 sono inoltre state comprate obbligazioni e una garanzia ipotecaria per un totale di 1,5 milioni collocate dalla società  Mata, a cui fanno capo alcune operazioni immobiliari tra Milano e Pavia. Fino all’estate del 2016 uno dei tre amministratori di Mata era il leghista Galli. Ancora lui.

(da “L’Espresso”)

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NOIOSO, ASTUTO, BOCCONIANO: CHI E’ GIANCARLO GIORGETTI, IL GIANNI LETTA DELLA LEGA

Aprile 13th, 2018 Riccardo Fucile

SOPRAVVISSUTO AL DECLINO DI BOSSI, STA IN PARLAMENTO DA VENT’ANNI: PACATO, MAI POLEMICO, CON TANTI AMICI IMPORTANTI

L’ospitata da Bruno Vespa a Porta a Porta. Di prima mattina su Raitre ad Agorà . Il faccia a faccia con Giovanni Minoli per La7. Una lunga intervista in solitaria nella seconda serata di Rai Due.
Da un mese la faccia di Giancarlo Giorgetti, il numero due della Lega, rimbalza da un talk show all’altro come mai prima d’ora. E poi ci sono i giornali: anche qui dichiarazioni a raffica e interviste.
Una faticaccia per lui, tipo schivo, riflessivo. Uno che non ha mai smesso di giocare da portiere anche dopo aver abbandonato scarpette e guantoni tra i cimeli di gioventù. Nel senso che il vice di Matteo Salvini sta sempre sulla difensiva, para le domande dell’interlocutore di turno e non si lascia mai sfuggire una sillaba di troppo. Niente polemiche. Mai una provocazione.
Insomma, l’esatto contrario del leader leghista, di cui Giorgetti una volta disse di apprezzare soprattutto «la genuina sfrontatezza». Due parole buttate lì, giusto per marcare la distanza caratteriale da Salvini e dal suo modo di fare politica.
Non è più tempo di comizi, adesso. Ora che la Lega ha fatto il pieno di voti, e punta al governo, i toni forti da campagna elettorale lasciano spazio alla manovre di corridoio. Basta slogan, si naviga a vista alla ricerca di un compromesso.
Ecco Giorgetti, allora. La faccia pacata e dialogante del partito che fu di Umberto Bossi.
Tanto pacato e dialogante che a Roma, nei palazzi del potere, c’è chi lo vede addirittura a Palazzo Chigi, frutto di una mediazione tra Cinque Stelle e leghisti che taglierebbe fuori i due capipartito, Di Maio e Salvini.
«Ma figurarsi, non mi conosce nessuno», si è schermito il diretto interessato in una recente intervista. Una risposta quasi scontata, in linea con l’immagine di se stesso che il numero due della Lega cerca da sempre di accreditare. Quella del politico che studia e lavora dietro le quinte.
Uno serio e preparato che però, quando parla in pubblico, rischia di sembrare noioso per via di quell’argomentare piatto, senza fronzoli.
Il peso di una candidatura non si misura solo sulla bilancia della popolarità . Da più di vent’anni in Parlamento, eletto per la prima volta alla Camera nel 1996, Giorgetti, diploma da perito aziendale, laurea alla Bocconi, commercialista e revisore dei conti è diventato il pontiere della Lega verso i poteri dell’economia e della finanza.
La biografia ufficiale racconta delle sue umili origini: nato nel 1966 in un paesino sul lago di Varese (Cazzago Brabbia, 800 abitanti), padre pescatore e madre operaia. Nessun salotto buono, quindi. Ma l’ascesa del giovane leghista, in parallelo con i primi passi nella partito di Bossi, è stata favorita da parentele altolocate.
Non tanto quella, da più parti citata, con il cugino banchiere Massimo Ponzellini, peraltro caduto in disgrazia nel 2011, con tanto di condanna penale, dopo l’ascesa alla presidenza della Popolare di Milano.
In famiglia c’è un altro Ponzellini, di nome Gianluca, che vanta rapporti di altissimo livello, in un sistema di porte girevoli che porta direttamente ai piani più elevati dell’establishment italiano: banche, grandi imprese di Stato, grandi famiglie del capitalismo nazionale.
Gianluca Ponzellini, varesino, 71 anni, commercialista di grande esperienza, in quasi mezzo secolo di carriera ha collezionato incarichi, molto spesso come membro del collegio sindacale, in grandi gruppi come Telecom Italia, Intesa SanPaolo, Alitalia, Benetton.
Il suo percorso professionale corre parallelo a quello del collega e socio Angelo Provasoli, un altro peso massimo, forte di uno sterminato curriculum accademico e professionale.
Rettore dell’Università  Bocconi tra il 2004 e il 2008, Provasoli, per citare solo gli incarichi più recenti, è stato presidente del collegio sindacale della Cassa depositi e prestiti, dell’Enel e di Expo, presidente di Rcs-Corriere della Sera, consigliere di Telecom Italia.
Fresco di laurea in economia e commercio, Giorgetti è andato a farsi le ossa alla Metodo, società  di consulenza e revisione dei conti fondata da Provasoli e Ponzellini quasi 40 anni fa. Per il giovane bocconiano quel primo lavoro nelle stanze dei suoi maestri è stata un’occasione d’oro per vedere da vicino come funziona il mondo degli affari e per collezionare contatti che potevano tornare utili in futuro.
Siamo nei primi anni Novanta e in quella fase storica la Lega cresce grazie al fiuto politico del leader Bossi, sull’onda della retorica del federalismo e di Roma ladrona.
Il partito nordista fatica però a reclutare dirigenti esperti in economia e Giorgetti, che era già  stato sindaco del suo paese natale, non fa molta fatica a farsi notare dall’Umberto, il padre fondatore del movimento che abita a una quindicina di chilometri da Cazzago Brabbia.
E così nel 1996, quando non ha ancora compiuto trent’anni, il bocconiano della Lega diventa deputato. Nel 2000 il suo nome compare già  tra i 15 dirigenti scelti da Bossi per la cosiddetta segreteria federale, con il ruolo di responsabile del settore economia. A meno di un ventennio di distanza Giorgetti è l’unico ancora in pista in quel gruppo di fedelissimi del senatur.
Nel frattempo, dentro la Lega è successo di tutto. Tra cambi di linea politica, regolamenti di conti interni e inchieste giudiziarie, ai piani alti del partito è andato in scena un ribaltone dopo l’altro.
Tramontata la stella di Bossi, per via della salute malferma e delle condanne in tribunale, nel 2012 è salito al vertice Roberto Maroni, che davanti ai militanti brandiva una ramazza per fare piazza pulita dei dirigenti inetti e corrotti. Alla fine è stato Salvini a chiudere la partita, cavalcando la ribellione sovranista e la paura per la presunta invasione dei migranti.
Nell’arco di vent’anni sono cambiati facce e slogan, perfino il marchio del partito, che ha abbandonato ogni riferimento al Nord.
Giorgetti invece è rimasto Giorgetti. Ha coltivato con grande abilità  la sua immagine di politico alla mano, dai gusti semplici, lontano dalla ribalta mediatica.
È ancora, per esempio, un grande tifoso del Varese calcio, nonostante i guai societari che ne hanno provocato a più riprese il fallimento. E mentre deputati e senatori di ogni schieramento amano farsi vedere in tribuna d’onore per le partite dei grandi club, lui, il leghista di lotta e di governo, è stato segnalato in qualche campo di provincia per tifare in trasferta la sua squadra del cuore precipitata nel campionato di Eccellenza, tra i dilettanti.
Con il passare degli anni, Giorgetti ha saputo mettere a frutto nel migliore dei modi la sua fama di sgobbone. È stato capace di trasformare i fulmini delle tempeste interne della Lega in energia per continuare la sua personale scalata al potere.
Del resto non è un caso se già  nel 2009, come si legge nei dispacci diplomatici segreti rivelati da WikiLeaks, il consolato americano a Milano pronosticava un futuro da leader per il deputato varesotto, descritto come “sharp” e “well respected”, cioè scaltro e molto stimato.
Da presidente della commissione Bilancio della Camera (2001-2006 e 2008-20013) e poi come ufficiale di collegamento con i poteri forti della finanza, l’ex fedelissimo di Bossi ha messo mano a tutti i dossier più delicati di politica economica, compresa la manovra correttiva dei conti pubblici che nella convulsa estate del 2011 finì nel mirino dell’Unione Europea e della Bce.
Di lì a poco il governo Berlusconi, con Giulio Tremonti ministro dell’Economia, arrivò a fine corsa aprendo la stagione dei tagli con il marchio di Mario Monti.
Giusto il tempo di una sosta ai box e nel 2013 Giorgetti viene chiamato dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel gruppo ristretto di dieci saggi, tutti accademici e politici di lungo corso, incaricati di elaborare un piano di riforme istituzionali ed economiche.
Nel frattempo la Lega, chiusa la breve parentesi di Maroni, dal 2014 diventa il partito di Salvini. Un partito contro: contro l’euro, contro Bruxelles, contro la Bce, contro i poteri forti della finanza. È una battaglia a suon di slogan e il nuovo leader si affida a generali come Claudio Borghi e Armando Siri, propagandisti in servizio permanente effettivo contro la moneta unica e il fisco oppressore.
A prima vista il clima sembra congeniale a Giorgetti come la savana a un orso bianco. E invece no. La politica è fatta di compromessi. L’hanno imparato perfino i Cinque Stelle duri e puri. E Salvini, in vista dell’assalto finale al governo del Paese, non può fare a meno dell’esperienza e della capacità  manovriera del leghista varesotto, nel frattempo promosso vicesegretario del partito.
È stato Giorgetti, giovedì 5 aprile, ad accompagnare al Quirinale il capo della Lega per il primo giro di consultazioni per il nuovo governo. Due settimane prima, il 21 marzo, la coppia era stata ricevuta all’ambasciata americana a Roma.
Il Le Pen de noantri con il Gianni Letta lumbard.

(da “L’Espresso”)

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