Destra di Popolo.net

PENSIONI DI CITTADINANZA, RINVIO AL 2020?

Dicembre 18th, 2018 Riccardo Fucile

INSIEME AL BLOCCO DELL’ADEGUAMENTO ALL’INFLAZIONE, PERMETTEREBBERO DI TAGLIARE UN ALTRO MILIARDO… UN’ALTRA PROMESSA SCRITTA SULLA SABBIA

Le pensioni di cittadinanza erano state il primo provvedimento annunciato addirittura per il primo gennaio 2019 dalla viceministra più senza deleghe della storia Laura Castelli.
E proprio le pensioni di cittadinanza sono oggi candidate allo slittamento o al rinvio al 2020 per ridurre la dotazione a deficit della Manovra del Popolo e mettere a posto i conti.
Il Messaggero spiega oggi che tutto parte dal contributo di solidarietà  per le pensioni più alte: si parla di portarlo a 100 mila dai 90 mila originariamente previsti, sempre con un prelievo a scaglioni che arriverebbe al 40% per la quota al di sopra dei 500 mila euro.
In contemporanea l’istituzione del reddito di cittadinanza sarebbe dovuto salire a 780 euro mensili anche l’importo dei trattamenti erogati dall’Inps che hanno una componente assistenziale parziale o totale, dalle pensioni integrate al minimo agli assegni sociali: una giungla di prestazioni nella quale occorrerebbe razionalizzare e mettere ordine, con il rischio concreto di ridurre i benefici per una parte della platea a fronte degli aumenti per altri.
Basta pensare che era già  stato preso in considerazione il ricorso all’Isee, mentre oggi la gran parte di questi trattamenti sono erogati sulla base del reddito personale o familiare.
La via della delega permetterebbe di procedere con più cautela ed allo stesso tempo può assicurare una minore spesa di oltre 1 miliardo.
Le risorse messe insieme con i tagli alle pensioni alte e il nuovo blocco dell’adeguamento all’inflazione andrebbero invece a migliorare i saldi.

(da “NextQuotidiano”)

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L’ESPERTO DI PENSIONI DELLA LEGA BOCCIA LA RIFORMA DELLE PENSIONI DELLA LEGA

Dicembre 14th, 2018 Riccardo Fucile

ALBERTO BRAMBILLA: “E’ SOLO UNA PEZZA, UN MECCANISMO LIMITATO A   TRE ANNI SCATENERA’ LA CORSA ALLE DOMANDE, SBAGLIATE LE FINESTRE”

Il rischio che i tre anni di meccanismo scatenino una corsa alla pensione. E quello, conseguenziale, delle finestre da rimandare di volta in volta.
Alberto Brambilla, esperto di pensioni della Lega, in un’intervista al Corriere della Sera fa a pezzi Quota 100:
«C’è il rischio che prevedere questo meccanismo solo per tre anni scateni una corsa alle domande perchè oggi le regole sono queste, domani chissà . Ma nel 2019 ci si dovrebbe stare. Solo a patto di introdurre una serie di paletti per rallentare le uscite, come le finestre di tre mesi, e per sfoltire le domande, come il divieto di cumulo. Non proprio il massimo».
In che senso?
«In nessun Paese civile ci sono le finestre, perchè quando maturi i requisiti per andare in pensione è giusto che la pensione ti venga data subito. Stesso discorso per il divieto di cumulo perchè non puoi dire a chi va in pensione che si deve sedere ai giardinetti altrimenti arriva la polizia a casa. Ricordo che in Italia, su 16 milioni di pensionati, ce n’è un milione che lavora».
Quindi la soluzione non la convince?
«No, anche se credo che la strada sarà  quella. Io, però, ho proposto una soluzione alternativa. Partire da quelle persone che avranno raggiunto la quota 100 già  al 31 dicembre di quest’anno. E dare la precedenza a chi è rimasto bloccato più a lungo dalla riforma Monti-Fornero: quelli che, come somma di età  anagrafica e contributi versati, hanno una quota ancora più elevata, ad esempio 105. Poi, a regime, introdurre una flessibilità  che consenta di uscire fino a 71 anni, con almeno 64 anni d’età  e 39 di contributi. Questa sarebbe una riforma strutturale».
Quella voluta dal governo non lo è?
«Direi proprio di no. Mi sembra una pezza a colori».

(da “NextQuotidiano”)

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SGARBI E LA PENSIONE SENZA LAVORO

Dicembre 6th, 2018 Riccardo Fucile

E’ LA POLITICA CHE HA PAGATO LA PENSIONE AL FUNZIONARIO DEI BENI CULTURALI IN ASPETTATIVA PERMANENTE

Verrà  brevettato come il metodo Sgarbi. Andare in pensione senza lavorare un giorno è un’arte che può e deve essere riservata a pochi (specialmente per i conti dello Stato) ma è assai remunerativa, anche se l’assegno dell’INPS tra i 2500 e i 3500 euro che prenderà  non basterà  per la sua casa, dove si spendono 30mila euro ogni mese tra assistenti e dipendenti.
Racconta oggi Luciano Cerasa sul Fatto:
La sua pensione non è e non poteva maturare coi presunti contributi figurativi versati dall’amministrazione dei Beni culturali.
L’aspettativa non retribuita cui allude il critico d’arte infatti non comporta il riconoscimento di contributi, anche se dà  diritto al lavoratore di fare se vuole dei versamenti contributivi volontari.
E allora? Dal 1° gennaio 2012 la legge Fornero ha fissato a 66 anni per gli uomini l’età  anagrafica dalla quale si può andare in pensione di vecchiaia. L’altro requisito è quello di aver versato almeno 20 anni di contributi
Sgarbi, nato nel 1952, ha effettivamente compiuto 66 anni.
Per quanto riguarda il suo montante contributivo ha iniziato a lavorare a 20 anni come supplente di latino nelle scuole.
La legge 300 del 1970 prevede il riconoscimento di contributi figurativi per l’aspettativa sindacale e per le cariche elettive. Il valore del montante è equiparato ai versamenti che sono stati effettuati nell’ultimo posto di lavoro.
Sgarbi è stato deputato dal 1992 al 2006, assessore alla cultura del comune di Milano tra il 2006 e il 2008, sindaco Udc-Dc di Salemi dal 2008 al 2012, assessore in Sicilia fino al 2016 e nel 2018 rieletto deputato e sindaco di Sutri.
Il riscatto della laurea e della specializzazione universitaria ha fatto il resto.
È la politica che ha pagato la pensione al funzionario dei Beni culturali in aspettativa permanente Vittorio Sgarbi, non la sua impunita latitanza dalla P.A.
Se le cariche elettive possano essere considerate poi una professione e un lavoro, è un’altra storia.

(da “NextQuotidiano”)

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BOERI AVVERTE: “SU QUOTA 100 I CONTI NON TORNANO, L’INPS RISCHIA L’ASSALTO”

Novembre 19th, 2018 Riccardo Fucile

“I CONTI SONO SBAGLIATI, AUMENTERA’ LA SPESA, BASTA DELIGITTIMARE LE ISTITUZIONI”

“I conti non tornano”. Lo dice con chiarezza Tito Boeri, presidente dell’Inps che al Corriere della Sera spiega i rischi della riforma delle pensioni che il Governo ha intenzione di portare a termine.
Le simulazioni fatte, sottolinea, mettono in evidenza un inevitabile aumento della spesa. Boeri lancia poi un allarme: il governo ha fatto promesse molto impegnative sulla previdenza e l’Inps rischia l’assalto. I suoi dipendenti subiscono troppo spesso aggressioni.
Si legge sul quotidiano:
“Quello che il governo deciderà , noi ci metteremo pancia a terra a realizzarlo. Come sempre. Ma spetta all’Inps segnalare per tempo potenziali violazioni del patto intergenerazionale di cui è garante: le persone mi fermano per strada e mi chiedono se le loro pensioni verranno pagate. Quando i chiarimenti sulle intenzioni effettive del governo non ci vengono dati nelle sedi istituzionali, siamo costretti a chiederli pubblicamente. Perchè dobbiamo essere messi nelle condizioni di prepararci e ragguagliare i cittadini. “Non vogliamo fare da parafulmine per reazioni a promesse non mantenute. I nostri dipendenti negli uffici territoriali subiscono quotidianamente aggressioni al punto che, Salvini lo sa bene, abbiamo dovuto chiedere di rafforzare la sorveglianza davanti alle sedi”.
La cifra prevista nel disegno di legge di Bilancio per la previdenza, sostiene il presidente dell’Inps, è insufficiente e inevitabilmente la spesa aumenterà .
Un dato, questo, che secondo Boeri pare evidente già  dall’analisi delle simulazioni che l’Istituto ha fatto.
Boeri torna poi sulla sua posizione di presidente dell’Inps e sul suo futuro dice:
“Se il presidente del Consiglio mi convocasse e mi dicesse che non c’è più fiducia in me, non aspetterei un minuto di più. Lascerei. Ma non posso farlo per un tweet . E trovo pericolosa per la nostra democrazia la delegittimazione sistematica di organi in dipendenti, autorità  di controllo, regolatori o pareri tecnici”.

(da “Huffingtonpost”)

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LA DENUNCIA DI BOERI: “PER QUOTA 100 MANCANO LE RISORSE PER IL 2020 E 20121

Novembre 15th, 2018 Riccardo Fucile

“IL GOVERNO VUOLE AUMENTARE I PENSIONATI… “DAL SECONDO ANNO COSTERA’ IL DOPPIO DEL PREVISTO”

L’introduzione di quota 100 per anticipare l’accesso alla pensione rischia di non essere strutturale, perchè le risorse accantonate dal governo potrebbero essere insufficienti.
È l’allarme lanciato dal presidente dell’Inps Tito Boeri secondo cui “mancano risorse per il 2020 e il 2021”.
“Secondo tutte le nostre simulazioni -ha spiegato Boeri a margine di un evento organizzato dalla Fondazione Umberto Veronesi all’Università  Bocconi di Milano -, costa in alcuni casi un terzo in più e in altri casi addirittura due volte in più rispetto al primo anno”.
“Eppure – ha ricordato il presidente Inps, nella legge di bilancio, è previsto che la dotazione del fondo che paga quelle pensioni è praticamente la stessa e vari di poche centinaia di milioni: 6,7 miliardi nel 2019 e 7 miliardi nel 2020 e 2021”.
“È doveroso – ha aggiunto –   dare le giuste informazioni a tutti gli italiani, se noi permettiamo di andare in pensione prima, come ad esempio un requisito di 38 più 62, e il primo anno prevediamo delle finestre che di fatto ritardano l’uscita verso la pensione, inevitabilmente il secondo anno questa misura costerà  di più che nel primo”.
Boeri ha quindi espresso le sue critiche sull’idea sostenuta dal governo che consentire di anticipare il pensionamento possa avvantaggiare i giovani nell’ingresso nel mercato del lavoro. “Il governo si è posto come obiettivo quello di aumentare i pensionati”, ha detto. “Quando si chiede perchè si vogliono aumentare i pensionati, ci viene detto che serve per incrementare il tasso di occupazione dei giovani, ma se questo è l’obiettivo allora bisogna abbassare le tasse sul lavoro e creare occupazione e non capisco cosa c’entrino le pensioni”.

(da agenzie)

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MAMMA, MI SI E’ RISTRETTA LA PENSIONE DI CITTADINANZA: ARRIVERA’ SOLO AL 15% DEI PENSIONATI AL MINIMO

Novembre 13th, 2018 Riccardo Fucile

STANZIATI SOLO 900 MILIONI: APPENA 500.000 SU 3.200.000 RICEVERANNO 138 EURO IN PIU’

Sembrava ieri ma era soltanto il 14 settembre scorso quando la viceministra Laura Castelli, rimangiandosi la promessa del reddito di cittadinanza pronto a gennaio 2019, annunciava con l’aria di chi ha finito il set di pentole ma ha ancora la Mountain Bike con il cambio Shimano: «Come promesso. Partiremo il primo gennaio con le pensioni di cittadinanza, portando le minime a 780 euro. Intanto ci occuperemo della riforma dei centri per l’impiego. Abbiamo calcolato che ci vogliono 3-4 mesi. Successivamente partirà  il reddito di cittadinanza».
E invece no. La pensione di cittadinanza a 780 euro, «un segno di civiltà » come diceva Luigi Di Maio, finirà  nelle tasche di soli 500 mila pensionati, un 15% appena dei 3 milioni e 200 mila che vivono grazie all’integrazione al minimo e che oggi ricevono 507 euro e 42 centesimi al mese.
Spiega oggi Valentina Conte su Repubblica che lo stanziamento sarà  di 900 milioni sui nove miliardi a disposizione, ovvero il 10%.
Il resto verrà  così suddiviso: 7,1 miliardi al reddito di cittadinanza (di cui 2,2 miliardi già  messi dal governo Gentiloni per il Rei) e 1 miliardo ai centri per l’impiego.
A conti fatti dunque, i più fortunati tra i pensionati poveri riceveranno 138 euro al mese.
Passando così a 645 euro e 42 centesimi. Non proprio la soglia “di cittadinanza”. «L’Europa ci dice che il minimo per riuscire a sopravvivere è 780 euro al mese», insisteva Di Maio in tv poco più di un mese fa.
Una promessa che non manterrà . «Per la prima volta vogliamo dare qualcosa ai pensionati e non trattarli come vacche da mungere».
Cos’è successo invece? Le risorse a disposizione, come già  sembrava chiaro a molti osservatori, sono insufficienti per arrivare a tutti.
E la riuscita del reddito di cittadinanza viene considerata prioritaria, sebbene ci siano «difficoltà  potenziali» nella sua attuazione, ammette ora Stefano Buffagni, sottosegretario a Palazzo Chigi.
Quindi non tutte le pensioni da 500 euro saliranno e non tutte arriveranno alla soglia di 780 euro, quella “di civiltà ”.
Un limite sarà  la soglia ISEE a 9630, un altro sarà  la casa di proprietà , anche se il 60% delle famiglie sotto la soglia di povertà  vive in affitto. E ci saranno altri paletti per restringere la platea, altrimenti i soldi non bastano.
Senza pensare che i pensionati poveri non sono solo quelli al minimo. Ci sono gli invalidi (Salvini prometteva di intervenire: «Un milione di invalidi civili vivono con 278 euro al mese», diceva). E i pensionati sociali: 2,9 milioni di persone.
In tutto, quasi 7 milioni. Beneficiarne solo 500 mila significa arrivare al 7%. Avendo però creato una fortissima aspettativa nel Paese.
È già  successo con la quattordicesima di Renzi. File ai Caf e proteste di quanti scoprirono che non spettava a tutti, ma solo alle pensioni fino a due volte il minimo. La questione è delicata. I pensionati sono una fetta importante dell’elettorato.
E chissà  cosa succederà  quando i numeri del reddito di cittadinanza non piaceranno agli elettori.

(da “NextQuotidiano”)

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ANDATE IN PENSIONE CON QUOTA 100? RICEVERETE DAL 5% AL 34% IN MENO. E IL COSTO SALE DA 7 A 13 MILIARDI

Novembre 12th, 2018 Riccardo Fucile

SE NON ARRIVATE A FINE MESE, TUTTI A PRANZO E CENA DA SALVINI… MA IL SERVIZIO STIRO CAMICIE E’ SOSPESO, COMPRATEVI IL FERRO E PROVVEDETE DA SOLI

La finestra di “quota 100” che il governo si prepara ad aprire nel 2019 per permettere di andare in pensione in anticipo rispetto ai requisiti attualmente in vigore rischia di costare caro ai futuri pensionandi.
I conti li ha fatti l’Ufficio Parlamentare di Bilancio che in audizione oggi sulla Manovra ha provato a simulare gli effetti dell’entrata in vigore della misura.
Secondo le stime dell’Upb, il taglio all’importo può variare da un minimo del 5,06% in caso di pensionamento con un solo anno di anticipo rispetto alla Legge Fornero, fino a un massimo del 34,17% nel caso di anticipo di 6 anni.
Una sforbiciata che dipende inevitabilmente dalla minor quota di contributi versata che concorre alla formazione dell’assegno: per questo la riduzione è maggiore più sono gli anni di anticipo alla pensione.
La scorsa settimana, interpellato direttamente sulla questione a “Otto e mezzo”, il ministro dell’Interno Matteo Salvini aveva escluso qualsiasi tipo di riduzione degli importi. “Non ci sarà  nessuna penalizzazione”, aveva detto. “Non ho capito da dove esca” questa simulazione, aveva aggiunto.
Il riferimento della domanda era alle stime già  comunicate dal presidente dell’Inps Tito Boeri, secondo cui ad esempio un lavoratore medio della Pa, andando in pensione a 62 anzichè a 67 anni, avrebbe visto il proprio assegno ridursi di circa 500 euro.
In ogni caso, ha spiegato l’Upb, proprio a fronte di queste penalizzazioni è esclusa che l’intera platea potenziale di possibili beneficiari di quota 100 – pari a 437 mila persone – decida di scegliere il pensionamento anticipato.
Anche perchè – ha rilevato l’Upb- in questo caso la spesa necessaria ammonterebbe a oltre 13 miliardi, circa il doppio di quanto stanziato in Manovra.
“Questa stima – ha chiarito il presidente dell’Upb Giuseppe Pisauro – non è ovviamente direttamente confrontabile con le risorse stanziate nel Fondo per la revisione del sistema pensionistico per vari fattori: dal tasso di sostituzione dei potenziali pensionati con nuovi lavoratori attivi a valutazioni di carattere soggettivo (condizione di salute o penosità  del lavoro) o oggettivo (tasso di sostituzione tra reddito e pensione, divieto di cumulo tra pensione e altri redditi, altre forme di penalizzazione)”.
Quindi se da un lato quasi mezzo milione potranno, in teoria, andare in pensione prima, una combinazione di fattori, tra cui proprio la penalizzazione dell’assegno, dovrebbe convincere una parte a restare al lavoro.
Un concetto chiarito dallo stesso Pisauro rispondendo alle domande dei parlamentari: Nella stima del governo – ha detto – “è incorporata l’idea che la metà ” delle persone che potrebbe utilizzare la misura “non vada in pensione”.

(da “La Repubblica”)

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PRECARI, PART-TIME E PARTITE IVA: ECCO CHI NON ARRIVERA’ MAI ALLA PENSIONE, ALTRO CHE PENSARE A QUOTA 100

Novembre 5th, 2018 Riccardo Fucile

UNA BOMBA CHE ESPLODERA’ NEI PROSSIMI ANNI… NON HANNO ACCUMULATO ABBASTANZA MESI DI CONTRIBUZIONE NEL CORSO DELLA VITA

Pulire i pavimenti, apparecchiare i tavoli della mensa, servire i pasti.
Una volta che gli alunni sono tornati in classe, sparecchiare, lavare, portare fuori la pattumiera. In tre ore. Certo, è un lavoro che lascia molto tempo libero, ma se a farlo è una signora di 72 anni con la schiena a pezzi rischia di essere alquanto pesante.
Questa signora, che abita a Novate Milanese, profondo e ricco Nord, ha avviato una battaglia legale contro l’Inps per difendere il suo diritto alla pensione: «Ha iniziato a lavorare nel 1961, nel 1971 si è dedicata alla famiglia, si è rimessa all’opera sette anni dopo. Dal 2000 lavora con un contratto part time ciclico nelle mense scolastiche. L’Inps per via di un’errata e discriminatoria interpretazione della legge, ritiene non abbia maturato l’anzianità  di servizio, cioè i 20 anni di contributi, per accedere alla pensione. Nel frattempo la signora ha avuto problemi di salute ed essendo in malattia da parecchio tempo, rischia il licenziamento», racconta all’Espresso l’avvocato Daniela Manassero.
Com’è possibile che a 72 anni suonati non ci si possa concedere una serena pensione dopo aver sgobbato decenni?
«Nel solo settore scolastico ci sono 100 mila persone in questa situazione. È il personale che si occupa delle pulizie, della ristorazione, della manutenzione degli edifici, dell’assistenza agli alunni disabili. Dovranno continuare a lavorare ben oltre i settant’anni per avere una pensione misera. Ed è solo la punta di un gigantesco iceberg che si infrangerà  sull’Inps non appena i lavoratori flessibili e quelli che hanno iniziato a lavorare dopo il ’95, cioè con l’introduzione del sistema contributivo e l’avvento dei contratti precari, avranno i capelli bianchi», spiega il sindacalista della Cgil Giorgio Raoul Ortolani.
Il ticchettio di una bomba sociale che esploderà  fra un decennio.
E mentre l’Italia si guarda l’ombelico, presa fra reddito di cittadinanza e quota 100, il tempo per disinnescare l’ordigno si riduce.
In base all’indagine condotta dal ricercatore della Sapienza Michele Raitano e pubblicata nel Rapporto sullo Stato Sociale, il 44 per cento delle persone entrate nel mondo del lavoro dopo il ’95 ha avuto un salario inferiore ai 12 mila euro lordi per tre anni su dieci, un altro 20 per cento ha trascorso sei anni su dieci in questa stessa condizione. Solo il 36 per cento di chi è entrato nel mondo del lavoro da vent’anni ha una storia contributiva piena.
Rispetto al lavoratore medio, che percepisce circa 21 mila euro annui, solo il 22,7 per cento ha una contribuzione maggiore, mentre il 44,5 per cento ha accumulato meno di 12 mila euro.
Se questo 44,5 per cento della popolazione non comincerà  subito (e per i successivi 15/20 anni) a guadagnare, si ritroverà  con una pensione al di sotto del reddito di povertà : «Sotto questa soglia c’è il 51 per cento delle donne, il 35 per cento dei laureati, il 42 per cento dei diplomati e il 58 per cento di chi si è fermato alla scuola dell’obbligo», dice Raitano.
Il caso dei centomila addetti delle scuole è emblematico per capire quello che sta per succedere a metà  della popolazione lavorativa italiana. Nonostante abbiano lavorato 20 anni, per l’Inps non hanno accumulato sufficienti mesi di contribuzione.
È il caso della signora settantaduenne di Milano, difesa dall’avvocato Manassero contro l’Inps: «L’ente di previdenza ritiene che questa signora debba continuare a lavorare ancora per tre anni e sette mesi per raggiungere il minimo di vent’anni contributivi». Questo perchè l’Inps non considera i mesi estivi (quelli in cui le mense scolastiche sono chiuse) nel conto degli anni di lavoro, nonostante avesse un contratto a tempo indeterminato di tipo part time “ciclico verticale” (cioè si sta a casa per un determinato periodo dell’anno).
Il sindacalista Ortolani racconta che nella sola Lombardia ci sono 2.500 lavoratori pronti a passare alle vie legali: «L’Inps sta perdendo tutte le cause e viene regolarmente condannato a pagare 9.200 euro per i tre gradi di giudizio. Per le sole spese di lite l’Inps dovrebbe sborsare 23 milioni».
Oltre al settore scolastico, si trova nella stessa situazione l’intero sistema di cura e assistenza sanitaria, l’ambito delle pulizie, i lavori stagionali e la ristorazione, gli assistenti di volo e gli addetti al turismo, dipendenti di imprese private con contratti a tempo parziale o a singhiozzo, persino qualche dipendente part-time dello stesso Inps ha fatto causa e ci sono sempre più spesso i metalmeccanici stagionali in questa condizione: tutti con voragini contributive. «Persino gli stagionali della Piaggio di Pontedera sono in questa stessa situazione», dice il sindacalista, confermando un fenomeno generalizzato.
A sollevare il problema erano stati nel 2010 gli assistenti di volo di Alitalia che avevano lavorato oltre vent’anni con un contratto part time “ciclico verticale”, quindi alcuni mesi sì e altri no.
Dopo che l’Inps aveva negato il loro diritto alla pensione, si erano rivolti alla Corte di Giustizia Europea, che aveva dato loro ragione, per un principio di non discriminazione dei lavoratori a tempo parziale.
«Del resto, chi ha questi contratti non ha diritto ad alcuna indennità  di disoccupazione, perchè si tratta di un tempo indeterminato», fa notare l’avvocato Manassero, che sta seguendo decine di pratiche nei settori più svariati. L’Inps non sana la questione perchè è compito del governo prendere provvedimenti. Nella scorsa legislatura erano stati presentati in Finanziaria 2018 due emendamenti, uno da parte del Pd, l’altro del Movimento 5 Stelle, ma il governo Gentiloni non aveva consentito il voto. Stavolta Lega e 5 Stelle si sono impegnati a trovare le risorse per risolvere il problema, ma nella manovra di quest’anno non se ne fa cenno.
«Se per questi lavoratori è possibile trovare una soluzione legale, facendo leva sul contratto a tempo indeterminato, per tutti gli altri precari, segnati da carriere discontinue, non sarà  così facile», continua il sindacalista Ortolani.
Infatti ogni lavoratore deve guadagnare almeno 200 euro a settimana, per un totale di 10.440 euro l’anno per vedersi accreditare l’annualità  ai fini della pensione: «È una soglia che neppure i lavoratori part-time che lavorano 12 mesi l’anno raggiungono se non superano le 24 ore lavorative settimanali».
Nel caso in cui il lavoratore non la raggiunga, il numero di settimane considerate al fine pensionistico si riduce. «I minimi contributivi sono stati definiti nel 1992, quando il lavoro era una certezza.
Oggi oltre il 25 per cento dei lavoratori dipendenti è part time e quei minimi sono per molti inavvicinabili». Tutti i precari, i lavoratori a singhiozzo, quelli a termine e intermittenti, le partite Iva da fame dovranno fare i conti con quella che si può definire una bomba sociale.
Racconta Giuliano Benetti, direttore del patronato Inca della Cgil di Brescia che: «C’è molto malcontento. Arrivano molte donne, sessantenni, che continuano a fare lavori duri per raggiungere la soglia dei 20 anni di contributi che da diritto alla pensione di anzianità  di 750 euro. Mi chiedono se vale la pena continuare a lavorare, se tanto avranno il reddito di cittadinanza».
Il collega di Milano, Francesco Castellotti, racconta di ultrasessantenni scioccati per l’entità  misera delle pensioni che riceveranno: «Si mangiano le mani per non aver fatto un fondo complementare, una pensione secondaria, e spesso decidono di continuare a lavorare, pur avendo diritto alla pensione. Ci sono persone di 70 anni che, per via di buchi contributivi, non raggiungono i 20 anni di contributi e domandano quanto dovrebbero versare, volontariamente, perchè sanno bene che nessuno sarà  disposto a offrire un lavoro a un anziano».
Mauro Paris, segretario regionale dei patronati Inca della Cgil, racconta di muratori di 65 anni che chiedono se potranno sfruttare la quota 100 caldeggiata dal ministro dell’Interno: «Ma sarà  necessario avere entrambi i requisiti di età  (almeno 62 anni) e di anni contributivi (devono essere 38) con non più di due anni di contributi figurativi. Si capisce che gli aventi diritto non saranno molti». E poi ci sono i 75 mila giovani che sempre all’Inca lombardo non chiedono la pensione, ma l’assegno di disoccupazione: «Sta crescendo il numero degli under 35 che non riesce a entrare stabilmente nel mondo del lavoro e in loro c’è molta disillusione».
Siamo sicuri che il reddito di cittadinanza e la quota 100 siano gli strumenti adatti per sostenere una gioventù scoraggiata?

(da “L’Espresso”)

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QUELLO CHE IL GOVERNO NON DICE SU QUOTA 100

Ottobre 31st, 2018 Riccardo Fucile

L’ASSEGNO SARA’ PESANTEMENTE RIDOTTO, NON HA ABOLITO AFFATTO LA FORNERO E SLITTERA’ A META’ ANNO

Uno dei più assillanti cavalli di battaglia delle forze rossobrune è stato per mesi “il superamento della Fornero”.
Ovvero quella riforma delle pensioni, varata sotto la pressione della crisi dei debiti sovrani, che ha tentato di mettere in sicurezza le malamente bucate casse dell’INPS.
Cosa faceva la Fornero? Principalmente completava un processo lento di riforma del sistema iniziato nel 1995 (contributivo) innalzando i requisiti per l’accesso alla pensione e calibrando i coefficienti di trasformazione dei contributi alla aspettativa di vita.
Tutto ciò in previsione di una curva demografica particolarmente sfavorevole fra il 2030 e il 2050.
Ma obbedendo a misteriose teorie economiche secondo le quali per ogni pensionato c’è un nuovo assunto e altrettanto misteriosi modelli econometrici che dicono che avere più pensionati crea un forte stimolo alla domanda, il governo pentastellato ha messo nell’alveo delle condizioni non negoziabili la Quota 100; ovvero pensione anticipata con 62 anni di età  e 38 anni di contributi.
Diciamo prima di tutto a chi si aspetta ricchi premi e cotillons per i pensionandi che la Quota 100 non equivale affatto alla cancellazione della legge Fornero.
L’impianto della legge resta con l’estensione a tutti del calcolo contributivo; e diciamo anche che la dizione “quota 100” è impropria perchè, ad esempio, se l’aspirante pensionato ha 61 anni di età  e 39 anni di contributi non potrà  fare domanda di pensionamento.
Si tratta in realtà  di una banale reintroduzione della pensione di anzianità .
L’amara sorpresa è che per gli effetti del calcolo contributivo, moltiplicato per i coefficienti di trasformazione legati all’aspettativa di vita, il nostro aspirante sessantaduenne vedrà  il suo assegno pesantemente ridotto rispetto alla media degli ultimi redditi.
Le anticipazioni di stampa sul testo definitivo approvato in CDM dicono che alla fine la misura è stata stralciata e sarà  oggetto di un Disegno di Legge collegato.
Insomma una manina ha tolto dalla manovra una delle voci del deficit.
Qui si apre uno scenario interessante. È perfettamente comprensibile che lo slittamento rispetto ai tempi di entrata in vigore della legge di Bilancio possa essere dovuto alla necessità  tecnica di individuare le finestre di uscita per il 2019 (2, 4, 10, chi lo sa).
Ma questa ipotesi mal si interfaccia con la pressante esigenza dei due vicepremier di dare in pasto ai loro elettori una promessa mantenuta.
Più probabile che nel braccio di ferro col Ministro Tria (e con la commissione europea che continua a chiedere chiarimenti sui numeri della manovra e sui fattori rilevanti mai svelati) si sia deciso di far scivolare di qualche trimestre il maggior deficit atteso per effetto dei nuovi requisiti di uscita dal mondo del lavoro.
Posticipare, ad esempio a Giugno 2019, l’entrata in vigore della norma significherebbe ridurre sensibilmente quella spesa di qualche miliardo e magari evitare la procedura di infrazione, traslando i maggiori effetti nel 2020 quando ci sarà  l’aumento dell’Iva a coprirne i costi.
È chiaramente un gioco delle 3 carte di chi è alla disperata ricerca di una pezza per coprire i buchi di promesse sciagurate.
Ma Conte, Di Maio e Salvini non avevano detto che la staffetta generazionale sarebbe stata un potente stimolo alla crescita?
Mentivano prima, mentono adesso o mentono sempre?

(da “NextQuotidiano”)

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