Luglio 9th, 2014 Riccardo Fucile
PROVINCE E TAGLI, UNO SCHERZO… MANCANO ANCORA I DECRETI ATTUATIVI: DAI 200 MILIONI DI EURO CREDITO D’IMPOSTA PER LA RICERCA AI 240 MILIONI DI RISPARMI NEI MINISTERI
Addio, Province. Bentornate, Province. Arrivederci, Province.
Che me ne faccio di queste Province? Neanche il governo l’ha capito.
I testi sfilano in scioltezza in Consiglio dei ministri: senza i decreti attuativi, che non fanno passerella (ma sono sostanza), la legge non viene applicata.
E le Province, massa di competenze ancora astruse e dipendenti ancora appesi, muoiono lentamente, dunque con sofferenza.
Il dicastero di Maria Carmela Lanzetta (Affari Regionali) non ha risolto la contesa per ricalibrare i poteri nei territori: niente più sagre per le Province, ma la scuola, le strade e poi i trasporti?
I soldi non ci sono, e da tempo.
I trasferimenti furono eliminati all’impronta dai tecnici di Mario Monti, e l’agonia è cominciata presto.
E adesso, attesi invano i regolamenti questa settimana e forse compiuti a fine mese, non c’è denaro per pagare i servizi essenziali.
Ma i governi provinciali devono “resistere” sino a settembre.
Il sottosegretario Graziano Delrio, all’epoca ministro agli Affari Regionali, voleva consegnare ai sindaci uno spazio più largo, da gestire assieme, e non più la colletta di prebende che le Province smistavano dai capoluoghi regionali: meccanismi più fluidi, risparmi, anche se il numero di amministratori non scompariva (e non è un particolare da poco).
Ma in novanta giorni — la legge per il riordino è entrata in vigore l’8 aprile — Lanzetta e governo non sono riusciti a plasmare le nuove Province.
I dipendenti restano dove sono. I campi d’azione restano come sono.
E i soldi da consumare, seppur non esistano, vanno trovati perchè, e i sindacati annusano l’immobilismo di un renzismo iperattivo, ci sono le buste paga da riempire. I ritardi s’accumulano.
E nel groviglio provinciale, il governo aggiunge la riforma per la Pubblica Amministrazione di Marianna Madia: dovrebbe far traslocare i dipendenti provinciali dagli uffici, ma verso quali destinazioni?
I decreti attuativi, che stanno a marcire nei ministeri dove la burocrazia è quel buco nero che inghiotte capi più o meno disinvolti di qualsiasi governo, sono diventati un intralcio, un Mineo o un Chiti inanimato, anche per Matteo Renzi.
S’è fatto cupo, il premier: “Una questione molto seria. Ne parliamo giovedì in consiglio dei ministri. Così non va bene”.
Renzi deve mostrare qualcosa e, proprio per giovedì, potrebbe declamare la nuova struttura di palazzo Chigi: meno dipartimenti, in sintesi.
In quel luogo, in Cdm a palazzo Chigi, vengono licenziati tanti provvedimenti che, nei fatti, non prendono mai vita.
Ci sono i 200 milioni di euro annui di credito d’imposta per la Ricerca che rimbalzano da Enrico Letta a Renzi senza soluzione, senza prescrizioni, senza nulla di concreto.
E poi dicono che la Ricerca è importante.
Come sarà importante la spending review: il 24 aprile viene deliberata la fragile impalcatura che sostiene gli 80 euro mensili, una prima cura di tagli, che dovrà crescere, aumentare, diventare strutturale: per sempre.
Il commissario Carlo Cottarelli, il signor spending review, se ne lamenta in pubblico e in privato. Non ci sono neppure le dieci righe che servono a ridurre la auto blu per sottosegretari e singoli ministeri, che Renzi in conferenza stampa s’è venduto con invidiabile capacità comunicativa.
E non ci sono i regolamenti per piallare e (ri)modulare la spesa nei dicasteri: 240 milioni di euro in milioni di rivoli, mica spigolature.
Il tempo gioca (ancora) al fianco del premier. Ma le scadenze non sono lontane e i decreti attuativi di sua proprietà che mancano sono più di 50: 14 hanno superato i termini, altri rischiano la stessa sorte.
I 50 di Renzi vanno sommati al gruzzolo di Letta-Monti, e s’arriva a 679.
Chi ha il coraggio, può scorgere i rottami di Berlusconi in retrovia, e si decolla a 800.
Carlo Tecce
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 16th, 2014 Riccardo Fucile
LA LEGGE DELL’ABOLIZIONE APPENA APPROVATA AVRà€ COME EFFETTO COLLATERALE CHE CI SARANNO PIÙ CONSIGLIERI COMUNALI E ASSESSORI
La grande infornata è pronta. 
Il “regalino” del sottosegretario Graziano Delrio sarà scartato il 25 maggio, giorno delle elezioni amministrative che riguardano 4.106 comuni italiani (di cui 3.908 appartenenti a regioni a statuto ordinario).
Da quel giorno, in attesa di svuotare le Province, il governo Renzi comincerà a gonfiare i piccoli Comuni.
Il ddl Delrio prevede l’incremento dei consiglieri e degli assessori eletti in tutte le cittadine e i paesi con meno di 10 mila abitanti.
La prima tranche arriva con il rinnovo dei consigli comunali di fine maggio.
Le poltrone sono così distribuite: 13.488 nuovi seggi per consiglieri comunali, 2.612 per assessori.
L’opera sarà completata mano a mano che anche le altre città torneranno al voto.
Alla fine in Italia ci saranno circa 25mila consiglieri e 5500 assessori comunali in più. La riforma riguarda proprio tutti. Anche i paesi con meno di 1000 abitanti. Figurarsi quelli con meno di 100.
Valerio Maxenti è il sindaco di Pedesina, il comune più piccolo d’Italia: la bellezza di 33 anime, in una manciata di case stipate sulle pendici del Monte Rotondo, in provincia di Sondrio.
Con lo “Svuota province”, il Comune non dovrà più accontentarsi di 6 consiglieri (come stabilito dopo i tagli di Monti) ma potrà eleggerne fino a 10 (con due assessori, prima erano zero).
Il sindaco, artigiano del legno prestato al servizio della sua cittadina, non benedice le nuove poltrone. Dei nuovi consiglieri non sa che farsene: “Ne bastavano sei, non capisco perchè il governo viene a rompere le scatole pure qui”.
Oltretutto, sarà un caso, l’aumento delle poltrone ha portato la competizione politica pure a Pedesina.
Nel 2009 Maxenti era l’unico candidato, ora si parla di due, forse tre liste (una ogni 10 abitanti). “Vengono da fuori — si lamenta il sindaco — e lo fanno per interessi personali”.
La lievitazione dei seggi di Delrio cancella la parsimonia del governo Monti.
Le manovre del professore del 2011 e 2012, in piena ansia da spread e spending review, avevano tagliato i numeri dei rappresentanti dei piccoli comuni: al massimo 6 (e senza assessori) per i centri con meno di 1.000 abitanti, al massimo 10 (e non più di 3 assessori) per quelli con più di 5000 e meno di 10.000 abitanti.
La riforma di Delrio semplifica e moltiplica.
Solo due categorie per i piccoli comuni: meno di 3.000 e meno di 10.000 abitanti.
I primi possono eleggere 10 consiglieri e 3 assessori, i secondi 12 consiglieri e 4 assessori.
Il risultato finale è nei numeri citati sopra. Oltre 30 mila poltrone in più, per una riforma che Renzi aveva presentato con queste parole: “Dobbiamo dare un segnale chiaro, forte e netto, con 3 mila posti per i politici in meno. Tremila persone smetteranno di fare politica e proveranno l’ebbrezza di trovare un lavoro”.
Le Province, come noto, non saranno abolite. Non prima, per lo meno, della riforma del titolo V della Costituzione.
Saranno cancellate le cariche elettive (i tremila posti politici a cui si riferisce Renzi, tralasciando l’aumento degli altri) ma non le strutture di governo, che conserveranno diverse funzioni.
I nuovi consigli provinciali saranno eletti e composti dai sindaci e i consiglieri dei comuni da loro rappresentati.
Gli eletti, quindi, dovranno lavorare sia per il comune che per la relativa provincia, con uno stipendio solo.
La promessa del governo, infatti, è che l’infornata di poltrone nei piccoli comuni non porti un euro di spesa in più: ogni centro dovrà rivedere gli importi di indennità e gettoni.
Difficile, però, immaginare che un consiglio comunale con 6 dipendenti abbia le stesse spese di uno con 10 consiglieri e 2 assessori (non fosse altro che per la dimensione dei nuovi uffici e per l’acquisto di beni e servizi per un numero maggiore di persone).
L’impatto complessivo della riforma, in ogni caso, non dovrebbe essere trascendentale: la Corte dei Conti ha stimato i risparmi in non più di 35 milioni di euro.
Tommaso Rodano
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Aprile 7th, 2014 Riccardo Fucile
PARLANO PRESIDENTI, ASSESSORI E CONSIGLIERI CHE RIMARRANNO IN CARICA FINO A DICEMBRE, MA SENZA INDENNITA’
“Per fare l’assessore io mi sono messo in aspettativa e così hanno fatto molti altri. È chiaro che venendo
a mancare lo stipendio da amministratori molti di noi dovranno tornare a fare il loro lavoro: non siamo in pensione. Si tratterà di capire come garantire comunque continuità alla nostra attività . Certo è strano che, per legge, uno che lavora non debba essere pagato ».
C’è chi pensa di fare le valige, punto e basta; chi vuole rinviare la partenza, comunque prevista alla fine dell’anno; e chi, come Graziano Prantoni, assessore al Lavoro della Provincia di Bologna, cerca di coniugare necessità e senso di responsabilità nei mesi di vita che restano alle Province dopo la loro abolizione.
Via gli amministratori, rimangono moltissime competenze. Su un costo complessivo di 2 miliardi, vengono tagliati 32 milioni: le indennità di presidenti, assessori, consiglieri.
E nemmeno questo risparmio minimo, come tiene a precisare Antonio Saitta, presidente della Provincia di Torino e dell’Unione Province italiane (Upi) può essere dato per scontato.
A metterlo in dubbio è un’audizione della Corte dei Conti in Parlamento.
«Alcune competenze delle Province, ora indicate come causa di tutti i mali, dovranno tornare alle Regioni, dove il contratto dei dipendenti costa il 27% in più rispetto a quello dei dipendenti locali», commenta amaro Saitta.
E se qualcuno pensa che occuparsi di strade o crisi aziendali sia inutile, ecco come lo smentisce Prantoni, che negli anni del suo mandato ha coordinato e seguito cinquecento trattative tra imprese e sindacati.
«Un’attività in cui erano o sono in gioco 20-25 mila posti di lavoro, il destino di aziende come Alcisa, Moto Morini, Officine Rizzoli, Mandarina Duck. Nel 96% dei casi sono stati raggiunti degli accordi. Questo è il compito che ci hanno affidato le parti sociali, salvaguardare lavoro e tessuto produttivo. Non ce lo siamo inventati noi una mattina».
A chi gli chiede se il suo lavoro continuerà come prima, Prantoni ricorda che l’impegno era pressochè quotidiano e che nei prossimi sei mesi non sarà possibile assicurare lo stesso tipo di presenza
Durissima la posizione della sua presidente, Beatrice Draghetti, che parla di un «provvedimento non dignitoso e rabberciato».
Lei rimarrà al suo posto fino all’ultimo. «Scelgo di accompagnare in porto questa nobile Istituzione, che è ed è stata la Provincia, che sembra fare ribrezzo a tutti, incolpata di ogni profilo di inutilità ed inefficienza – ha scritto – dalla quale tuttavia si pretenderà fino all’ultimo giorno l’erogazione dei servizi che derivano dalle sue competenze, cosa che avverrà – nelle condizioni date e come sempre — grazie anche e soprattutto ai dipendenti, di cui nessun decisore finora ha mostrato la responsabilità di occuparsi»
Servizi e competenze, sì, ma voto no.
«Ci si dichiara soddisfatti perchè non si vota più per le Province – dice Saitta – ma in questo modo si dà spazio alla tecnocrazia. Noi amministratori abbiamo una visibilità molto maggiore, se c’è una frana e mi telefona un giornalista io devo rispondere, anche se è domenica o sono in ferie. Questa è la differenza ».
Andrea Barducci, presidente della Provincia di Firenze, misura le parole, ma il suo giudizio è franco quanto quello dei colleghi.
«Ci è stato chiesto dal legislatore un impegno per traghettare l’ente in una fase di transizione – spiega – A questo bisogna guardare con responsabilità politica e istituzionale, ma è chiaro che da oggi cambiano le regole di ingaggio. Siccome non prendo tangenti io dovrò sostenere me stesso e la mia famiglia».
Il passaggio delicato delle competenze alle nuove città metropolitane e alle Regioni andrà seguito con molta cura, aggiunge Barducci.
Ad esempio la gestione dei fondi europei per la formazione professionale. «Noi ce ne siamo occupati fattivamente, bisognerà fare molto lavoro perchè i nuovi organismi siano in grado di recepire tutte le nostre competenze».
Con ironia, il presidente parla di «una bella rivoluzione» che finirà «per accentrare su poche persone molte responsabilità ».
E i presidenti delle città metropolitane non saranno cariche elettive, ma i sindaci dei Comuni capoluogo. «È prevista un’elezione diretta, ma ci vuole una legge dello Stato», spiega Saitta, «nel frattempo è probabile che quei sindaci pensino ai voti della comunità che li ha eletti, la città capoluogo, e meno alla provincia ».
Gigi Marcucci
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Aprile 4th, 2014 Riccardo Fucile
IL DDL DELRIO È LEGGE: PER QUESTI ENTI NON SI VOTA PIÙ, MA ESISTONO ANCORA… NON SI CAPISCE COSA FARANNO, Nà‰ COME… E I COSTI POTREBBERO SALIRE
Magari non è “un golpe”, come urlava Renato Brunetta ieri nell’aula della Camera, ma il ddl Delrio
che — approvato definitivamente ieri — punta a svuotare le Province trasformandole in un bizzarro ircocervo è almeno un pasticcio, uno di quegli incredibili pasticci italiani in cui il riformismo diventa approssimazione e l’attività legislativa una branca della comunicazione. Dietro le frasi altisonanti dell’articolato, infatti, non c’è niente: i contenuti di questa legge, c’è scritto, “valgono come principi di grande riforma economica e sociale”.
È vero? Mah. Parecchi costituzionalisti e la Corte dei Conti, per dire, hanno sottolineato che in questa legge non si capisce niente e questo non potrà che peggiorare le cose, aumentare i costi e i ricorsi giudiziari e costituzionali (visto che la Consulta ha già bocciato l’antecedente di questa norma, lo svuota-Province di Mario Monti).
Ecco perchè questo riassunto per capire come cambiano le istituzioni italiane.
LA NON ABOLIZIONE
Le Province sono ancora lì: questa legge non le abolisce, anzi le perpetua anche per quando (e se) arriverà la riforma costituzionale che le cancella dalla Carta.
Solo che da oggi saranno istituzioni, per così dire, semi-democratiche: presidente e consiglieri provinciali — non retribuiti — verranno eletti da consiglieri comunali e sindaci con un complicato meccanismo di ponderazione che terrà conto della popolazione dei comuni di provenienza di ciascun voto.
L’assenza di stipendio (ma qualche rimborso ci sarà ) è quello che permette a Matteo Renzi di sostenere che vengono abolite tremila poltrone.
LE CITTà€ METROPOLITANE
Saranno dieci — Roma, Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Napoli, Bari e Reggio Calabria, anche se con qualche mese di ritardo rispetto alle altre — e dovrebbero essere in vigore dal 1 gennaio. Saranno in tutto e per tutto come le attuali Province e il presidente sarà il sindaco (detto “sindaco metropolitano”) del capoluogo.
Governerà sul suo territorio grazie al “consiglio metropolitano” (l’elezione è di secondo livello, come per le Province) e da una “conferenza metropolitana” (i sindaci della zona).
Tutti, renzianamente, senza stipendio. Tutto qui? Magari.
In realtà , esiste la possibilità teorica che un terzo dei comuni della zona decida di staccarsi con apposito referendum. A quel punto sarà il governo a dover trovare una soluzione.
IL NUOVO POTESTà€
La legge Delrio divide l’Italia in due: le città comandano e i piccoli comuni subiscono.
Grazie al sistema di voto ponderato per popolazione, infatti, nella conferenza metropolitana di Genova, per dire, il voto del sindaco del capoluogo ligure varrà di più di quelli di tutti i 67 sindaci dei comuni limitrofi; stessa cosa a Livorno (uno contro venti); a Torino al sindaco del capoluogo basterà allearsi con sei colleghi per scavalcarne altri 315.
A-DEMOCRATICA
È una legge che non ha un gran rapporto con la rappresentanza: basti dire che arriva ad abolire alcuni consigli provinciali che erano ancora in carica e che sarebbero scaduti tra due mesi (e per le elezioni se ne parla poi): la democrazia abolita per legge.
Pure l’applicazione delle quote rosa è bizzarra: ci sono (al 60%), ma saranno applicate solo tra cinque anni.
IL MISTERO DELLE FUNZIONI
Cosa faranno le nuove Province?
Ancora non si sa: devono fare “un piano strategicotriennale del loro territorio”; occuparsi di “sviluppo economico e sociale, anche assicurando sostegno e supporto alle attività economiche e di ricerca innovative e coerenti”; “pari opportunità ”; “edilizia scolastica”.
Il menù è lunghissimo, ma si può ordinare alla carta: decideranno Regioni e Comuni quali funzioni lasciare alle Province e quali prendersi loro (col relativo personale). Serve una scelta in 90 giorni con tanto di decreto del governo, poi entro altri sei mesi serve un accordo coi sindacati per trasferire i dipendenti con altro decreto.
IL MISTERO DEI COSTI
Il governo prevede un risparmio, ma non lo quantifica e nessuno, d’altronde, può farlo: per la Corte dei Conti probabilmente la confusione farà aumentare i costi; l’Unione delle Province ha prodotto un dossier in cui si calcola in due miliardi l’aggravio.
IL MISTERO DEI CONSIGLIERI
Non prenderanno stipendio, ma solo gettoni di presenza — dice il governo — resta il fatto che le potrone proliferano: tra un ente di secondo livello e l’altro (ci sono pure le assai consigliate ai più piccoli Unioni dei Comuni), più un aumento di consiglieri e assessori nei comuni piccoli e piccolissimi, si parla di 31mila posti in più.
Marco Palombi
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Aprile 4th, 2014 Riccardo Fucile
“L’UNICA COSA CANCELLATA E’ IL VOTO”
“Mica penserete che le province siano state abolite?” Antonio Saitta risponde dopo pochi squilli al telefono, il giorno dopo l’approvazione del ddl Delrio che dà l’addio agli enti intermedi, il presidente della Provincia di Torino ha una priorità su tutte: fare chiarezza: “Bisogna evitare confusioni – dice ad Huffpost – se no si rischia di far passare messaggi errati: le province non sono state cancellate”. Anzi.
Restano lo stesso numero (107) e mantengono quasi intatte le loro competenze : dal trasporto pubblico su gomma all’edilizia scolastica per le scuole medie passando per la pianificazione territoriale e la tutela dell’ambiente.
Viene da chiedersi cosa sia cambiato allora.
“Il sistema di elezione- spiega Saitta – i consiglieri provinciali non saranno più eletti”.
Tutto qua?
“Tutto qua” risponde. “E mi faccia aggiungere – dice – che da democratico non mi convince che l’unica cosa che viene davvero abolito è il diritto al voto”.
Tutto questo questo porterà a un risparmio di 32 milioni, non molto se si considera che le province costano allo Stato circa 12 miliardi di euro l’anno:
“Capisco perfettamente – continua il presidente – la necessità di dare un segnale di cambiamento ma il governo non sembra aver tenuto in conto le indicazioni della Corte dei Conti che ha posto l’attenzione su un possible ulteriore quando e se avverrà il passaggio di competenze dalla province alle regioni”. Passaggio che potrebbe avere anche tempi lunghi visto che sarà ogni singolo ente regionale a decidere quando e come renderlo effettivo.
Date per morte le province sembrano invece stare benissimo.
Una sensazione di rinnovata vitalità che fa tirare un sospiro di sollievo a chi come Saitta non è solo a capo dell’ente torinese ma anche alla guida dell’istituzione (l’Unione delle province italiane) che mette insieme tutti i colleghi presidenti.
Si dice “soddisfatto” anche se lancia una frecciatina al governo: “Serviva più coraggio”.
Lui una ricetta per riformare il sistema ce l’avrebbe anche: “Già all’epoca Monti avevo lavorato con il governo per un grande progetto di accorpamento. L’obiettivo era arrivare a 60. Così – aggiunge – la spesa si sarebbe contenuta davvero”.
E la novità , definita dirompente da Renzi e Delrio, delle città metropolitane?:
“Sono soli modi diversi – conclude – di chiamare le province”.
(da “Huffingtonpost”)
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Marzo 28th, 2014 Riccardo Fucile
INTERVISTA A SAITTA, PRESIDENTE DELL’UNIONE PROVINCE ITALIANE: “UNA RIFORMA INCONCLUDENTE, FINGE DI CAMBIARE TUTTO PER NON CAMBIARE NULLA”
«Burocrazia batte Renzi 2-0».
Nonostante la congenita mitezza da ex democristiano, Antonino Saitta, presidente pd della Provincia di Torino e dell’Unione delle Provincie italiane, si è sempre immedesimato con un certo vigore nel ruolo di pasdaran di una istituzione con problemi di immagine.
Nell’inverno del 2012 giunse anche a ipotizzare la trasformazione delle scuole in frigoriferi mediante chiusura del riscaldamento, in segno di protesta contro i tagli per 500 milioni apportati dall’allora governo Monti.
L’apparente sconfitta di ieri non ne abbatte il piglio combattivo e una certa coerenza.
«Resto orgoglioso di aver combattuto una battaglia razionale nel momento in cui la razionalità è un bene che anche il mio partito mette da parte a favore di proclami che celano il vuoto. Fingere di cambiare tutto per non cambiare nulla».
Abolizione gattopardesca?
«Ma quale abolizione, è solo un bel titolo per i giornali. Ma dietro non c’è niente. Il governo ha scelto di farsi prigioniero di un annuncio»
Non è comunque un inizio?
«Di cosa? Questa riforma non tocca nulla dell’apparato statale. Una riforma inconcludente, confusa, che non abolisce nulla. I grandi burocrati e i prefetti ieri sera hanno brindato felici»
Aveva idee migliori ?
«Il governo Monti aveva agito in modo più serio accogliendo in buona sostanza la proposta del dimezzamento delle Province, unito all’accorpamento degli uffici periferici dello Stato. Prefetture, questure, provveditorati, motorizzazioni. Quella era la strada giusta»
Perchè non se ne fece nulla ?
«L’ostilità della burocrazia di Stato, unita a qualche localismo assortito»
Cosa rimprovera a Renzi ?
«Ha aggirato un problema invece di risolverlo. Quindi ne ha creati altri. Fosse andato alla radice, come intendeva fare Monti, accorpando Provincie, uffici statali e funzioni di oltre 7.000 società pubbliche, avrebbe risparmiato 5 miliardi. Adesso, se va bene, i tagli si fermano a 32 milioni di euro. Briciole spacciate per un lauto pasto»
Lei è un bieco conservatore
«Tutt’altro. Ero e sono consapevole del fatto che fosse necessario cambiare. Ma per me la politica è governare i processi, realizzarli per davvero, senza fermarsi alla propaganda e all’immagine»
Proprio nulla da salvare ?
«Ma anche nulla da gettare. A parte l’addio all’elezione diretta dei presidenti, la presunta riforma mantiene tutto così com’è. L’unico risultato concreto di tanto furore abolizionista è l’abbandono dell’altra Italia, quella dei piccoli e medi Comuni, a favore delle grandi città . Ma il capoluogo non è tutto. E comunque, sai che gran rivoluzione»
Niente di personale ?
«Io sono alla fine del mio mandato e non avrei potuto ricandidarmi. Continuerò comunque a combattere questa battaglia complicata ma giusta. Anche a costo di sembrare l’ultimo giapponese nella giungla delle province».
Marco Imarisio
(da “il Corriere della Sera”)
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Marzo 21st, 2014 Riccardo Fucile
È QUESTO L’ACCORDO SUL DDL DELRIO… I COMMISSARI, PER TUTTO IL 2014, SARANNO GLI ATTUALI PRESIDENTI
Province abolite? No, commissariate fino alla fine del 2014. Quindi, di fatto, prorogate.
Quote rosa approvate nella legge elettorale per le Europee? Sì, ma dal 2019. Contributi alla riforma del Senato annunciata dal governo? Per ora, solo riflessioni.
Palazzo Madama aspetta Renzi al varco dell’Italicum. Ma nel frattempo, più che barricate, si vede una certa confusione sotto al cielo.
Martedi arriva in Aula (voto previsto mercoledì) il ddl Delrio sul superamento delle Province (che aveva come primo effetto quello di evitare che si svolgessero nuovamente le elezioni) attualmente fermo in commissione Affari costituzionali del Senato a causa dei circa 3 mila emendamenti presentati soprattutto da Fi e Lega. Niente paura: trovato l’accordo con Forza Italia.
Quale? Le Province già commissariate sono prorogate fino al 31 dicembre 2014; ma soprattutto vengono commissariati i consigli provinciali in scadenza.
E chi sarà il commissario? Lo stesso presidente della Provincia.
Inoltre, verrà aumentato il numero dei consiglieri dei Comuni fino a 10 mila abitanti e si dà la possibilità di un terzo mandato per i sindaci dei Comuni fino a 3 mila abitanti.
Se è per le quote rosa, la mediazione trovata dopo giorni di scontri è alquanto singolare: ieri il Senato ha approvato con 155 sì, 58 no e 15 astenuti l’intesa sul ddl sulle europee che introduce la parità di genere dal 2019.
L’intesa tra Pd, Ncd e Fi prevede una norma transitoria che vale solo se si danno tre preferenze, la terza deve esser di sesso diverso dalle prime due. Insomma, la parità non c’è e quando ci sarà sarà subordinata al fatto che esistano 3 preferenze.
Infine, c’è la questione riforma del Senato.
Esiste una proposta governativa, sulla quale il premier sta accogliendo modifiche. Prima di partire per Bruxelles Matteo Renzi — presenti il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio, il ministro per gli Affari Regionali Maria Carmela Lanzetta e il ministro per le Riforme Maria Elena Boschi — ha incontrato i presidenti delle Regioni, guidati da Vasco Errani, subito dopo con i sindaci dell’Anci, guidati da Piero Fassino.
Un clima di collaborazione, ma con una richiesta: le Regioni criticano “l’identico numero di rappresentanti di ciascuna Regione e Provincia autonoma” nel nuovo Senato delle Autonomie.
Ci vuole un riequilibrio, insomma, della rappresentatività .
Il nuovo Senato deve essere “espressione autorevole delle istituzioni territoriali”: per questo i governatori giudicano “non condivisibile” la previsione della nomina, da parte del capo dello Stato, di altri 21 componenti dell’assemblea.
Renzi ha ascoltato e ha insistito sulla necessità di accelerare. Il punto centrale è come la maggioranza di governo recepirà le proposte dell’esecutivo.
Per cercare di arrivare almeno a calmare gli animi nel Pd, nel lavoro preparatorio della bozza che alla fine dovrà essere predisposta dalla Commissione Affari costituzionali sono stati coinvolti insieme al ministro Maria Elena Boschi anche la presidente della Commissione Affari costituzionali, Anna Finocchiaro (acerrima nemica di Renzi) e il capogruppo dem, Luigi Zanda.
Wanda Marra
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Gennaio 2nd, 2014 Riccardo Fucile
PER LA CORTE DEI CONTI L’ABOLIZIONE NON SERVIRA’ A TAGLIARE E SPESE
Il primo tweet, con cui il ministro Graziano Delrio festeggiava l’approvazione del suo disegno di legge
alla Camera, era leggermente enfatico.
“Per la prima volta — annunciava il ministro degli Affari Regionali il 22 dicembre — non si va ad elezione per le Province e per ora rimarranno enti leggeri con poche funzioni e molto utili ai Comuni”.
L’abolizione delle Province però è tutt’altro che un fatto compiuto. Intanto perchè il testo di Delrio deve ancora passare al Senato, dove oltre all’opposizione, anche Pierferdinando Casini lo ha bollato come un gran pasticcio: “Se non cambia, non lo voterò” ha anticipato il leader dell’Udc.
Le perplessità sul disegno di legge di Delrio, infatti, si sprecano.
Il primo e immediato effetto della riforma è il semplice commissariamento delle Province: via presidenti, giunte e consigli, dentro un funzionario di fiducia del Governo. “Questa riforma getterà nel caos il Paese: vietando ai cittadini di votare chi li amministrerà lede il diritto di voto libero, segreto, e non limitabile, sancito dall’articolo 48 della Costituzione” attacca Antonio Saitta, che da presidente dell’Unione province italiane è logicamente il primo oppositore del taglio degli enti intermedi.
Il caso Sicilia: dove possono rinascere le Province
Nel 2012 le Province commissariate sono state 11, compresa quella di Roma, orfana del dimissionario Nicola Zingaretti e affidata ad Umberto Postiglione che per alcuni mesi ha mantenuto contemporaneamente l’incarico di prefetto di Palermo.
Nell’anno appena trascorso invece i consigli provinciali non rieletti sono stati 9, più il caso delle altre 9 province commissariate in Sicilia dal governatore Rosario Crocetta.
E proprio la Sicilia, che doveva essere il simbolo di eliminazione degli enti inutili, rischia di diventare l’esempio (cattivo) che potrebbe essere replicato dal governo Letta su scala nazionale.
Nel marzo scorso Crocetta aveva annunciato il commissariamento degli enti intermedi, per poi abolirli definitivamente alla fine del 2013: il tempo è scaduto, ma non esiste ancora una legge che disciplini l’abolizione delle Province.
“Quello di Crocetta è un colpo di mano antidemocratico” ha attaccato il leader della Destra Nello Musumeci, che è riuscito a far bocciare all’Ars — con voto segreto — la proposta di Crocetta di prorogare per altri sei mesi i commissari: adesso il governo ha 45 giorni per istituire i liberi consorzi, in alternativa si andrà nuovamente alle elezioni provinciali.
Altre 54 Province verso il commissariamento. Risparmi? Pochi
Un corto circuito che potrebbe estendersi anche a livello nazionale, dove il rischio è che la gestione dei commissari diventi la regola piuttosto che l’eccezione. Con l’approvazione del ddl del ministro Delrio nel 2014 altre 54 province verranno affidate a commissari nominati dal governo (spesso prefetti o generali), e retribuiti con un cifra che oscilla tra i 4mila e gli 8mila euro lordi al mese.
Una situazione, quella del commissariamento, che non garantisce rappresentatività e che andrà avanti finchè non saranno create le città metropolitane e i consorzi dei Comuni.
Poi, secondo Delrio, il suo ddl entrerà in funzione facendo risparmiare più di 2 miliardi di euro all’anno alle casse dello Stato.
Conti sbagliati secondo la Corte dei Conti, che nell’audizione dello scorso 6 novembre regala un’analisi meno ottimista di quella di Delrio: secondo i magistrati contabili, il disegno di legge approvato dalla Camera taglierà al momento solo i costi degli organi politici, cioè 105 milioni per 1.774 amministratori provinciali, che però nel 2012 si erano già ridotti la paga di 34 milioni.
Le spese fisse: personale e i “costi funzionali
Impossibile eliminare i 2 miliardi e 300 milioni di euro degli stipendi percepiti dagli oltre 55mila dipendenti provinciali ogni anno.
Impossibile eliminare anche altri 2 miliardi e mezzo di “costi funzionali”.
Secondo il parere della magistratura contabile, poi è tutto da dimostrare che il passaggio dalle Province alle città metropolitane sia a costo zero.
“Dal punto di vista finanziario — spiega la Corte dei Conti — il disegno di legge si basa sull’assunto della invarianza degli oneri in quanto si tratterebbe di un passaggio di risorse e funzioni dalla Provincia ad agli altri enti territoriali. Una costruzione, questa, il cui presupposto appare però tutto da dimostrare nella sua piena sostenibilità . Infatti, non appaiono convincenti anzitutto la contemporaneità tra la progressiva soppressione della Provincia (risparmi) e la istituzione della Città metropolitana (oneri) e in secondo luogo il relativo parallelismo quantitativo”.
I servizi trasferiti ai Comuni possono costare di più. Un esempio? Le scuole
Un esempio efficace è la gestione delle scuole: dopo la riforma Delrio 5.179 edifici scolastici oggi gestiti dalle Province passerebbero nella competenza di 1.327 comuni.
E i costi di funzionamento per uno stesso bene non sono uguali: “In media nazionale i singoli Comuni spendono per il riscaldamento delle scuole da un minimo del 30% in più ad un massimo del 100% in più delle Province dal momento che le Province, grazie ad un unico contratto di servizio, spuntano prezzi nettamente inferiori rispetto a quelli dei singoli Comuni, con appalti sui singoli edifici” si legge in un dossier elaborato dall’Upi. Se quindi oggi la provincia di Milano spende 4,30 euro per ogni metro cubo che riscalda in un edificio scolastico, il Comune spenderà 6 euro per riscaldare lo stesso metro cubo dello stesso edificio che gli sarà assegnato dopo la riforma.
Come dire che l’eliminazione delle Province porterà ad un aumento nelle uscite nei bilanci dei comuni: si va per tagliare una spesa e ne spunta subito un’altra.
Altro punto focale è il futuro dei vari organismi partecipati dalle Province per la gestione dei servizi pubblici.
Tra Ato, Bim, comunità montane e consorzi si tratta di più di 5mila enti che costano 7 milioni e mezzo di euro: dopo l’abolizione delle Pprovince continueranno ad esistere, a consumare fondi pubblici, ma a funzionare in maniera più caotica.
È proprio il momento di passaggio dal commissariamento all’eliminazione della Provincia a solleticare i maggiori dubbi.
“È evidente — scrivono sempre i magistrati contabili — che laddove la predicata transitorietà dovesse dilatarsi eccessivamente o addirittura radicarsi in attesa di nuove iniziative si perpetuerebbe una situazione di confusione ordinamentale certamente produttiva di inefficienze”.
Più a lungo le Province saranno gestite dai commissari, più caotica sarà l’amministrazione.
La gestione di strade, lavori pubblici, scuole appese al sottilissimo filo della riforma: e nel frattempo una cinquantina di commissari fedeli al governo sono già pronti per andare ad amministrare altrettante Province.
Fino a quando, non è dato sapere.
Giuseppe Pipitone
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 3rd, 2013 Riccardo Fucile
LA RELATRICE (DI FORZA ITALIA) SI DIMETTE, LA RAGIONERIA HA DUBBI E NCD STA VALUTANDO
Doveva essere il primo spiraglio di luce sull’abolizione delle province. Rischia ancora la morte in culla, tra dubbi di incostituzionalità e di generare ulteriori costi anzichè risparmi. Certo sarà il primo banco di prova dei nuovi squilibri che attraversano parlamento e governo.
Comunque sia è iniziata in salita ieri alla Camera la discussione generale sul fantomatico “riordino” degli enti dopo che Forza Italia ha annunciato l’intenzione di votare contro, togliendo definitivamente il proprio appoggio al testo elaborato dal ministro per gli Affari regionali e le Autonomie Graziano Delrio.
Il relatore di maggioranza Elena Centemero (Fi) si è dimessa dall’incarico, celebrando di fatto il primo atto parlamentare di rottura tra ex alleati di larghe intese e il passaggio all’opposizione dei berlusconiani.
A stretto giro arriva anche il no, scontato, della Lega e perfino qualche settore di Ncd mostra reticenze anche se diversi esponenti assicurano di tener fede all’impegno.
Nessuna apertura dai Cinque Stelle che parlano apertamente di “farsa e di finta abolizione”.
Parla di “requiem” della riforma del titolo V Arcangelo Sannicandro di Sel.
Mercoledì la discussione va avanti ma visti gli ultimi sviluppi non è escluso che Pd e governo restino col cerino in mano e il voto, calendarizzato per giovedì, possa riservare ancora sorprese.
Alla fine della discussione Delrio, che ci ha messo la faccia, non nasconde il rischio che, se salta tutto, tocca ripartire da zero. Di nuovo.
Qualcuno, distratto, potrebbe restare sorpreso: ma come, se ne parla da anni e siamo ancora all’inizio della discussione e con la riforma ancora in mezzo alle onde?
Così è, nonostante i fiumi d’inchiostro spesi e le promesse degli ultimi governi.
Vero è che il testo è molto lontano dall’abolizione auspicata per la quale servirà un disegno di legge costituzionale che è ancora ai blocchi di partenza, vista la bocciatura del “Salva Italia” attrezzato a suo tempo da Monti da parte della Consulta.
La Corte aveva contestato la decretazione d’urgenza per questa materia (e Brunetta ieri ha rilanciato il bastone nell’ingrannaggio presentando una questione pregiuziale sul punto).
E così, tra veti incrociati e aporie costituzionali, ha preso quota la soluzione intermedia del ddl Delrio che demansiona le province ma non le cancella.
Per il momento — se l’iter andrà avanti — la riforma riduce le loro funzioni, le rende enti di “area vasta” con funzioni di coordinamento. I consiglieri provinciali non verrano più eletti direttamente dai cittadini, ma fra i Comuni stessi.
Di più, per ora, non si poteva.
Raggiungere un testo condiviso in commissione, sostiene chi è intervenuto ieri, è stato già un calvario. Anche perchè, va ricordato, il tempo stringe.
Con un emendamento in Senato alla legge di stabilità è stata prorogata fino al 30 giugno la scadenza naurale di 54 province.
Anche qui sta il nodo politico, difficile da confessare, che farà la differenza giovedì.
Il vicepremier Angelino Alfano, per dire, da Padova aveva ammonito: “Non è che aboliamo le Province per creare degli enti di secondo livello in cui vince a tavolino la sinistra e non accetteremo mai di mandare a casa i presidenti di centrodestra nelle aree metropolitane per sostituirli con i sindaci dei relativi capoluoghi, tutti di sinistra”.
Mentre Roberto Formigoni ieri ha ribadito: “Noi siamo per l’abolizione totale. Punto”.
Il Pd che non si aspetta scherzi mette comunque le mani avanti: “Sarebbe ben strano se Ncd che con 5 ministri del governo ha approvato il testo ora si tirasse indietro”, dice Matteo Richetti.
Resta da chiarire se la riforma porterà risparmi. Un sospetto che ha trovato addentellati importanti nella bocciatura della Corte dei Conti che ha manifestato dubbi sugli effetti determinati dal temporaneo passaggio di funzioni dalle province alle città metropolitane. Il ministro Delrio ha ribadito ieri che “certamente sulle funzioni generali di amministrazione e controllo che oggi valgono due miliardi e qualche decina di milioni di euro e che solo per 900 milioni di euro sono a carico del personale potremo fare grandi risparmi”.
Ma dai banchi dell’opposizione le cifre vengono contestate. Dalila Nesci (M5S), sostiene che lo “svuota province” sia un pallido ricordo delle promesse di abolizione.
L’Unione delle Province, il rischio che la misura-cuscinetto comporti addirittura più costi, rilevando come da tre città metropolitane si sia passati a 10 nel testo del governo e poi 15, con non precisate ricadute in termini di finanze pubbliche.
Ieri , per dire, alla notizia che Catania poteva saltare Enzo Bianco è volato a Roma per perorare la causa e ricevere assicurazioni.
Nelle stesse ore c’è stato anche il giallo sul parere che la Ragioneria Generale dello Stato ha fornito alla Commissione bilancio circa le necessarie coperture rispetto al patto di stabilità interno.
Ma a stretto giro è arrivato il nullaosta dalla commissione Affari Costituzionali.
E dunque si procede tra i dubbi.
Thomas Mackinson
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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