Febbraio 11th, 2020 Riccardo Fucile
GRAZIE ALLE CURE DEL GASLINI DI GENOVA LA BIMBA COLPITA DA EMORRAGIA CEREBRALE STA MEGLIO E RESPIRA SETTE ORE AL GIORNO DA SOLA
Fino a sei mesi fa Tafida, bimba inglese di 5 anni di origini bengalesi, era destinata a morte certa ma oggi, grazie ai medici del Gaslini di Genova, le sue condizioni migliorano ed è uscita dalla terapia intensiva.
Secondo il Royal London Hospital (dove era ricoverata in seguito a un’emorragia cerebrale che le aveva provocato gravissimi danni, ndr) Tafida non avrebbe avuto speranze, eppure la bimba continua a combattere ogni giorno anche grazie al sostegno di sua mamma, che le è sempre accanto in uno dei quattro miniappartamenti del “Guscio dei bambini” del Gaslini.
A raccontarlo è il Corriere della Sera.
Oggi, quattro mesi dopo, è uscita dalla terapia intensiva e respira ormai sette ore al giorno da sola, senza macchine. La madre è già autonoma nella gestione della bimba, le dà da mangiare attraverso un buchetto nello stomaco e sa usare il ventilatore collegato alla trachea. I margini di miglioramento forse non sono finiti. Tafida non guarirà mai, se per guarire si intende tornare a come era prima […] Si chiamano cure palliative pediatriche. Nel caso dei bambini non accompagnano alla morte, ma alla vita. Tafida non ha una malattia degenerativa […] Tafida è inguaribile, certo. Ma è curabile. “Se per curare intendiamo prendersi cura”.
A parlare delle condizioni attuali della piccola è Luca Manfredini, il direttore del “Guscio” del Gaslini, il luogo che ha accolto la bimba dopo il verdetto dell’ospedale inglese a cui i genitori si erano arresi.
Dopo aver intubato Tafida per farla respirare e dopo averla alimentata con un sondino naso-gastrico, infatti, il Royal London Hospital affermò che sarebbe stato meglio staccare la spina. Così i genitori di Tafida scrissero una mail a Pietro Petralia, direttore del Gaslini. “Aiutateci siamo disperati”: questo il loro grido di dolore, che non è rimasto inascoltato. Come riporta il Corriere:
Il direttore della terapia intensiva, Andrea Moscatelli, studiò per un mese il caso, poi andò con una èquipe a Londra, visitò la bambina. Proposero un piano terapeutico. Convinsero il giudice di Sua Maestà . Per la prima volta una sentenza emessa a Londra diceva che andava tenuto conto anche del parere della famiglia, a differenza di quanto era avvenuto in celebri casi come quelli di Charlie e Alfie. Tafida fu portata al Gaslini con un aereo specializzato, una specie di sala di rianimazione volante.
Anche se Tafida non guarirà mai, le cure possono aiutarla a stare meglio. Come dice il dottor Manfredini al Corriere:
“Abbiamo quattro parametri per definire la cura proporzionata […] Possibilità di successo, aumento della quantità di vita, aumento della sua qualità , rispetto della dignità del paziente e della famiglia, in modo che i costi, non quelli economici ma quelli umani, non siano eccessivi. Nel caso di Tafida tutte e quattro le condizioni si sono verificate”.
(da agenzie)
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Febbraio 2nd, 2020 Riccardo Fucile
FRANCESCA E’ UNA RICERCATRICE “PRECARIA” STIPENDIATA 16.726 EURO LORDI L’ANNO… ROSARIA E’ LA RESPONSABILE DEL LABORATORIO DI VIROLOGIA… CONCETTA DIRIGE L’UNITA’ VIRUS EMERGENTI
La pagina facebook dell’assessorato alla Salute del Lazio fa sapere che sono Maria Rosaria Capobianchi, Francesca Colavita e Concetta Castilletti le donne del servizio sanitario regionale che hanno isolato il Coronavirus di Wuhan 2019-nCov.
La consigliera regionale Marta Bonafoni scrive inoltre che «è stata un’èquipe di donne a riuscire nell’impresa mondiale, tra loro anche una ricercatrice precaria. Segniamoci i loro nomi: Maria Rosaria Capobianchi , Francesca Colavita, Concetta Castilletti. Grandissime!».
Nella foto pubblicata sulla pagina dell’assessorato le vediamo in compagnia di Alessio D’Amato, assessore alla salute del Lazio (a sinistra), e Roberto Speranza, ministro della Salute. Francesca Colavita è al centro: è lei la ricercatrice “precaria”: in una pagina sul sito dell’ospedale Spallanzani si scrive che ha un “Incarico di co.co.co. per l’espletamento di attività di ricerca nell’ambito del Progetto FILAS-RU-2014-1154” per un compenso di 16726 euro (lordi, si immagina).
A capo del Laboratorio di Virologia dello Spallanzani c’è la dottoressa Maria Rosaria Capobianchi: 67enne nata a Procida, laureata in scienze biologiche e specializzata in microbiologia, dal 2000 lavora allo Spallanzani e ha dato un contributo fondamentale nell’allestimento e coordinamento della risposta di laboratorio alle emergenze infettivologiche in ambito nazionale, nel contesto del riconoscimento dell’istituto quale centro di riferimento nazionale.
Mentre è una giovane ricercatrice Francesca Colavita, da 4 anni al lavoro nel laboratorio dopo diverse missioni in Sierra Leone per fronteggiare l’emergenza Ebola.
E poi Concetta Castilletti, responsabile della Unità dei virus emergenti (“detta ‘mani d’oro’, ha raccontato il direttore dell’Istituto Giuseppe Ippolito), classe 1963, specializzata in microbiologia e virologia.
A loro si aggiungono Fabrizio Carletti, esperto nel disegno dei nuovi test molecolari, e Antonino Di Caro che si occupa dei collegamenti sanitari internazionali.
I virologi dell’Istituto Nazionale Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani”, a meno di 48 ore dalla diagnosi di positività per i primi due pazienti in Italia, sono quindi riusciti ad isolare il virus responsabile dell’infezione.
Lo spiega lo stesso Istituto sottolineando che “avere a disposizione in modo così tempestivo il virus è un passo fondamentale, che permetterà di perfezionare i metodi diagnostici esistenti ed allestirne di nuovi. La disponibilità nei laboratori del nuovo agente patogeno permetterà inoltre — continua lo Spallanzani — di studiare i meccanismi della malattia per lo sviluppo di cure e la messa a punto del vaccino”.
La sequenza parziale del virus isolato nei laboratori dello Spallanzani, denominato 2019-nCoV/Italy-INMI1, è stata già depositata nel database GenBank, e a breve anche il virus sarà reso disponibile per la comunità scientifica internazionale. Nino Cartabellotta, presidente e direttore scientifico della Fondazione GIMBE, scrive però su Twitter che il virus era già isolato dal 17 gennaio e disponibile in GenBank, prendendosela con i media che sono “troppo sensazionalistici”: in realtà è stato lo Spallanzani a comunicare che il virus era stato isolato per la prima volta.
Il presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e odontoiatri (Fnomceo), Filippo Anelli, ha invece inviato questa nota alle agenzie di stampa: — “Ci uniamo ai ringraziamenti del ministro della Salute, Roberto Speranza, rivolti ai medici e a tutti i ricercatori dell’Istituto nazionale malattie infettive ‘Lazzaro Spallanzani’ di Roma che, a meno di 48 ore dalla diagnosi di positività per i primi due pazienti in Italia, sono riusciti, primi in Europa, a isolare il nuovo coronavirus. Una delle tante testimonianze dell’eccellenza del nostro Servizio sanitario nazionale, che va sostenuto e salvaguardato”.
Maria Capobianchi, Direttore del laboratorio di Virologia dell’INMI, ha spiegato che il risultato ottenuto “è il frutto del lavoro di squadra, della competenza e della passione dei virologi di questo Istituto, da anni in prima linea in tutte le emergenze sanitarie nel nostro Paese. “L’isolamento del virus ci permetterà di migliorare la risposta all’emergenza coronavirus, di conoscere meglio i meccanismi dell’epidemia e di predisporre le misure più appropriate”, ha aggiunto Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dello Spallanzani.
“Il risultato ottenuto dai nostri virologi — ha concluso Marta Branca, direttore generale dell’INMI — è una ulteriore testimonianza dell’eccellenza scientifica dello Spallanzani, Istituto dove la ricerca non è mai fine a se stessa, ma ha come obiettivo ultimo e concreto il miglioramento delle cure per i pazienti”.
“Con l’isolamento del virus da parte dell’èquipe di virologi dello Spallanzani si conferma l’assoluta qualità delle strutture sanitarie della nostra regione”, dice Alessio D’Amato, assessore alla sanità della Regione Lazio. “La grande professionalità dei nostri medici, biologi e ricercatori — ha concluso Roberto Speranza, Ministro della Salute — ci fornisce ulteriori strumenti di contrasto per fronteggiare questa emergenza sanitaria, e conferma la qualità e l’efficienza del nostro Servizio Sanitario Nazionale su cui dobbiamo”.
Capobianchi, a margine della conferenza stampa sul coronavirus a Roma, ha spiegato che ora la possibilità di avere un vaccino per 2019-nCov è più vicina: “Adesso sarà più semplice trovare un vaccino per il coronavirus, la coltivazione del virus è un fatto fondamentale per qualsiasi allestimento credibile di presidi e nuove strategie. Avere a disposizione il virus significa partire da una buona base”.
“Fino a pochi giorni fa erano disponibili i dati di sequenza del virus che avevano pubblicato i cinesi — ha aggiunto — che non hanno fatto uscire il virus dalla Cina pur avendolo isolato. I dati e la diagnostica messa a punto era su dati teorici, hanno funzionato bene, sono stati disegnati dei controlli però adesso possiamo avere il vero controllo, cioè il virus”. “La diagnosi — ha detto ancora la dottoressa Capobianchi — è stata fatta su base molecolare, e cioè la ricerca dell’rna del virus, e in tempo di record, sui primi nostri due pazienti. Sempre a tempo di record abbiamo ottenuto il virus isolato in coltura, cioè il campione biologico del paziente che è stato fatto crescere su delle cellule. Dopo circa 24 ore abbiamo osservato l’effetto citopatico. In quella coltura abbiamo riscontrato la presenza del virus in quantità compatibile con il fatto che stava crescendo”.
Alla domanda se la scoperta aiutasse la ricerca su una cura per il Coronavirus, Capobianchi ha risposto: “Quando si scoprono virus nuovi il materiale di partenza iniziale cruciale è proprio il virus — ha risposto — Averlo a disposizione, e avere anche un sistema di crescita e coltivazione in vitro, ci dà uno strumento per perfezionare l’attuale diagnosi, che è molecolare, e perfezionare i test sierologici che ancora non ci sono, cioè la ricerca degli anticorpi nel sangue. Poi avere a disposizione il virus ci permette di provare farmaci in vitro e di avere grandi quantità di virus che possono servire per la messa a punto di un vaccino, oppure di antigeni e preparazioni che poi servono alla diagnostica. Infine, avere a disposizione la coltura ci permette di fare studi sulla patogenesi ossia di capire i meccanismi di replicazione, i rapporti tra il virus e la cellula ospite che possono essere bersaglio delle strategie terapeutiche — ha concluso la ricercatrice — ci permettono di capire come funziona la replicazione del virus”.
(da agenzie)
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Febbraio 2nd, 2020 Riccardo Fucile
“SARA’ MESSO A DISPOSIZIONE DI TUTTA LA COMUNITA’ INTERNAZIONALE”… E QUALCUNO AVEVA ANCORA CRITICATO LE NOSTRE STRUTTURE DI INTERVENTO: IN 48 ORE ABBIAMO BATTUTO IL MONDO
“In queste ore allo Spallanzani è stato isolato il Coronavirus, è una notizia importante a livello globale. Significa avere più possibilità di studiarlo capire e sapere cosa fare per contenerlo. Sarà messo a disposizione di tutta la comunità internazionale. Ora sarà più facile trattarlo”.
Il ministro della Salute Roberto Speranza annuncia la scoperta dei virologi dell’Istituto Nazionale Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani”, i primi in Europa a isol
are il virus a meno di 48 ore dalla diagnosi di positività per i primi due pazienti in Italia. “Avere a disposizione in modo così tempestivo il virus è un passo fondamentale — dicono dall’Istituto -, che permetterà di perfezionare i metodi diagnostici esistenti ed allestirne di nuovi. La disponibilità nei laboratori del nuovo agente patogeno permetterà inoltre di studiare i meccanismi della malattia per lo sviluppo di cure e la messa a punto del vaccino”.
Un successo dei virologi dell’Istituto nazionale malattie infettive “Lazzaro Spallanzani“, primi in Europa, accolto come un risultato di grande significato anche dalla tv cinese Cgtn. A meno di 48 ore dalla diagnosi positiva dei primi due pazienti in Italia, gli specialisti sono riusciti ad isolare il virus responsabile dell’infezione, ossia sequenziarne il genoma.
La sequenza di geni, perciò, è stata “letta” per ricavarne informazioni utili per capire — ad esempio — come si trasmette, possibili farmaci a cui è sensibile.
Permette cioè di studiare i meccanismi della malattia, per sviluppare le cure e creare un vaccino. È un passo fondamentale perchè permetterà di perfezionare i metodi di diagnosi esistenti e prepararne di nuovi. La sequenza parziale del virus isolato nei laboratori dello Spallanzani, denominato “2019-nCoV/Italy-INMI1”, è stata già depositata nella banca dati GenBank.
Maria Rosaria Capobianchi, direttrice del Laboratorio di Virologia dello Spallanzani, ha espresso grande soddisfazione, “perchè questo non è un fuoco del momento, si tratta di una missione, lavorare sempre per essere pronti a catturare la novità e a rispondere”.
La ricercatrice a capo della squadra di ricerca ha spiegato che i medici hanno ottenuto la sequenza del primo frammento del virus, grazie alla quale si è poi avuta la capacità di fare la diagnosi.
Avere isolato il virus vuol dire poterlo “coltivare” e studiare a fondo, per capire come il virus causa danni. In questo modo è possibile studiare la risposta immunitaria e affinare gli strumenti di diagnosi. Quindi si possono elaborare i test sierologici per cercare gli anticorpi nelle persone infettate e poterle guarire. Infine, avere a disposizione la coltura permette di capire i meccanismi di replicazione del coronavirus.
Fino all’isolamento realizzato dai medici italiani, erano disponibili solo i dati di sequenza del virus pubblicati dai cinesi. I quali lo avevano isolato ma non l’avevano “fatto uscire dalla Cina”.
I dati e la diagnosi erano su dati teorici, ora invece si ha a disposizione il virus vero e proprio. La dottoressa Capobianchi ha spiegato che la diagnosi “è stata fatta su base molecolare”, e cioè con la ricerca dell’Rna del virus sui primi due pazienti ricoverati allo Spallanzani. Sempre a tempo di record è stato ottenuto il virus isolato in coltura, cioè il campione biologico del paziente è stato fatto crescere su delle cellule e dopo circa 24 ore è stato osservato l’effetto citopatico. “In quella coltura abbiamo riscontrato la presenza del virus in quantità compatibile con il fatto che stava crescendo”, ha concluso la Capobianchi.
(da agenzie)
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Gennaio 21st, 2020 Riccardo Fucile
AI PRIVATI CONVENZIONATI I GUADAGNI SULLE PRESTAZIONI PIU’ REMUNERATIVE, AL PUBBLICO RESTANO QUELLE IN PERDITA: CHE BEL MODELLO SOVRANISTA
«Il programma di Lucia è stato fatto assieme ai governatori del Veneto e della Lombardia e delle altre regioni che proprio per avere della concretezza e degli argomenti che siano portati avanti in modo credibile», così il 16 gennaio a Telereggio il segretario regionale della Lega e deputato Gianluca Vinci durante la trasmissione La Prova del Candidato.
Come è noto la candidata in questione sarebbe Lucia Borgonzoni, che però non ha partecipato all’incontro coi giornalisti (come al solito).
Uno dei primi punti del programma di Lucia Borgonzoni «ZERO Irpef come in Veneto», una balla perchè in Veneto l’addizionale regionale non è “a zero”, ma si paga l’aliquota minima indipendentemente dal reddito.
Il che a proposito di giustizia ed equità sociale non è il massimo.
In un passaggio dell’intervista Vinci sostiene che «in Veneto l’addizionale Irpef è stata tolta dalla Regione Veneto» e che il programma è di «ridurla fino a togliere quel tipo di addizionale». In Emilia-Romagna però l’Irpef dà un gettito pari a circa un miliardo di euro l’anno, soldi che vengono utilizzati per finanziare i servizi pubblici regionali come la Sanità .
La Lega promette di riuscire ad “azzerare” l’addizionale regionale Irpef senza tagliare i servizi. In attesa dell’autonomia regionale differenziata che dovrebbe portare indietro il residuo fiscale si pensa ad altro.
Cosa e come? Secondo l’onorevole Vinci si può fare «risparmiando in determinati settori e rimodernando quello che riguarda la sanità perchè l’85% del bilancio che abbiamo e della sanità con un modello diverso che premi di più la sanità privata ma non perchè la sanità uno la debba pagare ma perchè ha dei manager privati che la fanno funzionare meglio a parità di costo addirittura entrando sul libero mercato abbassando quel costo e abbassare di pochi punti la sanità significa recuperare quelle risorse».
Tutti sanno naturalmente che la sanità privata non funziona esattamente così, basti pensare al fatto che vengono erogate principalmente quelle prestazioni che sono economicamente convenienti, vale a dire quelle in cui il rapporto tra costi e ricavi è a vantaggio dei secondi.
Ma qual è il modello cui si ispira Lucia Borgonzoni secondo l’onorevole leghista? La Lombardia. Perchè, spiega al minuto 37 dell’intervista, «in Lombardia il 50% delle erogazioni sanitaria è privata in Emilia-Romagna il 20% quindi anche procedere in questo senso».
Ed è proprio lo stesso modello verso il quale sembra stia puntando anche il Veneto di Luca Zaia. E non bisogna cadere nell’errore che la sanità privata non costi nulla al pubblico.
Le strutture private che operano in regime di convenzione ricevono un finanziamento da parte della Regione. Secondo un gruppo di associazioni di cittadini della provincia di Treviso in Veneto nel 2018 il peso del privato nella sanità è stato di 2,8 miliardi di euro su un totale di circa 10 miliardi, il 28% di sanità privata sul totale della spesa della Regione.
Ed è curioso che Vinci citi il modello Lombardia dimenticando però di aggiungere che nella regione governata da Attilio Fontana non è stata affatto “azzerata” l’addizionale regionale.
Ovvero: i cittadini pagano l’addizionale regionale Irpef e al tempo stesso hanno la sanità privata “al 50%” (come dice l’onorevole leghista).
La professoressa Maria Elisa Sartor del Dipartimento di Scienze Cliniche e di Comunità dell’Università degli Studi di Milano rilevava qualche mese fa come questo passaggio della Lombardia alla sanità privata non sia stato certo pubblicizzato in maniera trasparente e chiara, e che anzi sia avvenuto un processo di dissimulazione del passaggio verso la sanità privata da parte degli organi di governo regionali.
Ora al di là di queste considerazioni è indubbio che Vinci abbia detto che vuole andare verso il modello Lombardia e abbia parlato del “tabù” dell’Emilia-Romagna nei confronti della sanità privata.
Ma dopo che Stefano Bonaccini ha ripreso in un post l’intervista a Telereggio scrivendo che «il segretario della Lega Emilia ci spiega il loro progetto per la sanità in Regione: privatizzazione del 50% dei servizi. Dice inoltre che il loro programma è stato scritto con i presidenti di Lombardia e Veneto» il segretario regionale della Lega ha deciso di sporgere querela.
Lo ha annunciato in un post su Facebook dove contesta a Bonaccini di avergli messo in bocca parole che non aveva pronunciato.
Quali? L’accusa «di voler fare discriminazioni in sanità tra ricchi e poveri» che l’onorevole leghista precisa di non avere «mai pensato e mai detto».
Riguardo invece il fatto di voler privatizzare la Sanità regionale invece Vinci non scrive che il candidato del centrosinistra ha detto il falso, anche perchè è quello che ha detto. L’aspetto interessante è che di questa privatizzazione nel programma di Lucia Borgonzoni non se ne parla esplicitamente.
Ma non era stato scritto assieme ai presidenti di Lombardia e Veneto? Non sarà per caso che certe cose si fanno ma non si dicono, come successo in Lombardia?
(da “NextQuotidiano”)
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Gennaio 13th, 2020 Riccardo Fucile
PRIMA DEPOTENZIANO LE STRUTTURE PUBBLICHE, POI FANNO ENTRARE I PRIVATI: E’ LA POLITICHE DELLE MARCHETTE CHE PAGANO I CONTRIBUENTI ITALIANI PERCHE’ AUMENTANO SOLO I COSTI
In Piemonte governa il centrodestra, e il modello che la giunta di Alberto Cirio (ex Lega Nord ora Forza Italia) sembra voler importare è quello della Lombardia.
Due giorni fa infatti l’assessore alla Sanità Luigi Icardi (Lega) ha dichiarato di essere disposto ad aprire il servizio di Pronto Soccorso ai privati, come già avviene nella regione governata da Lorenzo Fontana.
«Abbiamo aperto un tavolo con i privati — ha detto l’assessore leghista — sulla base di un nuovo rapporto basato innanzitutto sulla fine di un’ipocrisia: quella che in tutti questi anni ci ha portato a ricorrere a loro solo in occasione delle emergenze. Mentre bisogna avere l’onestà di ammettere che il pubblico, da solo, non può più farcela».
Il giorno precedente era stata l’Associazione Italiana Ospedalità Privata (AIOP) del Piemonte a far sapere di essere pronta ad accogliere la sfida. «Confermo: come Aiop siamo interessati ad aprire pronto soccorso, compatibilmente con le dimensioni e i volumi di attività delle nostre strutture», ha dichiarato il presidente di AIOP Giancarlo Perla.
Che poi ha precisato che non si tratterebbe di pronto soccorso generalistici ma di strutture “specialistiche” come potrebbero essere cardiologia, ortopedia o traumatologia.
A patto naturalmente che la Regione aumenti in maniera proporzionale all’offerta (e i conseguenti costi, visto che si tratta di avere specialisti a disposizione h24) gli stanziamenti per la sanità privata convenzionata.
«Pubblico e privato non sono in competizione ma devono collaborare», ha detto l’assessore Icardi.
I medici però non la pensano così. Anaao Assomed Piemonte ha fatto il punto della situazione attuale: in Piemonte «l’offerta ospedaliera dei posti letto per acuti è per l’88,5% pubblica e per l’11,5% privata accreditata; quest’ultima costa al SSR 221.410.142 euro, ovvero il 13,2% del totale della Spesa Pubblica per i ricoveri per acuti».
Al tempo stesso però la sanità privata non avendo un servizio di Pronto Soccorso (l’unico in Piemonte è il Gradenigo a Torino) non ha accessi diretti dei pazienti dal PS (il 97,5% degli accessi in PS grava sugli ospedali pubblici), che è il servizio «economicamente più oneroso, più pesante per gli operatori, di complessa gestione per gli amministratori, di durata ed impegno imprevedibile».
Il problema è duplice: gli accessi dal Pronto Soccorso non possono essere “selezionati” e spesso si tratta di casi «di pazienti più complessi dal punto di vista clinico, più anziani e dunque con aumentato rischio di complicanze e maggiori problematiche assistenziali». Ed è giusto che sia il pubblico ad occuparsene visto che questo è il ruolo del SSN.
Aprire ai privati il servizio di Pronto Soccorso, secondo ANAAO non è di per sè un problema a patto che «eroghi anche prestazioni non sempre economicamente vantaggiose e possieda i requisiti organizzativi equiparati al pubblico: chiediamo che si doti dei servizi di emergenza urgenza». L’alternativa migliore sarebbe invece quella di «valorizzare gli ospedali pubblici, che offrono servizi essenziali alla popolazione, che si occupano dei casi che nessuno vuole, che affrontano le emergenze senza badare a quanto costano, se non in termini di coinvolgimento emotivo».
Invece che pensare di allargare l’offerta privata (con i contributi dei soldi pubblici) non sarebbe più semplice potenziare il servizio sanitario pubblico, che c’è già e che già si occupa di curare i pazienti del Pronto Soccorso?
Ma al governo in Piemonte c’è la Lega, il partito di quel Giorgetti che qualche tempo fa diceva che dei medici di famiglia se ne poteva tranquillamente fare a meno. Un partito che sembra voler spingere sempre più verso il settore privato.
(da “NextQuotidiano“)
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Agosto 24th, 2019 Riccardo Fucile
LA LEGA SE NE FOTTE DEGLI ITALIANI CHE NON SI POSSONO PERMETTERE CURE MEDICHE E VISITE SPECIALISTICHE… COME MARIA ANTONIETTA: “SE IL POPOLO AFFAMATO NON HA PIU’ PANE CHE MANGINO BRIOCHE” (MA FINI’ CON LA TESTA TAGLIATA)
Ci sono italiani che non possono permettersi le cure mediche e quindi nemmeno le visite degli specialisti. Ma evidentemente il sottosegretario alla presidenza del Consiglio del governo Lega-M5S Giancarlo Giorgetti è troppo ricco per saperlo.
Per questo ieri ha detto al meeting di Comunione e Liberazione di Rimini che i medici di base sono inutili: “Nei prossimi 5 anni mancheranno 45 mila medici di base, ma chi va più dal medico di base, senza offesa per i professionisti qui presenti? Nel mio piccolo paese vanno a farsi fare la ricetta medica, ma chi ha almeno 50 anni va su Internet e cerca lo specialista. Il mondo in cui ci si fidava del medico è finito”.
Giorgetti, del quale in molti si sono chiesti l’utilità nella sua funzione di sottosegretario alla presidenza del Consiglio, nel suo intervento al Meeting di Rimini per l’incontro ‘Intergruppo sussidarietà : le riforme istituzionali’, in un passaggio sulla sanità pubblica, ha risposto a Roberto Speranza, segretario di Articolo Uno, che nel suo intervento aveva sottolineato la necessità di mettere più fondi nella sanità pubblica perchè “nei prossimi anni andranno in pensione 45 mila medici di medicina generale. Se non mettiamo soldi nella sanità pubblica, chi ha i soldi potrà curarsi e chi non ce li ha avrà un sanità sempre decadente”.
La risposta di Giorgetti è stata come come il «Se non hanno più pane, che mangino brioche» tradizionalmente attribuito a Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena, che l’avrebbe pronunciata riferendosi al popolo affamato, durante una rivolta dovuta alla mancanza di pane.
Evidentemente il sottosegretario leghista, che pure sostiene di avere il polso del paese, non sa che c’è chi non può pagarsi uno specialista.
“La crisi di governo deve aver mandato in confusione il sottosegretario della Lega Giorgetti, che evidentemente non riesce pi a leggere in modo chiaro i sondaggi altrimenti ci spieghi come mai si richiama la sovranità popolare e poi non la si rispetta rispetto ai sondaggi che vedono i medici di famiglia a piu’ dell’80% di gradimento primi tra tutte le figure dell’SSN, e lui ci insegna che il popolo si rispetta sempre non a corrente alternata”, ha risposto Silvestro Scotti, segretario generale della FIMMG.
“Se avesse letto con attenzione gli ultimi dati disponibili si sarebbe infatti accorto che sono sempre più gli italiani che ricorrono al medico di famiglia. Questo senza considerare che la rete della medicina di famiglia, con la sua prossimità al paziente, ricoprirà sempre più un ruolo primario nella sanita’ pubblica, sopratutto nella gestione delle cronicita’ in un paese (l’Italia) che vede costantemente innalzarsi l’eta’ media”. “Pur comprendendo lo stress di un momento politico che vede il sottosegretario evidentemente sotto pressione- ironizza Scotti- non possiamo che stigmatizzare dichiarazioni che denotano un tale distacco dal mondo reale, oltretutto in contrasto con le affermazioni al Senato del leader della Lega Matteo Salvini che invece sottolineavano proprio per il suo partito un ruolo esattamente opposto, fortemente rappresentate, oltretutto, dallo stesso Salvini da una competente e condivisibile valutazione sulle caratteristiche di evoluzione demografica della popolazione italiana”. A Maria Antonietta, per la cronaca, venne tagliata la testa.
(da agenzie)
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Giugno 13th, 2019 Riccardo Fucile
IL 44% DEGLI ITALIANI RASSEGNATI SI SONO DOVUTI RIVOLGERE A STRUTTURE PRIVATE, ERA LO SCOPO PERSEGUITO DALLA LEGA
Troppo tempo. Mesi di attesa: in media,128 giorni per una visita endocrinologico, per fare solo un esempio. E così, invece di rivolgersi al pubblico i “forzati” della sanità virano e si rivolgono al privato pagamento.
Sono 19,6 milioni gli italiani che nell’ultimo anno, per almeno una prestazione sanitaria, hanno provato a prenotare nel servizio sanitario nazionale e poi, constatati i lunghi tempi d’attesa, hanno dovuto rivolgersi alla sanità a pagamento, privata o intramoenia. Lo dice il IX rapporto Rbm-Censis presentato al ‘welfare day 2019’.
Così a causa di un servizio sanitario che non riesce più a erogare in tempi adeguati prestazioni incluse nei Lea (livelli essenziali di assistenza) e prescritte dai medici, i forzati della sanità sono costretti, secondo il rapporto, a pagare di tasca propria.
In 28 casi su 100 i cittadini, avuta notizia di tempi d’attesa eccessivi o trovate le liste chiuse, hanno scelto di effettuare le prestazioni a pagamento (il 22,6% nel nord-ovest, il 20,7% nel nord-est, il 31,6% al centro e il 33,2% al sud).
L’indagine è stata realizzata su un campione nazionale di 10 mila cittadini maggiorenni statisticamente rappresentativo della popolazione.
Transitano nella sanità a pagamento il 36,7% dei tentativi falliti di prenotare visite specialistiche (il 39,2% al centro e il 42,4% al sud) e il 24,8% dei tentativi di prenotazione di accertamenti diagnostici (il 30,7% al centro e il 29,2% al sud). I lea, a cui si ha diritto sulla carta, in realtà sono in gran parte negati a causa delle difficoltà di accesso alla sanità pubblica.
Lunghe o bloccate, le liste d’attesa sono per lo più invalicabili.
In media, 128 giorni d’attesa per una visita endocrinologica, 114 giorni per una diabetologica, 65 giorni per una oncologica, 58 giorni per una neurologica, 57 giorni per una gastroenterologica, 56 giorni per una visita oculistica.
Tra gli accertamenti diagnostici, in media 97 giorni d’attesa per effettuare una mammografia, 75 giorni per una colonscopia, 71 giorni per una densitometria ossea, 49 giorni per una gastroscopia.
E nell’ultimo anno il 35,8% degli italiani non è riuscito a prenotare, almeno una volta, una prestazione nel sistema pubblico perchè ha trovato le liste d’attesa chiuse. Ecco la insormontabile barriera all’accesso al sistema pubblico, che costringe a rivolgersi al privato anche per effettuare prestazioni necessarie prescritte dai medici.
Il 62% di chi ha effettuato almeno una prestazione sanitaria nel sistema pubblico ne ha effettuata almeno un’altra nella sanità a pagamento: il 56,7% delle persone con redditi bassi, il 68,9% di chi ha redditi alti.
Per ottenere le cure necessarie (accertamenti diagnostici, visite specialistiche, analisi di laboratorio, riabilitazione, ecc.), tutti – chi più, chi meno – devono surfare tra pubblico e privato, e quindi pagare di tasca propria per la sanità .
E sono 13,3 milioni le persone che a causa di una patologia hanno fatto visite specialistiche e accertamenti diagnostici sia nel pubblico che nel privato, per verificare la diagnosi ricevuta (una caccia alla second opinion).
Combinare pubblico e privato è ormai il modo per avere la sanità di cui si ha bisogno. Spendere per la salute è ormai inevitabile e necessario per tutti.
Oltre a tentare di prenotare le prestazioni sanitarie nel sistema pubblico e decidere se attendere i tempi delle liste d’attesa oppure rivolgersi al privato, di fronte a una esigenza di salute stringente, molti cittadini si sono rassegnati, convinti che comunque nel pubblico i tempi d’attesa sono troppo lunghi.
Nell’ultimo anno il 44% degli italiani si è rivolto direttamente al privato per ottenere almeno una prestazione sanitaria, senza nemmeno tentare di prenotare nel sistema pubblico. È capitato al 38% delle persone con redditi bassi e al 50,7% di chi ha redditi alti. Ancora una volta: tutti, al di là della propria condizione economica, sono chiamati a mettere mano al portafoglio per accedere ai servizi sanitari necessari.
Obbligo per tutti di spendere per la sanità . Nel 2018 la spesa sanitaria privata è lievitata a 37,3 miliardi di euro: +7,2% in termini reali rispetto al 2014.
Nello stesso periodo la spesa sanitaria pubblica ha registrato invece un -0,3%.
La spesa privata riguarda prestazioni sanitarie necessarie o inutili? Di sicuro tutte quelle svolte nel privato dopo il fallito tentativo di prenotazione nel sistema pubblico sono state prescritte da un medico.
Tra quelle effettuate direttamente nel privato hanno una prescrizione medica il 92,5% delle visite oncologiche, l’88,3% di quelle di chirurgia vascolare, l’83,6% degli accertamenti diagnostici, l’82,4% delle prime visite cardiologiche con ecg. Sono numeri che riguardano prestazioni necessarie, non un ingiustificato consumismo sanitario.
E il pronto soccorso diventa un punto di riferimento. Lo dicono i numeri e i giudizi.
Il 48,9% dei cittadini che nell’ultimo anno hanno avuto una esperienza di accesso al pronto soccorso ha espresso un giudizio positivo (la percentuale sale al 54,5% al nord-est).
Ma solo il 29,7% si è rivolto al pronto soccorso in una condizione di effettiva emergenza, per cui non poteva perdere tempo.
Mentre il 38,9% lo ha fatto perchè non erano disponibili altri servizi, come il medico di medicina generale, la guardia medica, l’ambulatorio di cure primarie. Il 17,3% lo ha fatto perchè ha maggiore fiducia nel pronto soccorso dell’ospedale rispetto agli altri servizi. Si tratta di una domanda sanitaria drogata dalle non urgenze, a caccia della migliore soluzione per il proprio problema, che trova impropriamente risposte nel pronto soccorso.
(da agenzie)
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Giugno 1st, 2019 Riccardo Fucile
I DATI DEL MINISTERO LO SMENTISCONO… E’ LA POVERTA’, NON SONO GLI IMMIGRATI, LA CAUSA
La tubercolosi è una malattia infettiva entrata spesso nel dibattito politico negli ultimi anni perchè colpisce molti migranti.
Anche oggi il ministro dell’interno leghista Matteo Salvini ha ribadito, dopo aver detto che tutti hanno il diritto alle cure, che “agli immigrati purtroppo va il record di tbc e scabbia”. Il vicepremier ha risposto a Marcello Lanari, direttore della pediatria di urgenza del Sant’Orsola di Bologna, che al congresso dei medici dei bambini aveva detto che certe malattie “non sono causate dai migranti, come qualcuno vuole far credere, ma dall’aumento della povertà “.
Ecco come stanno le cose.
I dati sulla tubercolosi li raccoglie Ecdc, il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie.
Nel 2017 in Italia i casi segnalati sono stati 3.944, cioè 6,5 ogni 100.000 abitanti. Tra i malati, gli immigrati sono circa i due terzi, cioè 2.600.
Va chiarito che il numero di casi negli ultimi anni non è cresciuto, anzi, a partire dal 2010, quando le notifiche erano circa 7,8 ogni 100.000 abitanti, c’è stata una continua decrescita, fino al 2015, quando sono risalite per poi scendere di nuovo, appunto, nel 2017.
Dunque, dal punto di vista sanitario non c’è alcun allarme e comunque il numero assoluto di casi (all’interno del quale comunque cresce la quota di migranti) resta contenuto in un Paese da 60milioni di abitanti come il nostro.
E del resto, in Europa, l’Italia è tra i Paesi dove l’incidenza è più bassa.
Nei Paesi dell’Unione infatti la media è di 10,7 per 100.000 abitanti in quelli europei fuori dall’Unione si sale a 56,3.
Per fare alcuni esempi, hanno più casi dell’Italia il Belgio (8,6), la Croazia (8,9), la Francia (7,7), la Germania (6,6), l’Ungheria (7), la Polonia (15,2), il Portogallo (17,5), la Spagna (9,8), il Regno Unito (8,5).
La situazione è peggiore nei Paesi dell’Est, con la Russia che arriva al 79,3.
Giovanni Rezza, responsabile delle Malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità spiega che “La tbc è una malattia della povertà insieme a Hiv e Malaria, come ha detto l’Oms. Non è però diffusa solo in Paesi poveri. Ci sono moltissimi casi anche nell’Europa dell’Est, ad esempio”.
Riguardo all’ipotesi che sia portata dagli immigrati, Rezza dice: “Ci sono due categorie di cui tenere conto. Intanto tra gli italiani la maggior parte dei casi riguardano anziani, che magari erano stati infettati da giovani. La malattia si latentizza e non dà segni di sè finchè il microbatterio si sveglia a causa di una immunosoppressione, anche dovuta a altre patologie. L’altra categoria è quella degli immigrati, in genere più giovani. Si tratta di persone che magari vengono da Paesi dove c’è una grande diffusione della malattia.
L’infezione se la portano dietro e poi in una certa percentuale di casi la sviluppano anche per le condizioni di vita precarie e in generale povere in cui si trovano in Italia”.
Il contagio comunque non è facile. “Il fatto che il numero dei casi sia stabile negli ultimi anni ci dice che tanti contagi non ci sono. Per trasmettere la malattia ci vuole un contatto abbastanza stretto e prolungato, non basta andare sullo stesso autobus”.
L’ultimo focolaio di malattia scoppiato nel nostro Paese, tra l’altro, è partito da un’italiana. Nell’aprile scorso nel trevigiano si sono contati una sessantina di casi, partiti da una maestra che non si è fatta controllare dal medico malgrado avesse i sintomi di un problema respiratorio perchè temeva di avere un tumore.
Riguardo alle terapie, “in un Paese avanzato come il nostro – dice Rezza – la tbc è curabile. Le forme pericolose, quelle multiresistenti ai farmaci, da noi si vedono poco”.
Discorso assai diverso vale per la scabbia. “Quello è un problema banale. Si tratta di una parassitosi cutanea, non mette a rischio la vita – chiude Rezza – Si cura facilmente con i farmaci. Di certo è un altro mondo rispetto alla tubercolosi”.
(da agenzie)
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Maggio 29th, 2019 Riccardo Fucile
ZAIA LANCIA L’ALLARME: “E’ UNA TRAGEDIA, IN VENETO MANCANO 1300 MEDICI”… MA SE VOGLIONO L’AUTONOMIA SE LI TROVINO DA SOLI
Solo tre candidati hanno sostenuto, e superato, un concorso per ottenere uno degli 80 posti disponibili per diventare medici dell’urgenza-emergenza.
Come riporta Il Corriere della Sera, il governatore del Veneto Luca Zaia ha commentato l’accaduto:
“Un concorso per 80 medici dell’urgenza-emergenza bandito da Azienda Zero ha visto presentarsi, e superarlo, solo tre candidati. Ecco l’autentica tragedia in Italia: mancano circa 56mila medici, 1.300 nel Veneto. Un problema che si supera aumentando i posti nelle Scuole di specialità e aprendo un percorso parallelo, cioè permettendo ai neolaureati di essere assunti e di fare la specializzazione direttamente in ospedale. La gavetta si può affrontare anche al fianco dei professionisti”.
Il concorso per i medici di Pronto Soccorso era stato indetto da Azienda Zero, il centro della sanità regionale, lo scorso febbraio.
Dopo che quello bandito a gennaio per 81 specialisti dello stesso settore aveva registrato appena 12 candidati.
Ogni volta che le gare non ottengono i numeri relativi al fabbisogno delle 9 Usl, delle due Aziende ospedaliere di Padova e Verona e dell’Istituto oncologico veneto, vengono ripetuti.
Sono in corso bandi per 294 medici, in più il 15 maggio sono state avviate ulteriori procedure per trovare neuropsichiatri infantili, pediatri, ortopedici, dirigenti di presidio ospedaliero, geriatri, gastroenterologi, otorinolaringoiatri, nefrologi e ancora specialisti di Pronto Soccorso. Sono le figure più «rare» e ricercate, insieme agli anestesisti.
.Nel frattempo il ministero della Salute ha aperto i concorsi agli specializzandi dell’ultimo anno, che possono essere assunti con contratti a tempo determinato fino alla conclusione del tirocinio, e aumentato da 6200 a 8mila le borse di studio per l’accesso alle Scuole di specialità nel triennio 2019/2021. Al Veneto ne spetteranno altre 200, oltre alle attuali 500, alle quali si aggiungono le 90 pagate dalla Regione con 10 milioni di euro.
(da agenzie)
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