CHE FINE HANNO FATTO LE COLONIE ESTIVE?
VOLUTE DAL FASCISMO PER SOSTENERE LE FAMIGLIE MENO AGIATE, POI SIMBOLO DEGLI ANNI DEL BOOM, SONO QUASI TUTTE SCOMPARSE… POCHI COMUNI RIESCONO A MANTENERLE, AL LORO POSTO I “CENTRI ESTIVI”
Una foto piena di bambini in fila, con pantaloncini corti tutti uguali, sguardi da piccoli teppisti in vacanza e una spiaggia — o un prato di montagna, poco cambia — sullo sfondo.
Eccola qui l’immagine a cui tutti pensiamo quando si parla di colonie estive.
E la foto, nelle nostre menti, è quasi invariabilmente in bianco e nero, riporta a ricordi d’infanzia un po’ sbiaditi. Non potrebbe essere altrimenti: anche le colonie estive, come tante altre tradizioni, si stanno trasformando in una rarità , un residuo del tempo che fu.
Persino la parola sta cadendo in disuso ed è più comune sentir parlare di «centri estivi».
La differenza però non è da poco: se le colonie si svolgevano al mare o in montagna, i centri estivi sono la loro versione urbana e offrono una serie di attività da fare nelle scuole di città , riaperte per l’occasione.
Insomma, addio al fascino della scoperta e della vacanza senza mamma e papà . Il vantaggio è tutto economico, perchè costano meno sia per le famiglie che per i Comuni.
Proprio le difficoltà economiche degli enti locali hanno avuto un ruolo importante nella semi-sparizione delle colonie estive.
Un tempo erano soprattutto i Comuni ad organizzarle e finanziarle, il contributo chiesto alle famiglie era molto ridotto e diventava così una forma di assistenza sociale: una vacanza anche per i figli di chi non poteva permettersi le vacanze.
Ma oggi per gran parte delle amministrazioni il servizio costa ormai troppo e – come detto – è stato rimpiazzato dai centri estivi.
Vale anche per Torino: per i ragazzi tra sei e 11 anni ci sono decine di opportunità in città e una sola «in trasferta» a Loano, sulla riviera ligure.
Non è neppure una colonia, ma una vacanza educativa di 12 giorni, con posti limitati a un gruppetto di 26 ragazzi per ogni turno, 104 in tutta l’estate.
Tra le grandi città l’eccezione è Milano, dove quest’anno il Comune ha messo a disposizione 4 mila posti per le sue «Case Vacanza».
Anche in questo caso nessuno si azzarda più a chiamarle colonie. Per accedere al bando bisognava fare domanda con mesi di anticipo, ma ciònonostante sono arrivate 5239 richieste, in crescita rispetto al 2012.
Anche su questo versante la crisi sembra averci mezzo lo zampino: il prezzo era di soli 168 euro per 12 giorni di soggiorno (o addirittura zero con reddito familiare inferiore a 6500 euro) e per molte famiglie milanesi è stata una vitale soluzione «low-cost» per le vacanze dei figli.
Però, a parte Milano e poche altre isole felici, anche quest’attività è prerogativa sempre meno degli enti pubblici e sempre più di privati, associazioni e parrocchie.
In realtà , quelle che resistono meglio sono soprattutto le colonie organizzate dalle aziende per i figli dei dipendenti: tradizione, questa sì, che non accenna a sparire. Così, continuano ad essere in piena attività colonie vecchie di oltre 70 anni e ospitate da edifici ormai storici, come la colonia Fiat di Marina di Massa, in Toscana, e quella Agip – oggi dell’Eni – a Cesenatico.
In molti casi, invece, il problema è riconvertire le colonie dismesse, strutture in disuso a cui dare nuova vita.
Succede sulle coste dell’Emilia-Romagna, dove le colonie marine sono poco meno di 250 e occupano 1 milione e mezzo di metri quadrati di territorio.
Spiega Paola Gualandi, funzionaria della Regione: «Gran parte di quelle che erano di nostra proprietà sono state vendute e in alcuni casi hanno davvero trovato nuova vita». È il caso della grande colonia marina di Cattolica, che oggi ospita un interessante parco tematico marino: «Le Navi».
Discorso simile per l’ex colonia «Novarese» di Miramare di Rimini, che sta diventando un polo del benessere, con spa e centro talassoterapico.
Stefano Rizzato
(da “La Stampa”)
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