COME HA FATTO LA CINA, IL PAESE CHE INQUINA DI PIU’, A DIVENTARE IL PADRONE DELLE RINNOVABILI?
IN 25 ANNI DA PAESE ARRETRATO E DIVENTATA UNA SUPERPOTENZA GLOBALE
La Cina ci ha abituato a miracoli economici. Negli ultimi 25 anni è passata da Paese
arretrato a superpotenza globale, da «Fabbrica del mondo» a colosso tecnologico, da economia chiusa a maggior esportatore internazionale. Nello stesso arco di tempo è diventata anche primo inquinatore e leader della transizione energetica. Come ha fatto? Tutto inizia nel 2001 quando Pechino entra nell’Organizzazione mondiale del commercio: la crescita esplode e la richiesta di energia, prodotta principalmente da carbone, si impenna. Si comincia a porre il problema di come raggiungere la sicurezza energetica senza dipendere dai Paesi produttori di petrolio e gas. A partire dal 2006 la Cina supera gli Usa come principale produttore di CO2 del pianeta. Nelle città l’inquinamento stava ormai diventando un problema sanitario: secondo la Banca Mondiale 16 delle 20 metropoli più contaminate del pianeta sono cinesi (qui pag. 15). Mentre le rivolte popolari sempre più numerose contro l’aria tossica cominciano a diventare un problema politico. In questo quadro (sicurezza energetica e contenimento delle proteste) si innesta la decisione investire nelle tecnologie verdi.
La programmazione rinnovabile
Pechino approva nel 2005 la Renewable Energy Law, la prima legge che incentiva le compagnie elettriche a investire nelle rinnovabili. Nel 2009 arriva Golden Sun, un piano per sviluppare il fotovoltaico sul mercato interno, con sussidi fino al 70% degli investimenti. Nello stesso anno Pechino lancia Dieci città, mille veicoli, programma di sovvenzioni per i veicoli elettrici e l’installazione di stazioni di ricarica. Le aziende cinesi recuperano il ritardo tecnologico acquisendo macchinari e know
how dai partner occidentali interessati alla manodopera locale a basso costo e all’immenso mercato orientale. Lo scambio, però, ha un solo vincitore: già nel 2010 la Cina è il primo produttore mondiale di pannelli solari e di turbine, mentre tre anni dopo supera la Germania conquistando anche la leadership per capacità fotovoltaica installata. Una ulteriore accelerazione arriva nel 2015 con Made in China 2025, piano decennale con il quale Pechino programma di raggiungere l’autonomia produttiva in 10 settori chiave puntando sulle energie green. Il progetto garantisce prestiti a basso tasso d’interesse e sussidi per la ricerca scientifica. Lo schema da seguire è consolidato: Pechino individua il settore strategico da finanziare, le aziende rispondono, aumentano la produzione, depositano brevetti e accrescono la competitività. Quando il mercato raggiunge la maturità, lo Stato riduce o elimina i sussidi. Una strategia che elimina le imprese meno solide, mentre quelle più efficienti si consolidano sul mercato interno e internazionale.
La catena di approvvigionamento
Parallelamente Pechino ottiene concessioni in Africa per le materie prime. Oggi gestisce il 41% della produzione di cobalto e il 28% del rame nella Repubblica Democratica del Congo, il 25% del manganese in Gabon, il 40% di uranio e l’80% di bauxite in tutto il continente. E raffina la maggior parte dei materiali essenziali per l’industria green: il 95% della grafite, il 92% delle terre rare, il 70% del litio e il 21% del nichel. Anche grazie al controllo capillare delle catene di approvvigionamento globali le aziende cinesi – si legge nel report Net Zero Industrial Policy Lab della John Hopkins University – negli ultimi tre anni gli investimenti in tecnologie verdi delle aziende cinesi all’estero hanno superato i 220 miliardi.
Efficienza e innovazione sono poi garantite dai poli produttivi in cui aziende, centri di ricerca, servizi logistici e industrie di componentistica lavorano fianco a fianco. È il caso delle metropoli di Hefei e Shenzhen, diventate veri e propri hub dell’economia verde. Infine, il Paese investe massicciamente nella formazione. Ogni anno si laureano circa 3,5 milioni di studenti in discipline STEM e sono attivi quasi 50 corsi di laurea dedicati alla chimica e alla metallurgia delle batterie che assicurano una forza lavoro altamente qualificata.
Il monopolio di Pechino
Oggi le aziende cinesi controllano il 60% del mercato globale delle turbine eoliche, oltre l’80% della produzione di pannelli solari e depositano il 75% delle domande dei brevetti mondiali per l’energia pulita. Il 2025 sarà un altro anno record: sono in costruzione, su scala industriale, 510 gigawatt di energia solare ed eolica, contro gli 89 della Ue e i 41 degli Stati Uniti.
Lo stesso trend si osserva con le auto elettriche, settore che in 15 anni ha ricevuto quasi 231 miliardi di dollari di sussidi. Nel 2013 la Cina produceva appena 18 mila veicoli EV, nel 2024 ha raggiunto quota 11 milioni. Nel 2025 un’auto su due venduta in Cina è elettrica. Questo exploit è stato raggiunto anche grazie allo sviluppo di un’estesa rete di ricarica. A metà luglio 2025, il Paese contava 16,7 milioni di punti di ricarica, di cui ben 3,9 milioni installati nei primi 7 mesi dell’anno. I tre colossi
Huawei, CATL e BYD hanno introdotto sistemi in grado di caricare le auto in soli 5 minuti. Le case automobilistiche hanno aperto filiali in Spagna, Ungheria, Thailandia, Brasile e Marocco e controllano più del 50% del mercato mondiale. Non sorprende dunque il fatto che 5 tra i primi 10 produttori mondiali di batterie per auto elettriche siano cinesi e detengano quasi il 65% del mercato globale.
2025: calano le emissioni di Co2
Secondo l’Ong californiana Global Energy Motor nel 2024, di tutta l’energia solare ed eolica del mondo, il 44% è prodotta in Cina. Più del totale combinato di Unione europea, Stati Uniti e India. E anche se le rinnovabili, cumulate, non arrivano al 10% del fabbisogno, in Cina negli ultimi 12 mesi le emissioni di CO2 sono calate in modo costante, fatto inedito (al di fuori della parentesi Covid). Il merito va soprattutto all’espansione del solare e dell’eolico che producono energia a basso costo e generano più di un quarto dell’elettricità del Paese.
L’altra faccia della medaglia
La politica dei sussidi a pioggia ha sì abbassato dal 60-90% i prezzi delle tecnologie verdi, ma ha anche alimentato il dumping commerciale sul mercato occidentale, invaso da prodotti a basso costo. Se nel 2008 il nostro continente vantava il 60% della produzione globale di pannelli solari, nel 2022 le imprese Ue sono crollate all’1% della produzione mondiale di wafer solari, lo 0,4% delle celle e solo il 2-3% dei moduli. Con il passare degli anni la sovrapproduzione e la guerra dei prezzi lanciata da Pechino hanno affossato anche il fotovoltaico cinese: dal 2024,
secondo Bloomberg, il settore ha accumulato perdite per circa 60 miliardi di dollari, con la scomparsa di 87 mila posti di lavoro. L’industria che sforna pannelli solari e auto elettriche vendute in tutto il mondo continua ad essere alimentata principalmente dal carbone che rappresenta il 61% dell’energia utilizzata in Cina, seguito da petrolio (18,3%) e gas naturale (7,9%).
Le ombre cinesi
Nella regione autonoma dello Xinjiang è stato costruito in soli 4 anni il parco solare di Midong, il più grande al mondo con 5,2 milioni di pannelli fotovoltaici e una capacità installata di 3,5 GW, in grado di alimentare la domanda annuale di elettricità del Lussemburgo. Lo studio Respecting Rights in Renewable Energy della Ong Anti-Slavery International denuncia: «La produzione di componenti essenziali per moduli solari e batterie per veicoli elettrici nella regione è strettamente legata al ricorso al lavoro forzato imposto alla minoranza uigura dal governo cinese».
Ad oggi la Cina, con i suoi 1,4 miliardi di abitanti, resta comunque il maggiore inquinatore del mondo con oltre il 31% delle emissioni globali e la dipendenza dalle fonti fossili è destinata a durare, visto che l’anno scorso è iniziata la costruzione del maggior numero di nuove centrali a carbone in un decennio (94,5 GW). A questo ritmo, sarà molto difficile rispettare gli impegni di Parigi , dove la Cina si era impegnata a ridurre del 65% delle emissioni rispetto al 2005, e il raggiungimento della neutralità climatica entro il 2060. Dunque, bravi i cinesi a correggere la rotta e a puntare sulle rinnovabili,
ma da qui a definire la Cina «un modello ecologista», come vorrebbe la propaganda di Pechino, ce ne corre.
Milena Gabanelli e Francesco Tortora
(da corriere.it)
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