DA DOVE PASSA LA SCOMMESSA DI DRAGHI
RECOVERY: REGIA, SUPERBONUS E QUOTA 100 LE PRIME SPINE
Quello che siamo è noto, ma rispolverare dati e tendenze dell’Italia di oggi è utile per capire se e quanto l’Italia del 2026 sarà un’Italia davvero più green e più digitale, sarà il Paese dei treni veloci e dei traghetti verdi, delle scuole connesse e delle cure a domicilio, degli asili nido e dei processi veloci.
In definitiva capire se l’Italia, dopo i 221,5 miliardi del Recovery Plan, sarà capace di crescere, ritrovando un vero segno più sul Pil (+3,6%) e sull’occupazione, con un impatto su benessere e inclusione.
Passa da qui la grande scommessa della crescita di Mario Draghi, da 318 pagine di un documento corposo che atterra a Palazzo Chigi, non senza tensioni, per poi volare a Bruxelles entro il 30 aprile.
La scommessa parte da un Paese impoverito dal Covid, mai così tanto dal 2005: un milione di persone in povertà assoluta in più, in tutto 5,6 milioni, cioè il 9,4% della popolazione.
Un Paese che in Europa ha il più alto tasso di giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano e non si formano. Solo il 53,1% delle donne sono impiegate, molto al di sotto del 67,4% della media europea.
Siamo il Paese fragile delle frane e delle alluvioni, con il 12,6% della popolazione che vive in zone con elevata pericolosità.
Siamo il Paese che inquina, con le emissioni che sono rimaste le stesse dal 2019 in poi, risalite dopo il calo del 2008-2014. Ancora il Paese che ha 3,5 milioni di dipendenti pubblici, ma solo il 2,9% con meno di 30 anni.
Il Recovery affronta le questioni, in alcuni casi indica delle direzioni di marcia, in altri dettagli e tempistiche. Due questioni prendono subito la scena, malgrado ad esse siano riservate poche righe.
L’addio di Quota 100 a fine anno, misura previdenziale bandiera della Lega, a cui il sottosegretario leghista Durigon prova a opporre un “Quota 102” tutto da verificare.
Il Superbonus 110%, la cuccagna per l’edilizia, se solo fosse davvero utilizzato e quindi del tutto efficace: si indica la volontà di prorogarlo al 2023, ma non ci sono al momento le risorse per farlo.
C’è poi un tema di fondo che alimenta la tensione sul Recovery Plan ed è la regia: le redini saranno saldamente nelle mani di Mario Draghi a Palazzo Chigi e di Daniele Franco al Tesoro, diversi ministri non intendono stare a guardare.
La leva del Recovery: gli investimenti pubblici. Ovvero saper spendere
Il 60,4% delle risorse del Recovery è riservato agli investimenti pubblici. E da questo dato si capisce che sono loro la leva del Piano. Ma fino ad oggi il problema dell’Italia non è stato avere soldi a disposizione per gli investimenti, ma spenderli.
Nel primo semestre del 2020 abbiamo pagato il Covid e il lockdown e costruire una strada o una rete fognaria, invece che un ponte o una diga, si è rivelata un’operazione ancora più evanescente del solito.
Gli investimenti pubblici sono scesi da 20,6 a 19,3 miliardi, ma anche il trend più positivo – quel 2019 con gli investimenti risaliti al 2,3% del Pil e quindi a 41,1 miliardi – ha un valore assoluto molto basso. Senza considerare che dieci anni fa andavamo decisamente a un altro ritmo, con gli investimenti che erano arrivati al 3,6% del Pil. Con il Recovery dovremmo spendere 133,5 miliardi (calcolando il Recovery vero e proprio da 191,5 miliardi e il Fondo complementare da 30 miliardi). È vero che dovremmo farlo in cinque anni, ma il tempo a disposizione non cancella i problemi che sono alla base dell’incapacità di sapere spendere.
P.A. anziana e poco istruita, si cambia
I problemi sono una Pubblica amministrazione che ha pochi dipendenti, molto anziani, poco istruiti, altrettanto poco formati. E dato che gli investimenti pubblici in Italia, come ricorda la bozza del Recovery, “sono a carico degli enti locali per oltre la metà”, si capisce bene che il problema riguarda non solo la macchina dei ministeri, ma anche se non soprattutto gli uffici comunali e regionali, e in generale tutte quelle figure da cui passerà la gestione dei soldi dei singoli progetti. Qui subentra la cura Brunetta/Draghi e cioè una riforma che punta a tirare dentro i giovani con assunzioni più veloci e attraverso concorsi digitali, ma anche a valutare meglio e diversamente le performance dei dipendenti e dei dirigenti. Il dettaglio della cura arriverà con un decreto specifico, ma le prime linee guida costituiscono un punto di forza lì dove si punta sulla piattaforma unica per il reclutamento. Oggi passano fino a 4 anni tra la pubblicazione del bando per un concorso e le assunzioni dei vincitori. Centralizzare e digitalizzare possono accorciare i tempi del ricambio. L’altra grande questione è la necessità di semplificare le procedure amministrative. Qui un ruolo importante può giocarla la task force di mille professionisti a supporto delle amministrazioni.
Semplificazioni, la sfida è sul Codice degli appalti. Riforma della giustizia sotto tono
Il fianco debole – e qui si passa alle altre due riforme, quella della giustizia e quella degli appalti – è costituito da quelli che spesso vengono chiamati colli di bottiglia. Sono la Valutazione di impatto ambientale, le autorizzazioni per nuovi impianti di riciclo di rifiuti, ma anche le procedure di autorizzazione per le rinnovabili e quelle per l’efficientamento degli edifici. La burocrazia, i certificati che non arrivano, i passaggi di faldoni tra un ministero e l’altro, i ricorsi che bloccano i cantieri. Draghi promette una semplificazione, che significa tempi più brevi e mani più libere, ma qui bisognerà aspettare la riforma degli appalti per capire se ci saranno regole capaci davvero di invertire un trend che oggi dice questo: otto anni e mezzo buttati in burocrazia per le grandi opere, un anno e mezzo per le piccole. Il destino del Codice degli appalti sarà il metro su cui si potrà valutare la portata del cambiamento. Anche la terza riforma, quella della giustizia, andrà sostanziata, sempre che si punti a farlo. Ad oggi ci sono solo i titoli. Quasi nulla se non nulla sul processo penale, pochissimo su quello civile. Quest’ultimo vedrà cancellate le udienze superflue, molte si faranno anche da remoto, ma il potenziamento dei riti alternativi è una strada che fino ad ora ha solo inceppato invece che aiutato i tempi dei processi.
Internet veloce a 8 milioni di famiglie e 9mila scuole. Oggi siamo al Medioevo
Tralasciando i casi estremi e cioè le oltre 63mila persone che non possono avere una connessione Internet perché abitano in zone del Paese dove non arriva la linea, quella della connessione veloce è una sfida tutta da costruire. Gli obiettivi del Governo sono ambiziosi: portare la connettività a 1 Gpbs (Gigabit per secondo) a più di 8 milioni di famiglie, imprese ed enti, ma anche completare la copertura di 9mila scuole e di oltre 12mila ospedali. E poi sul 5G su 15mila chilometri di strade extra-urbane.
Ma partiamo da una situazione molto complessa. Il progetto della rete unica è fermo ed è ancora tutto da chiarire come la scommessa dell’Internet veloce può decollare se prima si riesce a capire quantomeno come superare la doppia rete, quella di Tim e quella di Open Fiber. Secondo l’ultimo Desi (Digital Economy and Society Index), l’Italia è al 25esimo posto su 28 in Europa per livello di digitalizzazione. La diffusione della banda larga fissa ad almeno 100 Mbps è appena al 13 per cento. Sulle competenze digitali e sul capitale umano siamo ultimi. Il Governo punta a portare Internet nelle scuole, negli ospedali e in generale in tutti i comparti della Pa, ma la scommessa potrà riuscire solo se si velocizzeranno le procedure e solo se i soggetti destinatari di questi progetti sapranno aggiornare competenze e capacità di programmazione che hanno a che fare con il cloud e con altre questioni legati alla digitalizzazione.
Cura del ferro, bus e navi green, la transizione ecologica passa anche dall’idrogeno. Ma partiamo da un elettrico al 24%
La necessità di una “radicale transizione ecologica” è data dai cambiamenti climatici. Senza un abbattimento importante delle emissioni nocive, infatti, il riscaldamento globale supererà i 3-4 °C prima della fine del secolo, causando più catastrofi naturali di quelle a cui stiamo già assistendo. E questo vale soprattutto per l’Italia che data la configurazione geografica e gli abusi ecologici rischia di più. Abbiamo poco petrolio e gas naturale, ma tante risorse rinnovabili. Il Governo punta su quest’ultime, insieme a mezzi di trasporto green. Quindi rinnovo del parco autobus inquinanti con più di cinquemila mila mezzi ibridi o elettrici, oltre 20mila nuove colonnine di ricarica elettrica. Ancora 570 chilometri di ciclabili in città e 1.200 km di percorsi turistici. E poi la cura del ferro, con 25 miliardi divisi tra Alta velocità e ferrovie regionali. Ma anche le navi “verdi”, come i traghetti per i servizi regionali.
Partiamo dalle rinnovabili. L’elettrico arriva appena al 24 per cento. E anche qui tutto è frenato dalle autorizzazioni. Tirare su una pala eolica o un sito per smaltire i rifiuti è assai difficile. Basta considerare che le ultime aste per le rinnovabili in Spagna hanno visto una domanda che ha superato l’offerta di tre volte, mentre in Italia è andato in porto il 25 per cento di quanto a bando. La scommessa qui può risultare vincente se si assegnano i progetti del Recovery a una commissione ad hoc, come sta pensando di fare il ministro Roberto Cingolani, e si mette la commissione nella condizione di operare con tempi più rapidi rispetto a quella Via-Vas che fino ad ora ha più bloccato che autorizzato. Sul fronte dei mezzi di trasporto green, invece, la scommessa è legata a come i Comuni e gli enti locali in generale organizzeranno l’offerta sul territorio, anche in considerazione del fatto che il post pandemia cambierà, quantomeno nei prossimi anni, le modalità di viaggio. Altro fattore determinante l’utilizzo della macchina. La usano circa 30 milioni di italiani. Non per andare in vacanza, ma per gli spostamenti quotidiani. Lo sviluppo delle auto elettriche e le dinamiche del mercato italiano saranno determinanti per capire quanto sarà disincentivato il ricorso a mezzi che inquinano
Per asili nido e materne 228mila posti in più. Il gap da colmare
Al nido e all’asilo a fine piano ci saranno 228mila posti in più, ma ci saranno anche mille mense aggiuntive per ampliare il tempo pieno alla primaria e 900 palestre per garantire l’educazione fisica a scuola e contenere così anche la dispersione scolastica. Il Governo punta sull’aumento dei posti a disposizione per la prima fascia dell’educazione e dell’istruzione, ma anche sull’adeguamento delle scuole. In entrambi i casi si parte da una situazione gravosa. Il rapporto tra i posti disponibili negli asili nido e il numero di bambini di età compresa tra 0 e 2 anni si colloca in media al 25,5%, quasi 10 punti percentuali sotto la media europea. Anche dal punto di vista delle condizioni degli edifici siamo parecchio indietro: molti hanno almeno cento anni di vita. In Puglia, Molise, Calabria e Sardegna, circa la metà del patrimonio di edilizia scolastica è stato costruito dopo il 1976. Un edificio su 4 non è stato costruito per essere una scuola, ma riadattato in seguito, soprattutto in Campania, Emilia-Romagna, Umbria, Calabria, Lazio, Liguria e Puglia. Si punta a cablare migliaia di scuole, ma bisognerà prima capire se e quante potranno ospitare le nuove tecnologie. Al netto della riorganizzazione, già evaporata a settembre, di una scuola a prova di Covid.
Le politiche attive per il lavoro: il Governo punta sulla formazione e sui centri per l’impiego. Prima bisogna gestire i licenziamenti
Ci sono i soldi e ci sono le azioni. Il Governo punta sul programma Gol (Garanzia occupabilità lavoratori), cioè aiutare gli adulti disoccupati a cercare un lavoro e i lavoratori che rischiano di perderlo. Un forte accento anche sulla formazione e sul potenziamento dei centri per l’impiego. L’aspetto positivo è costituito dal fatto che ci sono le risorse per le politiche attive del lavoro, anche se restano nettamente inferiori rispetto ai sussidi. Il potenziamento dei centri per l’impiego che sono sottodimensionati potrà aiutare a incrociare domanda e offerta, ma qualsiasi politica attiva non può funzionare se non ci sono domande di lavoro appropriate. La scommessa qui si gioca sul fatto che la pandemia ha generato un problema opposto e cioè la necessità per molte imprese di licenziare alla luce delle perdite registrate a causa del virus e delle restrizioni. Bisognerà capire, quindi, come il Governo intende calibrare lo sblocco dei licenziamenti che torneranno liberi da luglio (per le grandi imprese) e da fine ottobre (per le piccole imprese). Soprattutto capire se e come la ripresa potrà riequilibrare il conto delle uscite. E ancora se la stessa ripresa riuscirà a occupare quei lavoratori che non hanno ammortizzatori sociali e che potranno averlo solo dal gennaio del prossimo anno, quando entrerà in vigore la riforma degli ammortizzatori sociali.
La casa come luogo di cura per il 10% degli over-65. Oggi accade solo in 4 Regioni
Le terapie intensive sovraccariche e insufficienti, gli ospedali presi d’assalto durante la fase più critica della pandemia. Covid ha imposto un cambio di passo nella sanità e il Governo decide di puntare sui servizi territoriali, sulla telemedicina, ma anche sulla casa come primo luogo di cura e su 1.288 Case di comunità. Il baricentro si sposta da una struttura centralizzata sugli ospedali a una legata al territorio. Tra gli obiettivi quello di curare in casa il 10% degli over-65. Oggi accade solo in 4 Regioni.
(da Huffingtonpost)
Leave a Reply