ELEZIONI ROMA: “NON HO DUBBI, VOTO BOH”
SCRITTORI, REGISTI. BLOGGER: “NESSUN CANDIDATO E’ ALL’ALTEZZA”
Scordarsi le fanfare, i “mai nella vita”, gli endorsement a frotte. O le battute salaci che indicano la direzione del vento.
Stavolta, chi vota a Roma, per lo più non sa che pesci prendere. Anche se manca meno di un mese al voto. «In questa campagna elettorale non c’è chimica. È tutto spento.
Lo sbandamento, generale. I partiti stanno sulla trincea più arretrata. E i candidati sulla serie B.
Non ci sono contenuti, perchè non c’è un focus su una idea di Roma: anche retorica, ambiziosa, qualcosa che dia ai cittadini il senso di cosa significhi essere romani oggi. Nessuno ha il coraggio».
Il sociologo Giuseppe De Rita, romanissimo, fondatore del Censis, relatore nel convegno ecclesiale del 1974 “sui mali di Roma” che ancora oggi si evoca, va oltre la critica: è scorato.
Fotografa, e vive, un malessere assai diffuso. Un sentimento che accomuna giovani e vecchi, centro storico e periferie, politologi e blogger del trash, registi e editori, giornalisti e scrittori.
Una volta si intercettava lo schierarsi, ora tocca registrare la costernazione, lo sconforto: «Deciderò all’ultimo per chi votare ma ci andrò senza convinzione, trascinando i piedi. Non parlo da intellettuale: penso che qualche milione di romani farà così», dice De Rita .
È per questo che Christian Raimo, giornalista e scrittore, autore di un post su “Internazionale” diventato virale (titolo: “Roma sta morendo e nessuno fa niente”) offre un pronostico da «55 per cento di astensione».
Lui ce l’ha soprattutto con la sinistra: «Voterò scheda bianca sperando che il Pd arrivi quarto e che Sinistra Italiana non elegga neanche un consigliere. Non perchè non esprimano una qualità diversa: ma non hanno compreso la crisi politica che c’è a Roma e mancano di visione».
Una città sfiancata dai propri fallimenti. Dove i partiti non ci sono più. E i quattro candidati si agitano in modo grottesco per cercare di nascondere il vuoto. Specchio e metafora di tutto il Paese.
Sarà l’uragano di Mafia Capitale o la “scabrosa” caduta di Ignazio Marino e di tutti gli idoli dell’ultimo ventennio. Ma il disorientamento è assoluto.
«Io il mio voto non lo esprimo neanche privatamente, a me stesso, figuriamoci in pubblico», dice Ascanio Celestini, attore, regista e scrittore: «Si tratta di votare uno che ci promette che non ruba? E va bene, andrò. Sì, ma che Paese si immaginano tra vent’anni? Perchè dalla politica mi aspetto questo, e qui non lo fa nessuno».
Una città , mondi e persone come presi in contropiede da un panorama che per la prima volta non offre neanche lo scampo di infilarsi nel solito schema, nemmeno con un piede solo.
Così, se fino all’altroieri c’erano folle di scrittori, attori, giornalisti e registi che dicevano con naturalezza «voto Veltroni», «voto Marino» – o «voto Alemanno» per impulso anti-sistema – a un mese dalle urne ci sono pacchi di non sa-non risponde.
«Chi voto? Ah saperlo, non sono pronta», sospira Serena Dandini.
«Preferirei non dire nulla, ho poche idee lacero-confuse», risponde cortese Paolo Pietrangeli, il cantautore di Contessa.
«Ci devo pensare, sono stato un mese all’estero», riflette Paolo Genovese, il regista di “Perfetti Sconosciuti”.
«Non ho ancora deciso, ad oggi si è parlato solo di candidati e non di Roma», spiega il giuslavorista Michel Martone, viceministro del Lavoro col governo Monti.
«Non è che si tace per convenienza, è che nessuno sa cosa votare. E sono confuso anch’io», riassume l’architetto Massimiliano Fuksas.
«Conosco Marchini, è molto simpatico, un campione di polo e di fidanzamenti, ma non ce la potrei fare a votare con Berlusconi. Mi aspettavo qualcosa da Giachetti, sapere cosa dice il Pd. Ma non si sente nulla».
L’archistar avrebbe preferito, invece del voto, «un commissario per quattro anni»: «Non vedo le idee. Si parla di marijuana, di teleferiche, di vendere la Nuvola a un emiro, e si accomodino. Ma nulla che abbia a che fare coi problemi veri. Aggredire la situazione, parlare di Atac, di Ama, significherebbe farsi molti nemici: e qui si ha talmente paura».
«Già , paura. È la lezione di Marino: è andato contro gli interessi, ha fatto una fine atroce, quindi nessuno si arrischia», spiega Massimiliano Tonelli, portavoce del blog Romafaschifo finito sul “New York Times”.
Lui non va a votare e trova che la campagna elettorale somigli a quelle «democristiane anni Ottanta»: «Nessuno si sbilancia, ci si combatte sul “non fare”, ci si prepara a una manutenzione del degrado e del declino. L’unico esperimento sarebbe vedere al governo persone restate sin qui fuori dalle dinamiche del potere». Cioè i grillini.
Eccola: l’indecisione tra la Raggi e Giachetti, uno dei nodi attorno a cui si avvita certa romanità . Con fatica, senza gioia.
«Queste sono le elezioni del boh, è come assistere a un film giallo di cui si è perso l’inizio, mi arrendo alla confusione», dice Daniele Luchetti, il regista che col “Portaborse”, all’alba di Tangentopoli, fornì un bagaglio di certezze a schiere di cineamatori: «Ho sempre votato Pci, poi il Pd, sentivo che dietro c’erano costruzioni dal basso. Ora ci si accontenta: ma gestire Roma non è aver fatto bene il classico. Scegliere i Cinque stelle per me è fuori dalla grazia di Dio, ma potrebbe essere».
Più che intenzioni di voto, sedute di autocoscienza.
«Sto combattendo contro il me stesso astensionista», chiarisce lo scrittore Paolo Di Paolo: «Un giorno penso Giachetti turandomi il naso, un altro la Raggi per disperazione. Speravo in uno scatto di orgoglio: è arrivata un’armata Brancaleone». Nomi fragili, nessuno che faccia da soluzione. «
Alcuni voteranno la Raggi e non l’avrebbero mai fatto», dice Gabriele Mainetti, il regista rivelazione di “Lo chiamavano Jeeg Robot”, che non si schiera.
C’è chi si rassegna, non domo: «Alla fine voterò a sinistra, come sempre. Con rabbia, perchè non penso Giachetti vincerà , e semmai al ballottaggio nemmeno andrò, sarebbe la prima volta», dice Stefano Bises, sceneggiatore di “Gomorra”.
Come è possibile che non ci sia stata una candidatura all’altezza, si chiedono in molti. La scelta di Giachetti «mi meraviglia e quasi mi sembra fatta apposta», aggiunge Matteo Maffucci degli Zero Assoluto.
Anche lui concentrato sulla ricerca del “meno peggio”: «Forse alla fine voterò la Raggi. Ma la stima verso chiunque latita e invece vorrei essere orgoglioso di votare».
Cronache di un mondo lacerato. «L’altra sera ero a cena con amici, si sono scandalizzati quando ho detto che non è giusto escludere a priori di votare per la Raggi», racconta Giuseppe Laterza.
Anche lui, l’editore, perfettamente incerto – «e non mi era mai successo» – tra «una continuità che non si fa onore e un salto nel vuoto», ossia votare M5S o Pd: «Giachetti è un’ottima persona. Ma il mio dubbio è, chi è espressione di un certo apparato, può sovvertirlo? Perchè per Roma, dominata dalle lobby, ci vuole una rivoluzione. Giachetti è in grado?».
Naturalmente poi c’è la domanda inversa: Raggi è in grado?
«L’ho incontrata per pochi minuti, aveva tanta paura di me», dice Roberto D’Agostino, anima di Dagospia: «Ma, dico: se ha paura di Dago stiamo freschi». Perplesso anche il giornalista Vittorio Emiliani: «I grillini, alcuni, hanno studiato: sapranno farsi classe dirigente? Non lo so. Certo bisogna che si facciano aiutare», dice lo storico direttore del “Messaggero”.
Che avrebbe scelto Fassina, e «se non torna in lizza non so chi votare»: «In periferia, per dire, si vive da sequestrati. Nessuno raccoglie le idee, neppure se va proseguita la linea C. È solo panna montata».
Lo scrittore Fulvio Abbate ha risolto l’enigma come segue: «Marchini non lo voterei mai perchè lo considero intellettualmente inesistente. Giachetti non viene nominato neppure dai rappresentanti del Pd, danno per scontato che non passerà . E la Meloni c’è stato un tempo in cui i suoi stessi compagni di partito pregavano: smettetela di osannarla, è inconsistente. La vera destra è la Raggi. La voterei perchè così i Cinque stelle smetterebbero di mostrarsi come i più virtuosi. Non andrò, vincerà lo stesso».
L’idea dei grillini alla prova dei fatti è al centro degli alambicchi politologici. Giovanni Orsina, docente alla Luiss, studioso del berlusconismo, ragiona su questa previsione: «Lo scontro finale sarà ancora tra politica e anti-politica. E i romani potrebbero essere tentati dalla Raggi. Se la città si dà per perduta, tanto vale sperimentare farmaci nuovi, come su un paziente in fin di vita».
C’è chi però si ribella: «Accollare a Roma la prova del nove contro i Cinque stelle è una follia. Noi ci abitiamo, mica possiamo fare gli esperimenti. Non siamo a Mururoa», reagisce la giornalista Flavia Perina, già parlamentare di An-Pdl: «Non mi fido della retorica dell’outsider e nemmeno di quella delle mani pulite. Opzioni già sperimentate. Guardo piuttosto a chi ha già avuto modo di sedersi a tavola e si è alzato con gli abiti decentemente puliti».
Il che in fondo è un’altra ricerca del meno peggio.
Lo scrittore Walter Siti, chiude secco la questione: «Non voto nella Capitale, per fortuna». Lui sceglie a Milano. Ed è sollevato anche Umberto Pizzi, che pure ha fotografato la Roma della Dolce vita e di Cafonal: «Non voterei per nessuno, per la prima volta in vita mia, vorrei evitare di essere coinvolto».
Not in my name, almeno.
Susanna Turco
(da “L’Espresso“)
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