GAZA, LO STERMINIO A TRE ORE DA NOI
VEDIAMO I PALESTINESI MORIRE DA MORIBONDI, SIMILI AGLI EBREI DI AUSCHWITZ O AI CONTADINI UCRAINI DELL’HOLODOMOR
Noi che viviamo sicuri nelle nostre tiepide case, seduti ogni sera, davanti agli sbuffi di polvere che si alzano sulle macerie di Gaza, alle esplosioni che illuminano la notte di Khan Younis, ai cadaveri senza identità accatastati nelle fosse comuni, ai bambini ridotti a scheletri, ci chiediamo quanto veleno militarista, quanto veleno religioso, quanto veleno ideologico occorrano per trasformare una vendetta in un massacro senza fine. E come sia possibile ritrovarci a respirare di nuovo dentro al nero inchiostro della premonizione di Primo Levi: “Siccome è successo, succederà ancora”.
Al netto delle briciole concesse da Israele, un corridoio lungo dieci ore al giorno ai camion degli aiuti umanitari, siamo tutti precipitati indietro nel tempo. Di nuovo spettatori del lager, testimoni di un massacro che avviene davanti al mondo, a tre ore di volo dalle nostre vacanze, dai nostri fantocci della politica e della diplomazia, dalle balbettanti corrispondenze dei nostri telegiornali che chiamano lo sterminio “un nuovo raid delle Forze armate”, o peggio, “una nuova offensiva”. E dicano, come niente fosse “bombardata la tendopoli di Deir El Balah” e poi “nuova strage tra gli sfollati in fila per il cibo, oggi sono 32”, senza spiegarci come sia possibile bombardare una tendopoli che è “area umanitaria” per eccellenza, e sparare sugli sfollati, che sono donne e bambini, aggrappati alle loro pentole vuote.
Due inferni sulla Terra ha fabbricato il fanatismo ideologico, negli anni 30 dell’altro secolo: lo sterminio degli ebrei nei campi
di concentramento nazisti voluto da Hitler e dalla sua Germania uncinata, classificato come Soluzione finale. E lo sterminio per fame, imposto in Unione Sovietica da Stalin e dagli apparati comunisti, contro il popolo ucraino, l’Holomodor. Se
Netanyahu e il suo governo, Israele e il suo esercito, li stanno imbracciando entrambi contro i palestinesi imprigionati a Gaza, per vendicare i 1200 ebrei uccisi da Hamas e i 250 rapiti, tutte vittime del 7 ottobre 2023, in un raid preparato per mesi dai miliziani, senza che gli occhi satellitari di Israele si accorgessero di nulla, come nel nulla erano finiti gli allarmi dei Servizi segreti militari. Per poi deflagrare nel furore di questa vendetta infinita e finale, 21 mesi di bombardamenti, che nessuno riesce più fermare.
Le bombe e la fame. I missili e le malattie. Quasi 60 mila palestinesi sono già morti sotto le bombe, altre migliaia di vittime sono scomparse sotto le macerie. I jet e i droni hanno raso al suolo il 70 per cento di tutto: le case, gli ospedali, le strade. Da marzo – secondo il piano ideato come seconda fase del massacro – l’esercito ha bloccato i camion di cibo e acqua degli aiuti internazionali al di là dei valichi di frontiera, per poi fucilare, ogni giorno, i civili che si addensano in folle rese isteriche dalla fame, nei punti in cui viene distribuita la farina: l’alimento indispensabile alla sopravvivenza, trasformato in trappola mortale.
Le briciole appena concesse da Netanyahu “per impedire all’Onu di continuare a mentire contro di noi” serviranno poco ai gazawi (e agli ostaggi imprigionati da Hamas) se non a prolungarne l’agonia. A morire da moribondi, proprio come accadeva agli
ebrei ridotti a scheletri nelle baracche di Auschwitz, prima di essere avviati ai forni crematori. O come i contadini ucraini ridotti a larve umane nei campi bruciati dalla carestia.
Ma chi sono i soldati che obbediscono agli ordini sul campo? Che facce hanno? Nessuna è mai comparsa. Israele controlla, cancella, censura tutto. Non le vediamo, ma possiamo immaginarle. Sono quelle dei normalissimi ragazzi e delle ragazze che fino a sei mesi fa, a un anno fa, giocavano a pallavolo sulle spiagge di Eilat e Banana Beach, che bevevano l’aperitivo nei pub di Jaffa, che si scattavano selfie in quella che ancora oggi le guide turistiche chiamano “l’eccitante vita notturna di Tel Aviv”.
È stata la disciplina militare a trasformarli. È stata l’ideologia della smisurata vendetta a renderli così obbedienti, così impermeabili all’orrore, così indifferenti all’omicidio di massa. A persuaderli che sparare ogni giorno, da 660 giorni, contro civili inermi sia una guerra e non un crimine. Un ordine da eseguire. Una procedura consentita dal dominio totale che Israele, da decenni, esercita sui suoi nemici, in nome della propria nazione, della propria terra, della propria storia. Decenni nei quali ha steso il filo spinato intorno ai 56 chilometri di confine di Gaza. Installato telecamere e check-point. Consentito l’assalto dei coloni nei Territori. Praticato gli arresti arbitrari dei sospetti, sequestrati senza processo in carceri vietate a ogni controllo. Garantendo la perpetua impunità dei propri reparti militari.
Al netto delle crescenti diserzioni (e suicidi) che le agenzie internazionali segnalano tra le file dell’esercito israeliano, non
sono solo i decenni di guerra guerreggiata a rendere le migliaia di reclute così tanto indifferenti al destino di un intero popolo nemico, speculare al proprio. Lo è anche l’assimilazione dei canoni dell’apartheid respirati nella vita quotidiana, quella vissuta nella famosa “unica democrazia del Medio Oriente”, che li ha persuasi della completa disumanizzazione dei palestinesi, gli intrusi. Gli intralci da eliminare, i corpi da sfoltire, le masse irrilevanti da sgomberare. “Gaza sarà finalmente tutta ebrea”, ha appena auspicato Ben-Eliahu, ministro di Netanyahu. Perché “i palestinesi non sono un popolo” non sono nulla, come sostiene il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, quello che già un anno fa anticipava la strategia di Israele in forma di auspicio quando diceva che lasciar morire di fame due milioni di palestinesi “potrebbe essere giustificato e morale per liberare gli ostaggi”.
Dunque la guerra perpetua, la fame, lo sterminio. Ottant’anni fa, 2 dicembre 1948, Albert Einstein, Hannah Arendt e altri 26 intellettuali ebrei resero pubblica la loro denuncia sulla deriva del nascente Stato di Israele dove si predicava “un misto di ultranazionalismo, misticismo religioso e superiorità razziale”, e che il Partito della libertà, leader il futuro premier Manachem Begin, appariva “strettamente affine ai partiti nazista e fascista nei metodi, nella filosofia politica, nell’azione sociale”. E concludeva la lettera: “È nelle azioni che il partito terrorista tradisce il suo reale carattere: dalle sue azioni passate noi possiamo giudicare ciò che farà nel futuro”. Quel “noi” di allora siamo noi oggi. Il partito di Begin è diventato quello di Netanyahu. E quel futuro è adesso.
(da ilfattoquotidiano.it)
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