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GLI SCANDALI, LE RAMAZZE E IL RITORNO DI FIAMMA COL PDL. PER LA LEGA UN ANNO DA DIMENTICARE

MARONI HA PRESO IN MANO IL PARTITO SOLO DOPO CHE IL CERCHIO MAGICO ERA STATO SPAZZATO VIA DALLA MAGISTRATURA… LA FASE DEL DIALOGO CON CONFINDUSTRIA CHE HA DISORIENTATO LA BASE…E ANCORA SCANDALI IN REGIONE E IL FLIRT CON SILVIO INVISO ALLA BASE

Dalle ramazze al (nuovo) inciucio?
In dodici mesi la Lega Nord è passata da Umberto Bossi a Roberto Maroni, dalla Padania alla macroregione, dalle corna alle cravatte, da “Roma ladrona” a “Prima il nord”.
Ma, tanto ha fatto e tanto ha brigato, che Maroni rischia di tornare da dove era partito.
Il 2012 della Lega è stato tutto un tumulto, un susseguirsi di colpi di scena e dèjà -vu.
Un anno passato tra spaccature interne, inchieste giudiziarie, rottamazione dei vecchi leader e nuove parole d’ordine arrivate a sostituire quelle consumate da un passato senza più credibilità .
Dodici mesi che stanno per culminare con una incredibile giravolta: la candidatura di Roberto Maroni alla presidenza della Regione Lombardia potrebbe infatti riaccendere la vecchia passione e riavvicinare la Lega al Pdl del redivivo Silvio Berlusconi, quell’alleato ingombrante di cui la stessa base del Carroccio non vorrebbe più sentir parlare.
FASE UNO — LE DIVISIONI INTERNE
Tutto è iniziato con l’esplosione dei malumori interni, covati per mesi nel cuore e nella pancia della base militante.
Una base stanca di un partito troppo legato agli scranni capitolini e sempre più distante dalle istanze del territorio. Così sono emerse, in tutta la loro evidenza, le divisioni tra i fedelissimi di Umberto Bossi e i barbari sognanti che spingevano per l’incoronazione di Roberto Maroni.
Le prime avvisaglie sono arrivate a ottobre del 2011, in occasione del congresso provinciale di Varese.
Nella sala dell’Ata Hotel è stata negata ai delegati la possibilità  di votare ed è stato imposto un segretario provinciale bossiano: Maurilio Canton. Tanto è bastato per far scoppiare il putiferio.
Durante l’assemblea i militanti hanno dato vita a delle aperte contestazioni, consumate sotto lo sguardo incredulo di Bossi.
Nelle settimane e nei mesi a venire lo scontro è andato acutizzandosi e, senza che Roberto Maroni sia mai dovuto uscire allo scoperto, il movimento dei maroniani ha iniziato la propria rivolta, combattendola sul web e nelle segreterie.
L’apice di questa fase preparatoria è arrivata tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012 quando, sull’onda del crescente consenso riscosso da Roberto Maroni dopo la caduta del governo Berlusconi, la segreteria federale ha vietato all’ex ministro dell’Interno di parlare in pubblico.
Una mossa che si è rivelata ben presto una clamorosa autorete da parte dei bossiani.
Nel giro di poche ore, infatti, centinaia di segreterie cittadine sparse in tutto il Nord hanno invitato Roberto Maroni a tenere comizi nelle loro città .
A quel punto a Maroni sarebbe bastato raccogliere i frutti della battaglia combattuta dal “suo” esercito senza generale.
E invece l’ex ministro degli Interni continuava a non esporsi.
FASE DUE — BOSSI GATE
Con i tumulti ancora in corso e un partito barcollante, a spianare la strada a Maroni ci hanno pensato le inchieste giudiziarie.
Mentre tutti aspettavano che Bobo, il barbaro sognante, infliggesse il colpo di grazia al vecchio Capo ormai delegittimato dalla sua stessa base, le procure di Milano, Napoli e Reggio Calabria hanno fatto esplodere lo scandalo sull’utilizzo dei finanziamenti ai partiti.
Tutto è iniziato dall’indagine sull’ex tesoriere del Carroccio Francesco Belsito, ma l’azione delle procure si è presto allargata, travolgendo nomi eccellenti nel panorama leghista.
Il figlio del Senatùr, Renzo Bossi, è stato tra i primi a dover lasciare la comoda poltrona di consigliere regionale. Assieme al “Trota” nel tritacarne è finita anche la pasionaria Rosi Mauro, vicepresidente del Senato e “badante” di Umberto Bossi.
In quelle settimane ogni giorno ha segnato inesorabilmente un passo verso il baratro. Soldi investiti in Tanzania, diamanti acquistati con i fondi di partito, addirittura una laurea in Albania per Renzo e rimborsi elettorali utilizzati per mantenere la famiglia del Capo.
Ai sospetti si aggiungono le intercettazioni, le mezze ammissioni.
La verità  è che la Lega in versione primavera 2012 offre uno spettacolo da Prima Repubblica.
Uno spettacolo davanti al quale la storica base leghista, quella che affollava le piazze al minimo cenno del Capo, ha perso ogni speranza.
I sondaggi danno il Carroccio in picchiata, anche i più ostinati difensori di Bossi hanno dovuto arrendersi all’evidenza, accettando il fallimento del sistema. Un fallimento davanti al quale lo stesso Senatùr si è visto costretto a rimette il proprio mandato di segretario nelle mani del partito, aprendo la strada al congresso federale che mancava da dieci anni.
Per Roberto Maroni, in quel momento, è stato facile agitare le ramazze chiamando a raccolta i suoi barbari, in nome di una nuova Lega, più pulita e meritocratica, capace di spazzare via la vecchia classe dirigente con tutti i suoi vizi.
Così, il 10 aprile, alla fiera di Bergamo, dopo che la valanga giudiziaria e il tifone mediatico avevano ormai ridotto in brandelli la Lega, Roberto Maroni è salito sul palco assieme a un Umberto Bossi in lacrime, irriconoscibile, prendendosi la guida di quel che restava del partito.
FASE TRE — MARONI SI TROVA AL COMANDO
La Lega nella fase di transizione dall’era bossiana a quella maroniana è un partito completamente allo sbando.
Alle elezioni amministrative della primavera 2012 ha perso in quasi tutti i comuni interessati dal voto, uno dei peggiori risultati di sempre nella storia del partito.
L’unico successo degno di nota è stato quello di Verona, la città  di Flavio Tosi, leghista atipico che piace molto a Maroni, che lo elegge a modello da imitare, per la sua capacità  di guardare oltre i confini ristretti del partito e di parlare alla società  civile, aggregando forze diverse attorno al progetto amministrativo del Carroccio.
Il primo cittadino scaligero assieme al sindaco di Varese Attilio Fontana e all’eurodeputato Matteo Salvini sono stati tra i principali sponsor dell’atto finale dell’affermazione maroniana che si è compiuta a luglio, in occasione del congresso federale, che non ha tradito le attese incoronando Roberto Maroni come nuovo segretario della Lega Nord.
Nelle settimane precedenti il Veneto e la Lombardia avevano anticipato il risultato, finendo sotto il controllo della nuova guardia leghista (a Tosi il Veneto, a Salvini la Lombardia).
Vestiti i panni del segretario, Maroni ha provato a restituire un’identità  al partito, calandosi nel ruolo dell’anima candida, critico con il Governo e con chi lo ha sostenuto, vicino alla gente.
Il lavoro di Maroni è stato tutto volto a costruire una nuova immagine per la nuova Lega, con meno corna e più cravatte.
Così il neo-segretario ha indossato subito il vestito buono e ha iniziato a dialogare con la cosiddetta società  civile, convocando grandi assemblee per incontrare di volta in volta gli industriali, le associazioni di categoria e gli amministratori locali.
Di fronte a questo nuovo modo di operare la base storica è rimasta in una certa misura smarrita.
Il nuovo corso del Carroccio, depurato dalle vecchie parole d’ordine (secessione e federalismo), è diventato più difficile da comprendere ed ha perso ampie fette di consenso nei territori di recente conquista (come l’Emilia Romagna), ridimensionando la presenza anche nelle roccaforti storiche.
La Lega 2.0 ha iniziato a parlare di “macroregione del nord”, con l’obiettivo dichiarato di assumere il controllo diretto della Lombardia per fare asse con Veneto, Piemonte e Friuli, anche a scapito della presenza nei palazzi romani.
FASE QUATTRO — CASO LOMBARDIA E RIAVVICINAMENTO AL PDL
Ma è proprio dalla sua ostinata rincorsa alla guida della Lombardia che Maroni rischia di fare un pericoloso salto nel passato.
Quando è arrivato il momento di definire candidature e alleanze in vista delle elezioni del prossimo febbraio (a seguito degli scandali che hanno travolto il Pirellone e il suo presidente Formigoni sostenuto anche dal Carroccio), l’ex ministro dell’Interno non ha esitato a riallacciare i rapporti con un Pdl sempre più a pezzi, spingendosi fino alla tana del diavolo per trattare direttamente con Silvio Berlusconi pur di assicurarsi la guida della Regione a lui più cara.
Un patto di reciproco sostegno che era nell’aria da mesi, da quando cioè Maroni ha iniziato ad ammorbidire le posizioni nei confronti di Angelino Alfano, dichiarando a più riprese che il dialogo con il Pdl sarebbe ripreso se e quando il Pdl avesse staccato la spina al Governo Monti.
Ora il governo Monti non c’è più e il dialogo tra la Lega e il Pdl si è fatto più intenso, tanto che l’idea del vecchio asse Pdl — Lega, ritenuta impossibile solo fino a qualche settimana fa, oggi sembra essere una delle poche alternative al fallimento del centro destra.
Un equilibrismo che molti dei militanti e dei quadri leghisti hanno affermato apertamente di non gradire, preferendo di gran lunga la prospettiva di un’onorevole sconfitta solitaria ad una vittoria da condividere con un alleato ingombrante.
Uno su tutti il segretario Lombardo della Lega, Matteo Salvini, che è più volte intervenuto a gamba tesa sulla possibilità  di un accordo con il Pdl.
Maroni doveva sciogliere le riserve in queste ore a Bergamo, di fronte a quel che rimane del pubblico tradizionale del Carroccio.
Ma, ancora una volta, ha preferito rimandare.

Alessandro Madron
(da “il Fatto Quotidiano“)

This entry was posted on sabato, Dicembre 29th, 2012 at 23:50 and is filed under LegaNord, Maroni. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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