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GOVERNO E IMPRESE AUMENTINO GLI STIPENDI: QUATTRO MOTIVI PER CUI E’ ORA DI FARLO

ADESSO VANNO AIUTATI I LAVORATORI CHE HANNO PAGATO IN SOLITARIA IL CAROVITA

Governo e imprese non hanno più scuse: è arrivata l’ora di aumentare gli stipendi dei dipendenti, pubblici e privati. Lo devono fare perché è giusto eticamente, visto che sono loro ad essersi sobbarcati quasi in solitaria gli effetti del carovita, e lo è anche economicamente, siccome un aumento del reddito disponibile automaticamente farebbe crescere i consumi, quindi la domanda aggregata e quindi il pil italiano. E lo devono fare anche perché così si arresterebbe il trend che vede da anni una costante diminuzione della ricchezza degli italiani, dovuta proprio all’effetto perverso di salari fermi e inflazione che ha galoppato parecchio.
In estrema sintesi, sono quattro i motivi per cui non bisogna più aspettare. Partiamo dal primo e forse più importante: la lotta all’inflazione nei fatti è stata vinta. A essere chiaro su questo punto è stato, come sempre, il Governatore di Bankitalia, Fabio Panetta. Nel suo intervento di sabato scorso al Forex lo ha detto chiaramente: siamo in una fase di disinflazione, a gennaio il carovita è sceso al 2,8 per cento, 8 punti percentuali al di sotto del picco toccato nel 2022, e il ribasso continuerà anche nei prossimi mesi, tanto che si potrebbe raggiungere l’obiettivo del 2 per cento che la Bce si è posta già a primavera. Quindi Christine Lagarde non ha più scuse, quest’anno bisogna invertire la tendenza e iniziare con un taglio dei tassi d’interesse. Anche perché ormai la possibilità che si inneschi la tanto temuta dagli economisti spirale prezzi-salari è pari quasi a zero. Quindi, aumentare i salari non ha controindicazioni per l’economia. Anzi.
Qui arriviamo alla seconda valida motivazione: ritoccare gli stipendi è un atto dovuto nei confronti dei dipendenti, pubblici e privati. Alla fine sono proprio loro che si sono dovuti sobbarcare il peso dell’inflazione negli ultimi due o tre anni. Le banche, ad esempio, e in generale tutto il sistema finanziario non hanno risentito della fiammata dei prezzi, hanno addirittura battuto diversi record positivi. La settimana scorsa ha visto la presentazione dei risultati 2023 delle maggiori banche italiane. Ebbene, se prendiamo le cinque più grandi, ci accorgiamo di numeri stratosferici: 22 miliardi di profitti, con un aumento da un anno all’altro di più del 60 percento, e infine la previsione che il 2024 sarà anche migliore. Insomma, tempi di vacche grassissime per i nostri istituti di credito. Stessa cosa per quanto riguarda le nostre società, almeno le più grandi: gli indici di Piazza Affari sono andati meglio del previsto, il Ftse Mib – che rappresenta l’andamento delle quotazioni delle 40 principali quotate – ha superato quota 30mila punti, ai massimi dalla crisi finanziaria del 2008. Più in generale è un report di Mediobanca, fermo però al 2022, a confermare che gli imprenditori sono stati molto bravi a proteggersi dall’inflazione. In particolare – secondo l’indagine annuale sulle società industriali e terziarie italiane di grande e media dimensione, che analizza 2150 società rappresentative del 48% del fatturato industriale – l’industria italiana è riuscita a reggere l’impatto dell’inflazione, con una crescita del fatturato nominale del 30,9% e dello 0,6% in termini reali. Non altrettanto invece si può dire per i lavoratori che risultano “la componente maggiormente penalizzata in termini di potere d’acquisto, con una perdita stimata intorno al 22%”.
Far recuperare in parte questo potere d’acquisto ai dipendenti è una questione certamente etica, perché ci sono milioni di lavoratori che aspettano il rinnovo del contratto, spesso scaduto da anni: stando ai numeri del Cnel, solo per quanto riguarda il settore privato, un lavoratore su due ha il proprio stipendio parametrato a delle intese fra sindacati e datori di lavoro che non rispecchiano l’aumento a due cifre dell’inflazione che c’è stato negli ultimi anni, prima che iniziasse il ritorno alla normalità. Ma il recupero è anche una questione economica, e qui giungiamo alla terza ragione per cui gli stipendi vanno ritoccati senza se e senza ma. In una fase come quella attuale, in cui in Italia e in Europa la crescita è ferma a qualche decimale, mettere un po’ più di reddito disponibile farebbe bene a tutta l’economia. Se infatti il lavoratore ha più soldi in busta paga, può dedicarlo a qualche acquisto che negli ultimi tempi ha rimandato, quindi i consumi potranno aumentare, tirando su la domanda aggregata e quindi la crescita del Pil, cosa di cui beneficeranno anche le imprese e i conti pubblici. Questa sì che sarebbe una spirale positiva.
Salari più alti, poi, e qui siamo all’ultima motivazione, porteranno anche a frenare il pericoloso trend di erosione della ricchezza delle famiglie italiane che si rileva dai dati di Istat e Bankitalia. Dal 2011 al 2022 l’effetto combinato dell’inflazione e dei salari fermi ha causato agli italiani una perdita della ricchezza pari al 7,7 per cento. Quindi, per fare un esempio pratico, anche per il lavoratore che preferirà non spendere l’aumento ne deriverà un vantaggio economico perché aumenterà il suo stock di risparmi, che potrà poi essere investito in Borsa o in case o in qualsiasi altra forma che in prospettiva lo farà stare più sereno. Anche qui si potrebbe innescare un circuito virtuoso per la crescita economica.
Insomma, i motivi sono tanti, ora spetta solo a chi di dovere scendere in campo e vincere la partita: governo, regioni, comuni, datori di lavoro privati e ovviamente sindacati. Più contratti per tutti.
(da Huffingtonpost)

This entry was posted on lunedì, Febbraio 12th, 2024 at 20:52 and is filed under Politica. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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