HAFTAR MINACCIA L’ITALIA: “ANDATE VIA DA MISURATAâ€
CONTE RESTA CON IL CERINO IN MANO, 400 MILITARI ITALIANI A RISCHIO GRAZIE A UN GOVERNO DI INCAPACI
Sbarca a Pechino, ma il primo pensiero è a Tripoli .
La telefonata del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, al primo ministro del Governo di accordo nazionale libico (Gna) Fayez al-Sarraj dà conto di una situazione che sta precipitando. Non tanto sul piano militare quanto su quello internazionale.
Roma non intende immolarsi nella difesa di un governo, quello guidato da Sarraj, che sulla carta è l’unico riconosciuto internazionalmente, ma che nei fatti è stato abbandonato al suo destino da tutti i maggiori attori globali e regionali impegnati nella guerra per procura che da quasi tre settimane sta sconvolgendo il Paese nordafricano.
Conte ha fatto il punto con Sarraj e a Pechino avrà un incontro con uno dei più attivi sostenitori del maresciallo Khalifa Haftar: il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi.
L’Italia “non è nè a favore di Sarraj nè a favore di Haftar, ma a favore del popolo libico, che ha il diritto di vivere in pace”. Così il premier italiano spiegando che la posizione italiana sulla crisi libica non è a favore di un singolo attore. “Il mio governo – ha assicurato – mira alla stabilizzazione del Paese”.”Ho detto più volte che la situazione militare non è affidabile”, ha aggiunto il premier, ribadendo che “non è con l’opzione militare che si può stabilizzare la Libia”.
“Con Putin ci siamo scambiati qualche parola ma non era il contesto giusto” per parlare di Libia: “Abbiamo rinviato il colloquio più concreto su questi temi a domani”. La versione di Tripoli: nel colloquio telefonico con il premier libico Conte “ha annunciato che l’Italia compirà tutti gli sforzi possibili per mettere fine a questa crisi e allo spargimento di sangue libico”.
Lo riferisce la pagina Facebook dell’Ufficio stampa del Governo di accordo nazionale libico. “Conte ha affermato che non c’è soluzione militare alla crisi in Libia”, riferisce ancora il post.
Il premier italiano, riferisce ancora la nota dell’Ufficio informazione del presidente del Consiglio presidenziale del Governo di accordo nazionale, “si è appellato a una fine immediata di questo attacco e al ritorno delle forze di Haftar alle loro postazioni precedenti».
Nel colloquio telefonico, incentrato “sugli ultimi sviluppi della situazione politica e di quella sul terreno”, “il primo ministro ha ribadito il rifiuto totale da parte dell’Italia dell’attacco alla capitale libica, Tripoli, che riporta la Libia ai tempi delle guerre dopo che era vicina a una soluzione politica della crisi”, scrive ancora il post.
Le notizie ricevute da Conte nelle ultime ore sono inquietanti: a Bengasi e Tobruk sono segnalate manifestazioni contro l’Italia, con tanto di accuse, smentite decisamente da Roma, di un coinvolgimento dei nostri soldati di stanza a Misurata a fianco delle forze fedeli a Sarraj.
Le forze in Cirenaica che stanno con l’uomo forte di Bengasi chiedono all’Italia di essere ascoltate, accusandola persino di sostenere il terrorismo assieme a Turchia e Qatar.
Lo fanno con un appello dai toni forti di denuncia contro le “mosse pro Tripoli” italiane e, come scrivono, contro la “presenza di soldati italiani con compiti poco chiari e sicuramente non di carattere umanitari” Il documento è firmato da 45 tra leader della società civile, dirigenti di associazioni umanitarie e personalità tra Tobruk e Bengasi. Una richiesta che ha il sapore dell’ultimatum: “Occorre
che l’Italia ritiri al più presto il suo ospedale militare da Misurata. Abbiamo le prove che quella struttura ormai non ha più nulla di umanitario, ma costituisce un valido aiuto per le milizie di Misurata che combattono contro il nostro esercito”, dice all’inviato del Corriere della Sera Lorenzo Cremonesi, il generale Ahmed Mismari, portavoce del maresciallo Haftar,
“L’ospedale era stato inviato per assistere i feriti negli scontri contro Isis a Sirte nel 2016. Ma quei combattimenti sono terminati da un pezzo, perchè restano 400 soldati italiani? Da quella base partono gli aerei che bombardano le nostre truppe e causano vittime anche tra i civili. Crediamo che gli italiani abbiano un ruolo nel addestrare le milizie. Non va bene, devono andarsene”, aggiunge dal suo ufficio di Bengasi.
E’ l’ennesimo, inquietante segnale che viene lanciato all’Italia.
Mentre il Generale fa campagna acquisti nel fronte avversario, portando dalla sua parte la potente milizia di Zintan, nominandone il capo, Idris Madhi, “comandante occidentale” del Lna, ormai la maggior parte delle principali cancellerie internazionali si sta schierando a favore di Haftar e l’invito all’Italia ad abbandonare il campo islamista che sostiene Al-Sarraj è già arrivato da più parti.
Solo due giorni fa, sia Conte che il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, hanno ribadito il sostegno “convinto” dell’Italia agli sforzi diplomatici messi in atto dall’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Libia, Ghassan Salamè.
Ma la nostra diplomazia ha dovuto registrare i silenzi o le parole di circostanza spese dai partner europei e dagli attori regionali, per non parlare di Mosca e Washington, alla missione a Roma dell’ex diplomatico libanese.
Mai come in queste convulse giornate, la cronaca diplomatica s’intreccia con quella di guerra. Gli elicotteri d’assalto del Esercito nazionale libico (Lna), guidato da Haftar, hanno bombardato nella notte alcune zone di Tripoli. L’intervento dell’aviazione dell’uomo forte della Cirenaica arriva a tre settimane dall’inizio dell’offensiva per conquistare la capitale libica.
Negli scontri, dal 4 aprile in poi, sono morte quasi 300 persone, e 1500 sono rimaste ferite.
Haftar dispone di alcuni elicotteri di fabbricazione russa Mi-24, risalenti agli anni Ottanta ma ancora efficienti. Sono in grado di lanciare missili aria-terra con una certa precisione e sono già stati impiegati nelle battaglie di Bengasi e Derna, fra il 2014 e il 2018.
Ma le forze dell’Lna allineano anche alcuni Mig-21, Mig-23 e Mirage F-1, già utilizzati senza grossi risultati. Una guerra civile che si è trasformata ormai in una guerra per procura.
Una nave da guerra francese è rimasta ormeggiata per diverse ore al porto di Ras Lanuf, nell’est della Libia, controllato dalle forze del maresciallo Haftar.
A riferirlo è il corrispondente di al Jazeera secondo cui la nave avrebbe scaricato “munizioni ed equipaggiamento militare per Khalifa Haftar”. Per altri fonti si è trattato invece di uno scalo tecnico per fare rifornimento.
In ogni caso, il comandante della Marina del Governo di accordo nazionale di Tripoli, Redha Issa, ha avvertito che qualsiasi infiltrazione nel Paese via è “un tentativo di suicidio”.
A livello regionale Haftar gode del sostegno esplicito di Egitto, Arabia Saudita ed Emirati arabi uniti. A livello mondiale Russia e Francia lo appoggiano anche se non apertamente. Ma è stata la telefonata di Donald Trump, il 15 aprile, a dargli il via libera definitivo per quello che dal punto di vista del diritto internazionale è l’assalto a un governo legittimo, l’unico riconosciuto dall’Onu.
La notizia riportata ieri da Bloomberg segna una svolta e getta un’ombra su quanto detto dal segretario di Stato americano Mike Pompeo, che aveva annunciato la contrarietà Usa all’offensiva militare di Haftar chiedendogli di fermare le operazioni. Inizialmente gli Usa avevano sostenuto una risoluzione britannica al Consiglio di sicurezza dell’Onu per chiedere lo stop dell’assalto da parte di Haftar, ma poi hanno cambiato posizione e da allora domina lo stallo.
L’Ue è riuscita ad approvare un appello in questa direzione ma non ha nominato Haftar dopo che la Francia ed altri Paesi si erano opposti. Troppi gli interessi in gioco e le alleanze trasversali, sullo sfondo della contrapposizione tra i filo islamisti di Tripoli e Misurata e i loro avversari, ma anche della lotta per il controllo di un Paese strategico sul piano geo-politico ed energetico
La conversazione di Trump con Haftar è avvenuta dopo che il presidente egiziano al-Sisi ha incontrato il suo omologo americano, il 9 aprile scorso, sollecitandolo a sostenere il generale libico, secondo due fonti. La chia
mata del presidente Usa ha sdoganato il maresciallo come campione “nella lotta al terrorismo”. Ma prima c’è stata un’altra telefonata decisiva per le sorti della Libia, quella fra il presidente Usa e il principe ereditario emiratino Mohammed bin Zayef. Sarebbe stato Mbz a convincere l’inquilino della Casa Bianca che Haftar era l’uomo giusto per rimettere le cose a posto nel Paese nordafricano. Poi sono arrivati finanziamenti sauditi per 30 milioni e l’invio di nuovi droni d’attacco che hanno permesso l’avvio dell’offensiva. Non chiamatela giravolta, non scrivete di “tradimento”, non accennate a un voltafaccia. La geopolitica non confina con l’etica, ma fa rima con interessi nazionali, visioni strategiche.
È il campo della prosa, anche la più dura, e non della poesia. Per questo il “cambio di cavallo” compiuto da Donald Trump in Libia va annoverato come un atto di lucida e logica coerenza. Quello di The Donald è stato un intervento reso necessario perchè, di fronte all’imbelle diplomazia europea, l’unico modo per puntellare Sarraj è quello di provare a scendere a patti con l’uomo forte della Cirenaica, e con gli attori regionali che lo sostengono.
E qui sta la lucida e logica coerenza del tycoon: se si vuole davvero provare a stabilizzare il Vicino Oriente, è imprescindibile puntare sul più popoloso e strategico paese del mondo arabo: l’Egitto. L’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi, che un referendum senza opposizioni ha consacrato a presidente a vita. In Libia, Trump e i suoi consiglieri hanno compreso la lezione impartita loro da Vladimir Putin in Siria: per giocare un ruolo primario, per essere uno dei player che siedono a capotavola in una ipotetica, ma tutt’altro che irrealistica, “Jalta mediorientale”, a un certo punto occorre scegliere. Senza ambiguità , o giravolte. Altrimenti ci si condanna alla marginalità o si riduce la politica ad un asfittico tatticismo.
Ci si riduce alla marginalità dell’Europa. Trump, a differenza dell’Europa, ha capito che una politica mediterranea che non si rapporti all’Egitto è assurda, destinata ad un fallimento dalle conseguenze esiziali, e non solo sullo scenario regionale.
Chi ambisce ad avere un ruolo di prima fila nel Mediterraneo, non può non porsi una questione essenziale: con chi fare sponda. Un discorso che investe frontalmente l’Italia.
Al-Sisi sì, ma fino a un certo punto. Idem per l’Arabia Saudita o per il Qatar… Quanto alla Libia, il nostro sostegno ad al-Sarraj non si traduce, e per fortuna, in un’avventura militare che avrebbe risultati catastrofici.
Ma quali siano i “cavalli” su cui puntiamo nella sponda meridionale del Mediterraneo, questo rimane un rebus.
Navighiamo a vista. Oscilliamo. In balìa degli eventi. Fingendo che la ricucitura con Parigi sia
risolutiva per rilanciare una politica vincente in Libia. Niente di più sbagliato, tanto più oggi che sul sostegno ad Haftar sembra realizzarsi l’asse Washington-Parigi.
(da “Huffingtonpost”)
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