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I SEGRETI DEL PATTO TRA BERSANI E RENZI

IL PD HA CAMBIATO PELLE, E’ DIVENTATO “UN PARTITO ALL’AMERICANA”…E RENZI COSTITUIRA’ UN ARGINE AL MONTISMO

L’intesa tra Bersani e Renzi non è (solo) un’operazione di immagine e di potere, e non è (solo) una mossa mediatica in vista della campagna elettorale.
Da ieri il Pd ha cambiato pelle, è diventato – per usare le parole del sindaco di Firenze – «un partito all’americana», dove «il timone è nelle mani di Pier Luigi, mentre io darò una mano».
È il suggello della sfida alle primarie, un punto di partenza e anche di arrivo, perchè chi è uscito sconfitto dalla sfida per la premiership accetta di collaborare con il candidato per Palazzo Chigi.
Ma al tempo stesso il patto pone fine «alle vecchie saghe», alla stagione dei complotti che hanno dilaniato in passato il centrosinistra.
«Mettermi contro Bersani sarebbe ridicolo», spiega Renzi.
E non è (solo) per una questione di «credibilità  e di lealtà » che si pone al fianco del segretario.
C’è una evidente convergenza di interessi tra i due, tra chi cioè si gioca le proprie carte nei prossimi mesi e chi mira ad avere le stesse chance nei prossimi anni.
Perciò Bersani ha invitato l’altro ieri a colazione il «rottamatore», che si è detto pronto a pagare il conto, «a patto che tu mi spieghi la metafora del tacchino sopra il tetto», pronunciata dal segretario del Pd durante il confronto in tv per le primarie.
Davvero Renzi stenta a comprendere «il bersanese», tanto che più volte – durante la conversazione – ha dovuto interrompere l’interlocutore: «Aspetta Pier Luigi, scusami. Questa non l’ho capita».
Epperò su un punto i due si sono subito intesi, quando il leader dei democratici ha chiesto al sindaco di Firenze di mobilitarsi: «Lo devi fare nell’interesse della ditta».
La parola «ditta» ha sempre fatto storcere il naso a Renzi, e non solo per una questione semantica.
Tuttavia il messaggio era comprensibile.
A Bersani serve «un argine al montismo» – così ha detto – in campagna elettorale, e l’ex sfidante – che alle primarie ha incarnato la novità  – è attrezzato alla guerra di frontiera: «Matteo, fatti sentire sui temi dell’innovazione».
Renzi ha accettato, andrà  in tv e nelle piazze, pronto a riproporre alcuni punti del programma con cui lanciò la sfida per palazzo Chigi al segretario: «Anche perchè certe cose che Monti ha inserito nel suo documento, le ha riprese dal mio. E non erano di Ichino…».
Il passaggio del giuslavorista democratico nelle file del premier uscente è stato al centro di commenti poco lusinghieri durante il pranzo, ed è proprio a Ichino che Renzi avrebbe più tardi indirizzato pubblicamente una frecciata, sostenendo che «c’è troppa gente abituata a scappare con il pallone quando perde. Io no».
Ma quando il professore se n’è andato con il Professore, Bersani ha intuito il progetto politico e mediatico che si celava dietro l’operazione, il tentativo di relegarlo nel recinto di un vetero-laburismo condannato all’attrazione fatale con la sinistra estrema, l’idea di dare in Italia e all’estero l’immagine di una coalizione e di un candidato premier «unfit» per palazzo Chigi.
Il «rottamatore» serve proprio a rompere quello schema, e lui sa che la sua funzione sarà  quella di «strappare voti nel campo avverso», cercando di drenarli «a Monti e a Berlusconi»: «Perchè così si vince».
Con Renzi in campo il segretario del Pd lancia un messaggio al premier che mira a «silenziare le estreme», prefigurando quasi una spaccatura del fronte democratico dopo le elezioni.
Con il patto di ieri, invece, un partito «all’americana» è un partito che non si rompe, è un modo – secondo Bersani – per far capire che «non c’è e non ci sarà  nessuna ipotesi di scissione nel nostro schieramento, tantomeno nel nostro partito».
Una tesi ribadita dal sindaco di Firenze, che giura di non volere incarichi nè di fare il capocorrente, e che tuttavia ha garantito sulla lealtà  dei suoi parlamentari: «Saranno più bersaniani di Bersani».
Certo, se da una parte l’intesa di ieri consente di consolidare quel patrimonio accumulato con le primarie, dall’altra c’è il rischio che i messaggi renziani finiscano per alimentare tensioni con l’ala «sinistra» del Pd.
«Ma io non silenzierò nessuno», avvisa Bersani. Che rivolgendosi a Monti, aggiunge: «A un leader non spetta tacitare, tocca svolgere un ruolo di sintesi».
C’è dunque un motivo se ieri il leader del Pd era soddisfatto, se l’accordo sui numeri con Renzi è stato raggiunto in poco tempo.
Il segretario inserirà  una ventina di candidati nel listino, che si aggiungeranno agli altri cinquanta usciti vincenti dalle recenti parlamentarie.
E discutendo di liste a tavola i due erano convinti che «sul piano del rinnovamento daremo lezioni a tutti»: «Quando saranno note le liste collegate a Monti, si vedrà  quali sono le più nuove tra le loro e le nostre».
Il patto di ieri chiude il cerchio nei Democratici e dà  il via alla campagna elettorale, durante la quale Bersani vestirà  i panni del pompiere: non vuole giochi pirotecnici nè intende andare allo scontro diretto con il Professore, «a meno che non sia lui a trascinarmi».
Lascerà  a suoi il compito di lavorarlo ai fianchi, com’è accaduto anche ieri, con il governatore della Toscana Rossi che ha spiegato come il premier uscente «rischi di trasformarsi in un politico mediocre».
Il segretario-candidato agirà  invece «solo di rimessa». Tanto ha capito chi sia stato a suggerire a Monti di aprire un fronte offensivo con il Pd: «È farina del sacco di Casini».
E sorride ricordando l’ammonimento del leader Udc, secondo cui «Pierluigi» non andrà  a palazzo Chigi se non riuscirà  ad avere la maggioranza anche al Senato: «Questo è la solita, vecchia teoria politica di Pier Ferdinando. Comanda chi ha meno voti…».
Non c’è dubbio che alle prossime elezioni sia in gioco il bipolarismo, che Bersani vuole «salvaguardare».
Perciò incalzerà  il Professore quotidianamente, invitandolo a spiegare con chi si schiererà  «in Italia e in Europa», e chiedendo «rispetto» per il Pd, «perchè non può scoprire oggi i nostri difetti dopo essere stato appoggiato per un anno a palazzo Chigi».
Comunque non intende pregiudicare «gli eventuali rapporti futuri», ha spiegato ai suoi, come a segnare il destino di Monti e della sua avventura.
Certo, avrebbe preferito che il Professore rimanesse super partes, e con Renzi si è soffermato sulla scelta del premier di entrare in campo: avesse federato l’intero centrodestra sarebbe stato assai insidioso, mettendosi a capeggiare l’area centrista sarà  funzionale al Pd.
In ogni caso entrambi hanno convenuto che «sta dilapidando un patrimonio».
Ma è soprattutto del Pd che i due ex sfidanti hanno parlato.
Ed è un segno dei tempi se un emiliano e un toscano hanno cambiato il volto di un partito a tra(di)zione post-comunista, dove era sempre toccato ai romani la cabina di comando.
Resta il problema di Renzi, che spesso fatica a capire il «bersanese».
La storia del «tacchino sul tetto», per esempio: il segretario del Pd ha ammesso di aver sbagliato a citare la metafora, «perchè non mi volevo riferire a un tacchino ma a un piccione».
«Si vabbè, Pier Luigi. Ma che vuol dire?».

Francesco Verderami
(da “il Corriere della Sera”)

This entry was posted on venerdì, Gennaio 4th, 2013 at 10:55 and is filed under Bersani, Renzi. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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