IL DECLINO DI SALVINI CHE ORA VA A 30 ALLORA
TRADITO DAI FOLLOWER CHE SNOBBANO IL SUO TWEET SULLA VIABILITA’ DI BOLOGNA NEL GIORNO DELLE SCONFITTE IN SARDEGNA E MOLISE
La favola del Capitano pigliatutto, padrone assoluto del partito, sovrano del consenso, gran mogol dei social, finisce con un post su Bologna a 30 all’ora e contro il sindaco Pd Matteo Lepore che rallenta le auto «per sentire gli uccellini». A
ppena 1400 «mi piace», poco più di cento condivisioni. Neanche i suoi follower più fedeli si capacitano. Ma come, il traffico? Nel giorno fatale della sconfitta sulla partita sarda, delle fallite rivendicazioni sul Molise, della ribellione del Veneto contro la candidatura del generale Vannacci, non hai altro da dirci?
Matteo Salvini è riuscito a mascherare a lungo la sonora sconfitta delle ultime elezioni politiche e il sovvertimento dei rapporti di forza nel centrodestra.
Ha ottenuto molto nel nuovo governo, nella Rai, nelle posizioni parlamentari di riguardo, tenendo a bada tra una nomina e l’altra la delusione del partito per le percentuali in declino e per il crollo di appeal della sua figura. Adesso anche quella fase è finita. Il niet di Giorgia Meloni al bis di Christian Solinas e a ogni immediata compensazione certifica dopo 14 mesi un dato di realtà: il salvinismo non è più il motore della maggioranza ma non può più essere nemmeno forza di interdizione, perché un secondo Papeete porterebbe l’Italia verso il voto e il capo leghista alla pensione.
È stato sfortunato, il Capitano, ma anche poco attento, nella sua corsa continua, al cambio del vento.
La crisi in Ucraina, innanzitutto: Giorgia Meloni ha intuito subito che l’invasione obbligava a recidere ogni istinto simpatizzante per Vladimir Putin e ogni posizionamento sovranista, dirottando i suoi verso un più generico assetto conservatore. È stata ben ripagata dagli Usa e dall’Europa di Ursula von der Leyen, evitando di far la fine dei reprobi ungheresi. Salvini forse ha capito male la partita, forse ha scommesso su un esito diverso: sta di fatto che al gran raduno antieuropeista di inizio dicembre è stato scansato pure da Marine Le Pen. Persino lei, si dice, cerca un appeasement con «l’Europa dei tagli e dei Soros».
La modalità Avanti Tutta non ha pagato neppure sul fronte interno, dove il Capitano ha confermato senza troppe riflessioni la linea che lo aveva portato cinque anni fa a un clamoroso 34%.
Una Lega brandizzata Salvini e nutrita di post con la gli spaghetti al ragù, citofonate a presunti spacciatori, provocazioni fanta-cattoliche col rosario sui palchi e ovviamente la campagna contro gli immigrati.
Una Lega tanto post-nordista da trasformare in altare il progetto del Ponte sullo Stretto, forse il più inviso alla tradizione del Carroccio, la «mangiatoia» denunciata da Umberto Bossi, la «cagata pazzesca» stroncata anche pochi mesi fa dai fedelissimi del fondatore riuniti a Melegnano.
È andata male pure su quel terreno. Meloni ha internazionalizzato la questione sbarchi, trovato l’asse perfetto col ministro Matteo Piantedosi, inventato slogan nuovi, il Piano Mattei, la delocalizzazione in Albania. Su presepi, spaghetti e altre quisquilie dominano i suoi uomini che riescono pure a lanciare i fusilli in orbita alla presenza del ministro Francesco Lollobrigida. E del Ponte, al momento, si parla solo per i compensi stellari dei suoi amministratori.
È un Salvini che punta sulla velocità anche il leader che ha opzionato fin dall’inizio la candidatura di Roberto Vannacci, il generalissimo del racconto reazionario sulla società, le donne, la famiglia, i gay, l’ambiente, l’uomo che dovrebbe parlare alla famosa pancia del Paese ricostruendo quel tipo di emozioni che indussero pochi anni fa 10 milioni di italiani a dire: voto Lega.
Un influencer di primissimo rango per sostituire i voti di apparato che a Varese, in Toscana, in Abruzzo lasciano il Carroccio e passano a FdI: l’ultima è l’assessore alla Sanità Nicoletta Verì, pezzo da novanta della giunta regionale dell’Aquila.
Il penultimo l’eurodeputato Matteo Gazzini. Potrebbe andarsene anche il veneto Gianantonio Da Re, recordman di preferenze nel Nord Est, che ieri ha dettato il suo aut-aut: se c’è Vannacci in lista me ne vado io, «non condivido niente del suo libro».
Anche qui: sicuri sicuri che il vannaccismo sia la cifra giusta per interpretare il momento? Luca Zaia, uno che col territorio ci parla, nel suo ultimo saggio va in direzione opposta e contraria e si interroga con efficacia sulla redistribuzione del benessere, sui diritti delle minoranze e del gay, sul fine vita, sull’integrazione degli immigrati e sul sogno degli Stati Uniti d’Europa. Il recente voto in Veneto sul suicidio assistito dimostra che non sono solo parole ma una possibile linea emergente. Il libro ha un titolo immaginifico: «Fai presto, vai piano»: chissà se pure lui ascolta gli uccellini…
(da La Stampa)
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