IL GOVERNO MELONI HA DICHIARATO GUERRA AI POVERI
CHI TRA LORO L’HA VOTATO E’ STATO USATO E TRADITO… QUESTA NON E’ MAI STATA UNA “DESTRA SOCIALE”, LO DENUNCIAMO DA ANNI PERCHE’ LI CONOSCIAMO BENE, POI OGNUNO E’ LIBERO DI FARSI PRENDERE PER IL CULO
Uno dei tratti distintivi del governo Meloni, dalla sua elezione a oggi, è stato sicuramente quello di voler dichiarare guerra ai poveri: non tanto alla povertà come condizione di diseguaglianza sociale, ma più propriamente a tutte quelle donne e uomini che si trovano nell’impossibilità di soddisfare i propri bisogni primari.
Per questo governo la povertà non è un ostacolo che lo Stato deve rimuovere affinché le persone possano godere dei diritti riconosciuti dall’ordinamento, ma una colpa di cui vergognarsi, e che in qualche modo deve essere espiata individualmente.
Con ciò non vogliamo sostenere che la povertà dilagante in Italia (secondo i dati Istat nel 2022 i poveri erano 5.600.000, circa il 10% della popolazione residente) sia imputabile al solo governo in carica, né che questo approccio ideologico nei confronti della povertà sia esclusivo del nostro paese: per comprendere quanto il binomio povertà-colpa sia diffuso è sufficiente osservare l’atteggiamento di sostanziale chiusura nazionalistica degli altri paesi europei nei confronti del fenomeno migratorio.
Prima di entrare nel merito della politica di governo in tema di lavoro e welfare, occorre chiarire chi sono oggi i poveri in Italia.
Nella categoria rientrano diverse figure: disoccupati, lavoratori informali e tutti coloro che sono privi di forme autonome di sostentamento, ma anche molte lavoratrici e lavoratori regolarmente assunti, i cui contratti collettivi non sono in grado di soddisfare i requisiti minimi previsti dall’art. 36 della Costituzione.
In Italia, come testimoniano numerose sentenze dei tribunali territoriali e da ultimo la Suprema Corte di Cassazione (sentenza n. 27711/2023; n. 27713/2023; n. 27769/2023; n. 28320/2023; n. 28321/2023; 28323/2023), in molti casi le lavoratrici e i lavoratori assunti percepiscono stipendi al di sotto della soglia di povertà relativa. In altre parole queste persone, pur lavorando regolarmente, non sono in grado di garantire a se stessi un’esistenza libera e dignitosa.
La necessità di salvaguardare retribuzioni “adeguate” non è soltanto una prerogativa della nostra Costituzione, ma trova un sostegno etico e politico-istituzionale di rilievo continentale nella direttiva Ue 2022/2041 e nell’art. 6 dell’European Social Pillar (anche se non di applicazione diretta) sulla determinazione di un salario minimo decoroso.
Ma la situazione attuale non è una novità dei nostri giorni: come rilevato dall’Ocse, da ormai circa 30 anni i salari delle lavoratrici e dei lavoratori italiani sono fermi, sebbene la produttività sia cresciuta; l’esplosione inflazionistica degli ultimi due anni ha contribuito a un’ulteriore erosione del potere d’acquisto.
Di fronte a tale scenario, le scelte legislative dell’ultimo anno e mezzo non lasciano dubbi su quale sia la volontà del governo: abrogazione del reddito di cittadinanza e la sua “sostituzione” con l’assegno di inclusione (AdI) e il supporto per la formazione e il lavoro; la flat tax a favore del lavoro autonomo, a discapito del lavoro subordinato e delle tutele che da tale rapporto derivano (contribuzione, malattia, maternità, ecc.); opposizione politica e ideologica alla legge sul salario minimo; riduzione delle tutele introdotte con il Decreto Dignità relative ai contratti a termine; promozione del cosiddetto lavoro gratuito di pubblica utilità attraverso vari interventi che rientrano nella definizione di politiche attive sul lavoro; introduzione di forme di welfare di natura familistica.
Molto si è già detto sull’abrogazione del reddito di cittadinanza, così come sugli effetti che essa avrà sulla vita di milioni di cittadini.
Al riguardo ci preme ribadire ancora una volta che la legge sul Reddito di Cittadinanza, per quanto fosse fortemente lacunosa e imperfetta, ha comunque rappresentato un primo passo verso una forma di welfare volta non solo a garantire un reddito minimo di sussistenza, ma soprattutto a sottrarre le lavoratrici e i lavoratori al ricatto salariale da parte dei datori di lavoro. Questa misura ha permesso ad alcune lavoratrici e lavoratori di rifiutare contratti di lavoro iniqui e sottopagati.
Quanto alla flat tax, abbiamo già avuto modo di rilevare come questa misura abbia una doppia finalità: da una parte garantisce esclusivamente la classe media riducendo l’imposizione fiscale (il 15% di ritenuta fino ad un massimo di 85 mila euro), dall’altra mira a favorire il lavoro autonomo a danno del lavoro subordinato, limitando le garanzie che da esso dovrebbero discendere (maternità, contribuzione, malattia, ferie). Con l’estensione del regime forfettario, a parità di reddito imponibile – ad esempio 35.000 € annui – l’imposta Irpef di un lavoratore autonomo sarà pari a 5.250 €, mentre per un dipendente sarà di 9.659 €, il 45,64% in più.
Veniamo ora alla proposta di legge sul salario minimo che il governo Meloni ha combattuto fin dall’inizio. Occorre precisare che l’introduzione del salario minimo, per quanto necessaria, non è in grado di riequilibrare da sola i rapporti di forza fra lavoro e impresa: oggi infatti il lavoro è sostanzialmente precario, come sono precarie le vite stesse delle lavoratrici e dei lavoratori, indipendentemente dalla forma contrattuale applicata.
Per poter svolgere effettivamente la propria funzione sociale, il salario minimo dovrebbe essere accompagnato da una serie di ulteriori interventi di natura sistemica, come la riforma complessiva delle misure di welfare oggi presenti nel nostro ordinamento.
In particolare, sarebbe opportuno procedere a una razionalizzazione dell’attuale sistema, eliminando le misure di carattere particolare e di natura contingente, che non possono funzionare come dispositivi di garanzia sociale, a favore di un’unica misura di carattere universalistico e incondizionata come il reddito di base.
La legge sul salario minimo non dovrebbe limitarsi a individuare un importo a cui la contrattazione collettiva deve allinearsi, ma dovrebbe piuttosto prevedere un meccanismo di proporzionalità che permetta un innalzamento complessivo dei salari.
Le tabelle retributive dei contratti collettivi sono suddivise in livelli e inquadramenti che vanno dal più basso al più alto in base alle mansioni svolte. Una volta introdotto il salario minimo occorre, in ragione del principio di proporzionalità sancito dall’art. 36 della Costituzione, che le retribuzioni previste per gli ulteriori livelli contrattuali siano aumentate proporzionalmente.
Quanto all’importo di € 9,00 lordi indicato nella proposta di legge presentata in Parlamento, va detto che tale importo sarebbe “sufficiente” solo nel caso in cui non fossero compresi elementi quali la 13a e la 14a, o altre indennità previste dalla contrattazione, ad esempio l’indennità di cassa o indennità di gravosità per le mansioni specifiche.
Un altro indice che chiarisce la posizione di questo governo sulle politiche del lavoro e di welfare è l’introduzione di misure di natura prettamente familistica, che contrappongono la famiglia con figli al resto della società e condizionano così le scelte di carattere personale che non dovrebbero rientrare nelle prerogative di uno Stato; ci riferiamo a tutti quegli incentivi volti a favorire la natalità esclusivamente in ambito famigliare.
A questo punto resta da chiedersi, visto che ormai è solo questione di tempo: quando si accorgeranno i milioni di lavoratrici e lavoratori, disoccupati e inoccupabili, che hanno votato questo governo di essere stati usati e traditi?
E in che modo si potrà coinvolgere e far convergere il resto del Paese astensionista in un polo per l’alternativa possibile, ancora tutto da immaginare?
(da Il Fatto Quotidiano)
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