IL MINISTRO SENZA ONORE
GLI ASPETTI GIURIDICI DEL CASO DE GEROLAMO
I problemi giuridici che solleva il recente caso De Girolamo sono molteplici e, per chiarezza, devono essere esaminati separatamente.
Il primo riguarda la liceità della registrazione elettronica di una conversazione – alla quale prese parte l’onorevole Nunzia Di Girolamo – relativa sia all’affidamento di una gara d’appalto per il servizio trasporto clienti dell’Asl di Benevento, sia a questioni minori (ma non meno gravi sotto il profilo della gestione della cosa pubblica).
Il secondo riguarda la responsabilità politica ascrivibile all’onorevole De Girolamo ancorchè le frasi siano state pronunciate in un luogo privato quando non era ancora ministro della Repubblica.
Il terzo problema riguarda la liceità della diffusione del contenuto di tale conversazione sui mezzi d’informazione.
Sul primo punto.
La registrazione della conversazione fu effettuata da Felice Pisapia, allora dirigente dell’Asl di Benevento, allo scopo di poter dimostrare in futuro di essere un mero ingranaggio del sistema illegale retto da una sorta di «direttorio politico-partitico costituito al di fuori di ogni forma di legge» (così descritto nell’ordinanza del gip, Flavio Cusani).
Poichè la registrazione fu effettuata da Pisapia, presente all’incontro, per i fini anzidetti e non per diffonderne il contenuto, non si applica alla specie nè il divieto di “trattamento” previsto dalla legge sulla protezione dei dati personali, nè il divieto di captazione previsto dall’articolo 615-bis del codice penale (divieti che si applicano, invece, quando chi registra le conversazione sia un “terzo”).
Sul secondo punto.
È bensì vero che, per i fatti di cui alle conversazioni registrate, l’onorevole De Girolamo non è, al momento, indagata. Ma quand’anche la De Girolamo non venisse mai indagata, ciò non significa che non dovrebbe risponderne politicamente, come ministro.
È bensì vero che, con la cosiddetta seconda Repubblica – e in considerazione soprattutto (ma non solo!) delle molte vicende di cui Silvio Berlusconi è stato il protagonista – la responsabilità politica è stata “schiacciata” se non addirittura “immedesimata” con la responsabilità giuridica.
Ma delle due l’una: o, nella prassi, se ne recupera l’autonomia oppure tanto vale dire addio alla “politica” come tale, se bisognerà sempre attendere una sentenza definitiva del magistrato civile, penale o amministrativo perchè un membro del governo possa essere indotto a dimettersi.
Il vero è che la responsabilità giuridica si fonda in diritto penale, civile e amministrativo su regole che presentano degli aspetti garantistici (più o meno rigidi a seconda dell’una o dell’altra normativa) che non possono essere ritenuti altrettanto validi per il concetto di responsabilità politica, data la fluidità e la genericità delle ipotesi cui essa si applica (ipotesi che possono addirittura prescindere del tutto dall’esistenza di una responsabilità giuridica).
E potrà anche succedere, come purtroppo è talora successo, che la responsabilità giuridica, fino a che non sia definitivamente accertata, non sia ritenuta sufficiente a concretizzare la responsabilità politica.
Ciò nondimeno dovrebbe tuttavia essere mantenuto fermo quanto meno un limite: e cioè che la responsabilità politica dovrebbe essere sempre affermata quando il fatto contestato implichi anche una valutazione negativa della “dignità morale” della persona preposta alla carica (come appunto traspare dalle parole proferite dalla De Girolamo in quell’incontro).
E la ragione è la seguente: la nostra Costituzione per lo svolgimento delle funzioni di parlamentare, e a fortiori per quelle di ministro, impone sia il possesso di dignità morale sia lo svolgimento di esse con onore (articoli 48 e 54).
Di qui la conseguenza, che potrebbe bensì discutersi se la responsabilità politica di un ministro possa venire in gioco per fatti ad esso occorsi in precedenza, come privato cittadino.
Ma non quando questi fatti siano avvenuti quando egli (o ella) rivestiva già la carica di parlamentare, non a caso è tradizionalmente identificato come “onorevole”, dovendo le sue funzioni essere adempiute “con onore”.
Nè si può infine eccepire, come pure è stato fatto, che le frasi dell’onorevole De Girolamo furono pronunciate in un domicilio privato, e ciò per il semplice fatto che il contenuto delle stesse presupponeva, nella De Girolamo, lo status di parlamentare, come dimostra il suo invito a far capire, a chi di ragione, «che un minimo di comando ce l’abbiamo».
Quanto al terzo punto, la fonte delle notizie riferite dalla stampa è costituita da atti processuali legittimamente resi pubblici.
Per cui non sembrerebbe, in linea di principio, che vi sia alcun problema giuridico circa la liceità della successiva loro diffusione.
Alessandro Pace
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