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IMPIANTI AL VELENO NELLE CITTA’, LA MAPPA DELL’ITALIA A RISCHIO

SI MOLTIPLICANO I COMITATI PER SPOSTARE GLI STABILIMENTI PERICOLOSI… IN AUMENTO GLI INCIDENTI NELLO STOCCAGGIO DEI RIFIUTI, POCHI I CONTROLLI

L’appuntamento è all’uscita dell’autostrada di Ravenna, sormontata da due grandi cisterne che ricordano la vocazione industriale dell’area.
Da una parte la città  della tomba di Dante, dall’altra, sul Canale Candiano, il porto e il petrolchimico. Andrea, 54 anni, ricorda l’incidente in cui, a dicembre, ha perso la vita un amico e collega, in una fabbrica nella vicina Faenza.
«Stava lavorando – racconta – per conto di una ditta esterna su un cestello sospeso, attaccato a una gru: il braccio meccanico ha ceduto, lui è morto a 45 anni, il ragazzo dell’alternanza scuola-lavoro insieme a lui, 18, è rimasto gravemente ferito».
Questo per sottolineare che «il problema più grave, per la sicurezza, è il circuito degli appalti e dei subappalti, dei lavoratori che lavorano in contesti che non conoscono bene, spesso senza l’adeguata preparazione. Quando sei al lavoro, è a queste persone che guardi con ansia e con preoccupazione».
La minaccia degli impianti
Obiettivo puntato su Ravenna perchè, secondo le classifiche dell’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, è questa città  di 170 mila abitanti in Romagna che detiene il record di fabbriche a rischio di incidente rilevante in tutta Italia. Ravenna simbolo dell’Italia che convive con impianti necessari quanto minacciosi. L’Italia, dove ancora troppo spesso si muore sul posto di lavoro, com’è accaduto a Lorenzo Mazzoni e Nunzio Viola per un’esplosione in un serbatoio nel porto industriale di Livorno alla fine di marzo.
Nel giorno di Pasqua, in seguito alla deflagrazione di un serbatoio-essiccatoio di farine alimentari per animali, altri due morti a Treviglio nel bergamasco. Si chiamavano Giuseppe Legnani e Giambattista Gatti.
A Ravenna, ci illustra Davide Gentilini dell’ufficio studi Cgil, «ci sono undici maxi serbatoi di sostanze a rischio che, se ci fosse un grave incidente, sarebbero potenzialmente catastrofici non solo per i lavoratori, ma per l’intera comunità ». Questa la premessa: «La realtà , però, è che si tratta di impianti super controllati, con prescrizioni severissime, e il pericolo è realmente sotto controllo».
Morale, anche per lui: «Il problema, semmai, sono le ditte esterne: l’ultimo incidente grave ha coinvolto un operaio che ha tagliato un tubo nel quale scorreva un materiale esplosivo». Alessandro Bratti, direttore generale dell’Ispra, offre una visione realistica della situazione: «Da quello che stiamo vedendo, gli impianti ad alto rischio sono quelli che poi danno in casi rari gravi problemi, dovendo sottostare a rigidissimi controlli. Invece gli impianti potenzialmente meno pericolosi, quelli in “autorizzazione semplificata”, come per esempio lo stoccaggio dei rifiuti, rischiano di essere i più pericolosi perchè o mal gestiti o subendo comunque controlli molto più radi: è paradossale ma è così. Faccio un esempio: i quattro morti di Adria nel 2014 sono stati vittime di un incidente in un impianto di stoccaggio di fanghi: non particolarmente pericoloso, ma se non vengono prese precauzioni lo diventa».
Qui si arriva al punto più importante. La chiave di volta della situazione della sicurezza in Italia: «Siamo facendo – ammette Bratti – una riflessione, la modalità  di verifica e di controllo va registrata. Noi teniamo sotto controllo in maniera molto precisa gli impianti potenzialmente molto pericolosi, ma quelli che lo sono di meno si tende a controllarli di rado e spesso le situazioni più drammatiche accadono qui». Interrogativo conseguente: c’è personale a sufficienza?
«È una situazione articolata. È vero che in alcuni casi il personale può essere carente, ma spesso gli organismi di controllo non sono organizzati in maniera da ottimizzare le verifiche. Se tutti andiamo a controllare 3 volte in un anno lo stesso impianto e un altro non viene verificato per dieci, bisogna riorganizzarsi».
Conclusione. «Ci vogliono maggiori sinergie tra vari enti: noi stessi, le Arpa, le Asl, la Forestale, i Noe. Negli ultimi tempi abbiamo sottoscritto un protocollo con i carabinieri, proprio per superare certe duplicazioni».
Proteste contro i siti
Ravenna è il secondo Comune, come estensione territoriale, di tutta Italia, subito dopo la Capitale. Porto e petrolchimico danno lavoro a decine di migliaia di persone. Non sono vicine alla città , sono distanti 7 chilometri dal centro e questo ha attenuato l’effetto di paura incombente.
Anche se i quartieri di servizio nati per gli operai si sono ormai saldati alla città  e anche qui i comitati iniziano a parlare di delocalizzazione delle lavorazioni più pericolose. È una storia che inizia nel 1958, con lo stabilimento dell’Anic.
L’Eni di Enrico Mattei aveva deciso di fare qui la sua base per le spedizioni in Africa e Medio oriente dopo la scoperta di grandi giacimenti di metano, sponsor un leader politico della caratura di Benigno Zaccagnini. Poi è arrivata la crisi del petrolio degli anni 70, il tentativo di ripresa targato nel 1987 Raul Gardini-Ferruzzi-Montedison. E la sicurezza?
Racconta oggi il sindaco Michele De Pascale: «Ravenna ha avuto la strage della Mecnavi, l’incidente più grave della storia del porto. Tutti gli anni la ricordiamo con una cerimonia in piazza: per noi è un monito molto forte».
Era il 13 marzo 1987 a bordo della motonave Elisabetta Montanari: durante le operazioni di manutenzione straordinaria scoppiò un incendio nella stiva: le esalazioni causarono la morte di 13 operai: «Morirono in maniera tragica, lavorando in condizioni disumane, molti di loro in nero: da allora è cambiata la politica della sicurezza sul lavoro in città ».
C’era stato un altro precedente, lontano nel tempo. Questa è la storia del Paguro, una piattaforma dell’Agip al largo di Ravenna che il 29 settembre del 1965 si inabissò in una nuvola di fuoco dopo esser stata consumata per un giorno altissimo da fiamme alte decine di metri. Morirono in tre, ma questo è un disastro ormai dimenticato. Spiega il sindaco: «Si è lavorato moltissimo, con una serie di protocolli insieme alla prefettura che impegnano le imprese a livelli di sicurezza più alti di quelli previsti dalla legge. Ultimamente abbiamo autorizzato un nuovo impianto di Gnl, gas naturale liquefatto, e abbiamo avuto modo di saggiare lo scrupolo con cui le autorizzazioni vengono rilasciate senza la minima faciloneria». La realtà : «È tragico dirlo, siamo però nel campo della riduzione del rischio, di farlo tendere a zero, ma allo zero totale non si può arrivare».
A Genova la situazione è diversa. Genova non ha un porto, come Ravenna: Genova è un porto. Impianti, polemiche e paure si incrociano fra mare e monti, da decenni, nei quartieri del Ponente e della vallata interna, la Valpolcevera, che hanno pagato il prezzo più alto allo sviluppo industriale, fatto anche di attività  inquinanti o potenzialmente inquinanti, e potenzialmente pericolose in mezzo alle case.
L’allerta in mezzo alle case
Le cronache di questa convivenza difficile hanno riempito pagine e racconti negli ultimi trent’anni, mentre il dibattito sulla necessità  di allontanare dalle case almeno alcune delle attività  considerate meno compatibili, come i depositi chimici costieri di Carmagnani e Superba, a Genova Multedo, si riapre ciclicamente ad ogni cambio di amministrazione comunale, senza che, però, finora nulla si sia mosso. Oggi nell’area della città  metropolitana di Genova si contano ben 15 impianti a rischio di incidente rilevante, con differenti gradi di potenziale pericolosità , e 12 di questi sono nel comune capoluogo, tutti o quasi a distanza ravvicinata da abitazioni e da altre attività  urbane. Si tratta per lo più di depositi di prodotti chimici e petroliferi, che arrivano a Genova via mare e ripartono con moto o ferrocisterne o in oleodotti che attraversano una parte della città , interrati o negli alvei di torrenti. Gli incidenti gravi appartengono al passato.
Nel 1981 l’esplosione della petroliera giapponese Hakuyou Maru nel porto petroli di Multedo provocò 6 morti e 12 feriti; nel 1987 furono 4, invece, le vittime dell’esplosione nel deposito petrolchimico della Carmagnani, sempre a Multedo, mentre nel 1991 l’esplosione della petroliera Haven, al largo del porto petroli, provocò 5 vittime.
Paura e danni ambientali, ma nessuna vittima, per il violento incendio esploso nella raffineria Iplom di Busalla (comune nell’entroterra di Genova) nel 2008. Poi, nell’aprile 2016, la rottura di un oleodotto della stessa Iplom, a Genova Fegino, provocò lo sversamento di 680 metri cubi di greggio nei torrenti e nel mare. Proprio a Fegino, a due anni dall’incidente, gli abitanti aspettano ancora un intervento di bonifica, che – per un intreccio di motivi e competenze – non si sa se arriverà .
«Qui non è cambiato niente – denuncia Antonella Marras, del Comitato di Borzoli Fegino – Quando piove tanto nel torrente riaffiorano tracce di idrocarburi e si sente anche la puzza… Rilanceremo al nuovo Parlamento la petizione, perchè la legge Seveso sia applicata anche agli oleodotti».
Trasferimento dei depositi
Ad accendere il dibattito in città , negli ultimi mesi, è soprattutto la questione del trasferimento dei depositi di Carmagnani e Superba da Multedo.
Il 7 aprile un migliaio di persone sono scese in piazza a Cornigliano, sempre nel ponente genovese, per protestare contro l’ipotesi di trasferimento in una parte delle aree ex Ilva, lasciate libere dalle acciaierie. «Basta servitù, Cornigliano vuole vivere», lo slogan simbolo della manifestazione.
Cornigliano è, infatti, un’ipotesi all’esame dei governi di centrodestra in Comune e Regione, anche se divide lo stesso centrodestra. «Penso che saremo la prima amministrazione a trovare una soluzione al trasferimento di Carmagnani e Superba» aveva detto ottimisticamente il sindaco Marco Bucci qualche mese fa. «Secondo me non verranno mai trasferite, perchè non c’è la volontà  politica di farlo» il commento di Renato Cassini, da poco in pensione dopo aver lavorato vent’anni alla Carmagnani dove è stato anche delegato sindacale Cgil.
«Dopo l’incidente del 1987 ci sono stati cambiamenti enormi nell’ azienda – racconta – La soglia di rischio per i lavoratori e per chi sta intorno ai depositi si è abbassata moltissimo. Le paure dei cittadini non sono più giustificate, ma purtroppo è la politica che aizza la popolazione».
Ma quella di Cornigliano è solo l’ultima di una serie di ipotesi che si susseguono dall’inizio degli anni ’90, in nome della necessità  – da tutti proclamata – di allontanare i depositi dall’abitato di Multedo, dove i cittadini, agguerriti e speranzosi allora in una riqualificazione, sono diventati via via più disincantati.
«Il ponente ad alto rischio ambientale è stato lasciato ai poteri forti», dice Antonio Bruno, ambientalista del ponente, ex consigliere comunale. Carmagnani e Superba, dove lavorano una novantina di persone, per ora aspettano, ventilando ogni tanto la possibilità  di lasciare Genova se non avranno certezze sul loro futuro. Ma, dopo l’accantonamento della localizzazione che era stata ipotizzata dalle passate amministrazioni e che avevano condiviso, ribadiscono che è urgente decidere. «Devono restare a Genova, non possiamo perdere altri posti di lavoro – sostiene Ivano Bosco, segretario della Camera del Lavoro di Genova – La localizzazione va decisa dalle istituzioni, ma purtroppo si avverte la mancanza della politica». Che ad ogni cambio di amministrazione promette e divide, finora senza trovare soluzioni.
Il cloro senza le bonifiche
A Venezia, invece. le industrie e il porto non sono in città . Le vedi dall’altra parte del Ponte della Libertà . È una storia portuale e industriale che compie esattamente cent’anni e qui le distanze sono più brevi: un chilometro al massimo e in mezzo c’è il mare. Ma per capire che cosa vuol dire lavorare in un impianto a rischio, bisogna parlare con chi ha qualche anno di più. Antonio Rossi ne ha 65 e ricorda: «Un tempo era un incubo, si operava in situazioni pericolosissime e ogni giorno ti facevi il segno della croce sperando di tornare a casa».
Oggi molte cose sono cambiate: «I giovani non immaginano neanche cosa li ha preceduti. Ma sempre, quando si verificano situazioni di emergenza, la paura ti accompagna: il rischio zero non esiste».
La delocalizzazione a Venezia ha seguito altre logiche: «Alcune lavorazioni come quelle degli acetici e degli acetilenici – ci racconta Riccardo Colletti, segretario dei chimici della Cgil nel palazzotto a vetri di Mestre – sono state abbandonate perchè troppo pericolose. Quelle più recenti sono state collocate sempre più indietro rispetto al fronte del mare, sempre più lontane dalla città ». Rilancia sulle imprese di Marghera il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, che non fa retromarcia e invece vuole premere sull’acceleratore: «Dopo gli anni della crisi, magari arrivassero ancora più aziende». Qual è stata la situazione negli ultimi anni?
«Abbiamo sempre avuto il problema delle bonifiche del ciclo del cloro, che è stato chiuso. Per il resto, c’è un’esperienza centenaria che ci mette al sicuro dagli incidenti. Noi dobbiamo aver paura del fai da te, delle imprese industriali improvvisate che non hanno aggiornato gli stabilimenti e li hanno spremuti, delle produzioni che ormai erano antistoriche. Quelle sono state eliminate, concentrare tutto in una zona super attrezzata come Marghera è una buona politica industriale».
La sua conclusione: «L’Italia deve credere di più in un’industria che dia ovviamente totale sicurezza».

(da “La Stampa”)

This entry was posted on mercoledì, Maggio 9th, 2018 at 10:38 and is filed under denuncia. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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