IN MANOVRA SPUNTA UN AUMENTO DELLE TASSE PER I PICCOLI AZIONISTI: CHI HA PARTECIPAZIONI SOTTO IL 10% IN UNA SOCIETÀ NON PAGHERÀ PIÙ L’1,2% DELLE CEDOLE, MA IL 24. UNA FREGATURA PER CHI DETIENE PICCOLE PERCENTUALI, A TUTTO VANTAGGIO DEI GRANDI AZIONISTI (UNA NORMA CHE PUZZA DI REGALO A CALTAGIRONE)
TENSIONE TRA LA CONSOB E IL GOVERNO PER LA RIFORMA DELLA FINANZA, CHE PENALIZZA CHI POSSIEDE PICCOLE QUOTE E RENDE POSSIBILE AGGIRARE IL MECCANISMO DELL’OPA
La manovra 2026 riscrive una regola che in Italia era consolidata da oltre vent’anni. E scatena la reazione del mondo finanziario. La norma inserita nel testo prevede che le holding che hanno partecipazioni sotto il 10% in una società non debbano più pagare l’1,2% delle cedole ricevute dalle controllate […] ma […] versare il 24%. Un dietrofront netto rispetto alle norme introdotte da Giulio Tremonti nel 2003 con la cosiddetta “partecipation exemption”, che mirava appunto ad eliminare la doppia imposizione fiscale.
E proprio il tema della doppia imposizione […] potrebbe rendere facilmente attaccabile la nuova norma di fronte alla Corte Costituzionale. Assonime, l’associazione delle società quotate, ad esempio, ha accolto con stupore la novità spuntata nella manovra, che considera incoerente con i principi della riforma fiscale.
A essere colpiti sono soggetti come le holding familiari, i family office e tutti quelli che detengono partecipazioni finanziarie che siano appunto sotto il 10%, come ad esempio grandi investitori in banche e assicurazioni.
Se queste partecipazioni sono sopra il 10%, nulla cambia. Ma se si trovano sotto quella soglia, l’onere fiscale esplode: 100 euro di utile di una società diventano 76 dopo l’Ires; senza esenzione lholding paga di nuovo il 24% sui 76 euro (18,24 euro), scendendo a 57,76 euro; se poi distribuisce il dividendo ai soci persone fisiche, l’imposizione del 26% porta al traguardo solo 42,74 euro.
Di fronte a questo quadro la prospettiva è che molte holding si affidino a fondi, per i quali non vale la nuova norma. Inoltre, rischia di essere disincentivata la partecipazione azionaria in società italiane che finora aveva goduto di un trattamento fiscale privilegiato sui dividendi rispetto alle partecipazioni detenute in società estere. Per lo Stato invece aumentano le entrate: 983,2 milioni nel 2026 e 1 miliardo circa in ciascuno degli anni 2027 e 2028, secondo la relazione tecnica.
Delisting, trasferimento della sede all’estero, scheme of arrangement, audizioni. Le tensioni sul Tuf aumentano con l’arrivo alla Camera – il 17 ottobre scorso e la successiva assegnazione alle Commissioni Giustizia e Finanze – dello schema di decreti legislativi per la riforma del testo unico della finanza.
La Consob non è convinta della formulazione di una serie di articoli del nuovo codice della finanza e si aspetta un intervento del Parlamento. Il governo, invece, credo che il testo sia frutto di un ottimo compromesso.
Secondo quando ricostruito da La Stampa in ambienti parlamentari e finanziari, l’authority di vigilanza dei mercati avrebbe più volte sollevato davanti all’esecutivo la questione
della mancanza di equilibrio tra l’emittente – ovvero le società quotate in Borsa – e gli investitori. Secondo gli esperti ci sarebbe un potenziale disallineamento informativo che rischia di danneggiare tutto il mercato.
La scorsa estate il presidente della Commissione di vigilanza dei mercati Paolo Savona ha scritto al ministero dell’economia per sollevare le proprie preoccupazioni e per sottolineare gli elementi di incertezza rilevati dall’authority. Ma l’appello non sarebbe stato colto.
A preoccupare gli addetti ai lavori sarebbe la possibilità di aggirare il meccanismo d’Opa. Anche perché ad alimentare l’interesse degli azionisti, in particolare i fondi, c’è la contendibilità delle società: certo prima di investire si studiano nel dettaglio i fondamentali, ma quello che fa correre i titoli è la prospettiva di un’offerta o di una battaglia per il controllo di una società.
Un’ipotesi che con l’articolo 112 bis del nuovo Tuf rischia di diventare meno attraente. In pratica mutuando dai paesi di diritto anglosassone lo scheme of arrangement si modifica la disciplina dell’acquisto totalitario prevedendo che l’Opa possa essere scavalcata con l’autorizzazione dell’assemblea straordinaria dei soci.
Incassando il voto favorevole della maggioranza dei presenti con un whitewash della maggioranza. Tradotto: in assise non potrebbero votare né chi propone l’acquisizione né i soci di
controllo.
Una norma a tutela delle minoranze, ma che in Italia rischia di scontrarsi con il fatto che sono ben poche le società quotate ad avere un primo azionista di riferimento. In Inghilterra la norma era stata pensata per salvare le aziende a rischio fallimento, motivo per cui serve il via libera anche di un giudice. In Italia rischia di penalizzare il mercato. E soprattutto in assenza di un prospetto aumenta l’assimetria informativa e riduce il potere di chi controlla.
La Consob insiste per modificare almeno in parte l’articolo 112 bis, ma ha evidenziato dei rilievi anche sul fronte di delisting e spostamento di sede all’estero. La Commissione chiede che per deliberare su questi argomenti vengano sterilizzati in assemblea i voti multipli, sempre a tutela delle minoranze, ma la richiesta – per il momento – è caduta nel vuoto.
Con uno sbilanciamento tra i grandi azionisti e gli altri. Altro punto di riflessione riguarda la scelta di portare la soglia d’Opa dal 25 al 30% come in molti Paesi europei: per l’Italia però sembra una mossa che va in direzione contraria rispetto alla volontà di privatizzare le partecipate pubbliche perché impone, di fatto, al Mef di non scendere sotto la soglia del 30% per non perdere il controllo delle società.
(da agenzie)
Leave a Reply