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INTERVISTA A MARK THOMPSON, GRANDE CAPO DEL NEW YORK TIMES: “FRA 10 ANNI L’ADDIO AL GIORNALE SU CARTA, MA POI VIENE IL MEGLIO”

“IL SEGRETO E’ PUNTARE PIU’ SUI LETTORI CHE SULLA PUBBLICITA'”… “L’ACQUISIZIONE DI REPUBBLICA DA PARTE DI ELKANN? AVRA’ CONSEGUENZE POLITICHE MA LE RAGIONI SONO INDUSTRIALI”

A guardare oggi i risultati del New York Times — 6 milioni di abbonamenti e 800 milioni di dollari di ricavi digitali nel 2019 — si fa fatica a credergli.
Eppure — giura Mark Thompson, amministratore delegato e presidente del gruppo che edita il quotidiano americano — quando da Londra è arrivato a New York con il suo accento da èlite british e un’esperienza esclusivamente televisiva, tutti scommettevano che da lì a poco la “Gray Lady” sarebbe andata in bancarotta.
Era il 2012, Thompson lasciava una Bbc in grande forma e uno stipendio non legato ai ricavi aziendali, per trasferirsi in giornale poco incline a prendere in considerazione dirigenti cresciuti oltre i ponti e i tunnel di Manhattan, e che perdeva milioni di dollari — trimestre dopo trimestre — a causa di una strategia esangue che puntava tutto sui giornali locali e un digitale zoppicante.
Otto anni dopo, il New York Times è esattamente quello che l’amministratore delegato outsider aveva sognato: un brand globale, che macina profitti su diverse piattaforme e riesce — proprio per questo — a farsi amare dai millennial.
Certo, poi è arrivata la pandemia. Thompson, 63 anni, un libro tradotto in italiano La fine del dibattito pubblico, la affronta muovendosi solo in bicicletta e lavorando prevalentemente da casa. Da lì risponde via Zoom alle domande di Open.
Le aziende giornalistiche in tutto l’Occidente sembrano vittime di un crudele paradosso legato al Coronavirus: a una crescita esponenziale di lettori corrisponde un calo drastico degli investimenti pubblicitari che porta a licenziamenti, chiusure, tagli. Voi come state reagendo?
«Ci aspettiamo un dimezzamento degli investimenti pubblicitari ma i nostri abbonamenti digitali continuano a crescere: non dipendendo dalla pubblicità , soffriamo molto meno di altri. Faremo anche noi dei tagli ma non riguarderanno giornalisti, nè il comparto digitale. Mai come in questo periodo abbiamo bisogno di giornalismo di qualità  e quindi continueremo ad assumere e investire: fortunatamente siamo abbastanza forti per potercelo permettere»
Cosa vuol dire essere un leader in questo momento?
«È strano fare il leader da casa. Non hai la percezione reale di quello che succede nella tua azienda: gli umori, i pensieri, le preoccupazioni per una fase durissima della vita pubblica e privata. Ma è anche un momento di grande energia in cui la missione del giornalismo si sente ancora di più. Stiamo ragionando anche su cosa prendere e lasciare dell’esperienza dello smart working, che di sicuro ci costringe a non dare più per scontata la presenza fisica negli uffici: ci interroghiamo su quale sia il beneficio reale dello stare insieme.   Lo smart working non è una rivoluzione, ma permette di vedere chiaramente il suo opposto: il mondo statico e regimentato dell’ufficio, che però qui appartiene al passato: i nostri giornalisti sono già  redazioni di corrispondenza individuali. Con il Coronavirus cambieranno solo le proporzioni»
Lavorare chiusi in casa davanti al pc non è in contraddizione con il mestiere di giornalista?
«Siamo dentro alla più grande storia giornalistica degli ultimi decenni, che è fatta anche di migliaia di rumors, false informazioni, cospirazioni che dobbiamo debunkare. Credo che il direttore del Times (Dean Baquet ndr) sia piuttosto contento del fatto che è possibile svolgere la maggior parte di questo lavoro con un cellulare. Certo, mandiamo ancora le persone fuori a raccontare quello che vedono, ma la maggior parte del giornalismo sta funzionando da remoto e va bene così. Tutti preferirebbero fare un’intervista di persona piuttosto che al telefono ma non dobbiamo essere sentimentali: il giornalismo moderno viene   già  fatto prevalentemente via Skype e al telefono. In particolare quello che coinvolge esperti, epidemiologi e scienziati»
Nonostante i giornali avessero iniziato a scrivere del pericolo del Coronavirus ben prima dell’inizio dell’emergenza, la maggior parte dei cittadini ha impiegato molte settimane preziose prima di crederci. Le persone non si fidano più dei giornali?
«Viviamo in un mondo dove molte persone leggono solo quello in cui credono. E, spesso, quando incontrano fatti che possono contraddirlo, continuano a preferire la loro visione del mondo. Eppure, anche se crediamo in qualche strana teoria sulla nutrizione o seguiamo una stramba dieta (e questo capita anche ai migliori), non vuol dire che smettiamo di andare dal dentista. Le persone rivendicano il diritto di essere scettiche e, allo stesso tempo, continuano ad andare dallo specialista se hanno problemi ai denti. Anche Trump non credo sia così azzardato con i denti come lo è quando deve scegliere il farmaco da assumere per proteggersi dal Coronavirus. In alcune zone d’America l’epidemia è vissuta come il cambiamento climatico: un piccolo problema che è stato montato dalle èlite contro i lavoratori. Le proteste contro il lockdown dipendono più dalla politica che dalla consapevolezza o dalla sfiducia nel giornalismo. Non è un caso che interessano principalmente gli Stati che hanno votato per Trump. Oggi è più facile farsi guidare dall’ideologia che dai fatti»
Alcuni ritengono che il New York Times contribuisca a polarizzare il dibattito politico: siete diventati il quotidiano globale del pensiero liberal?
«Non c’è dubbio che siamo diventati un giornale “globale” — per copertura e organizzazione — ma nel mercato globale del giornalismo in termini numerici valiamo molto poco. E non credo che fuori dagli Usa veniamo percepiti come una forza liberal o di “sinistra”. È vero però che i regimi non ci apprezzano, che a Bolsonaro e Orban non piace il New York Times»
Anche il fondatore del Movimento Cinque Stelle Beppe Grillo non vi ama.
«I politici tendenzialmente non amano il buon giornalismo.   Ma cosa diversa è dire che siamo una forza polarizzante globale: la sinistra in Europa non c’entra nulla con noi. Le persone all’estero quando pagano per le news non scelgono noi. So bene che in molti mercati siamo il terzo, quarto, quinto giornale e va bene così. Se un lettore deve pagare per le notizie in Italia preferirà  sempre comprare il Corriere, la Stampa o la Repubblica»
A proposito di editoria italiana, osservatori sostengono che l’acquisto da parte del gruppo Exor — di proprietà  degli Agnelli — del gruppo Gedi, proprietario di Repubblica, provocherà  uno spostamento del giornale verso il centro, cambiando così il dna del quotidiano. Cosa ne pensa?
«In moltissimi Paesi, inclusi gli Stati Uniti, stiamo assistendo a operazioni di consolidamento editoriale: giornali e gruppi che si fondono spinti da esigenze più economiche che politiche. È inevitabile: quando un’industria matura non riesce a crescere ha bisogno di fare un’operazione scalabile, è una tattica di difesa. Ora, il modello italiano è da sempre regionale e molto politico: per consolidarsi ha bisogno anche di passare a posizioni più centriste. Ma non è una questione ideologica: è industriale»
Un ragionamento che potrebbe sembrare controintuitivo: in un mondo polarizzato dovrebbe funzionare di più una testata con una forte connotazione politica. O no?
«Qui parliamo di principi economici di base. Una pubblicazione cartacea o digitale ha dei costi fissi molto alti: redazione, carta, sede, marketing, tecnologia. In passato, grazie a una pubblicità  altamente profittevole potevi sostenere un giornale che vendeva solo in una regione o in un paio di regioni. Se hai meno margini di profitto, devi avere molti più lettori e allo stesso tempo tenere i tuoi costi bassi. È qui che parte il consolidamento: metti più giornali insieme per condividere i costi ed espandere il tuo lettorato. Per riuscirci devi passare da una prospettiva regionale a una nazionale, da una linea partigiana a una linea moderata: è sopravvivenza. È vero che Internet richiede opinioni molto forti, ma puoi avere un giornale “moderato” e aperto a diverse voci con una pagina delle opinioni molto forte. Comunque, siamo onesti, la carta collasserà  in ogni caso. Le persone smetteranno definitivamente di comprare i quotidiani di carta»
Quando?
«Immagino un decennio di vita ancora per il New York Times cartaceo, che sono sicuro sarà  uno degli ultimi giornali — Germania a parte — a sospendere le pubblicazioni in edicola. In un paio di decenni saremo un mondo post cartaceo, quindi la nostra sopravvivenza dipende solo dal digitale e dalle scelte che faremo in quell’ambito. La pubblicità  online non è affidabile: bisogna puntare sugli abbonamenti, su un giornalismo per cui le persone scelgono di pagare»
Anche gli under 40?
«La mia azienda è composta al 50% dai millennial. Oggi in molti dipartimenti del giornale abbiamo leader ventenni che prendono decisioni. C’è stata una rivoluzione all’interno dell’organizzazione: i millennial si occupano di tutto — politica, esteri, cultura — e questo ci ha permesso di arrivare a loro. Il podcast The Daily ha 3 milioni di ascoltatori al giorno. Questo vuol dire che ogni giorno 3 milioni di persone dedicano 20, 30 minuti all’ascolto, che è molto di più del tempo che ormai si dedica alla lettura di un giornale. Sono tutti millennial. Se realizzi prodotti di qualità  pensando a loro verrai premiato»
Nate Silver, il guru dei dati che ha lavorato con voi dal 2010 al 2013 , mi ha raccontato che, arrivato al giornale, un caporedattore gli disse: “Quando lavori al New York Times il tuo cognome è Times”. È curioso che in meno di un decennio il giornale sia cambiato così tanto.
«La guerra culturale con Nate è coincisa con il mio arrivo. Da allora abbiamo cambiato moltissimi capi di settore. Questo è cruciale: non puoi avere gli stessi capi per sempre. Sono davvero pochissime le persone del “vecchio mondo” che possono reggere la trasformazione di cui ha bisogno oggi un’azienda giornalistica. Persone che hanno fatto carriera in un modo pre-digitale come possono guidare la transizione verso il nuovo? Il carico professionale, tecnologico, ma anche personale ed emotivo che comporta questo lavoro è impressionante. Io riesco a sostenerlo ma siamo pochissimi. Una volta quelli che si occupavano di dati nei giornali erano gli uomini grigi in fondo al corridoio, oggi sono al centro del giornale.
Però, in qualche modo, è ancora vero che il cognome di chi lavora qui è Times. Quando Nate Silver è andato via non abbiamo finito di fare infografiche e data journalism, anzi siamo diventati bravissimi. E forse la forza del Times è proprio questa: essere la casa di individui che sono diventati brand a loro volta   — penso a   Thomas Friedman, Paul Krugman,   Maureen Dowm, Michael Barbaro — ma che continuano a trovare un valore immenso nell’essere associati al Times.   Noi vogliamo essere una fabbrica di star, un magnete creativo che attiri giovani di talento per dare loro una chance.   I valori e le pratiche del giornalismo restano le stesse:   fact checking, oggettività , fonti multiple, attenzione alla scrittura. Ma oggi sappiamo che tocca essere flessibili se vuoi avere a che fare con i talenti»
Parlando di talenti, il vostro ultimo acquisto Ben Smith — ex direttore di Buzzfeed   — nella sua prima rubrica da media columnist ha sostenuto che siete diventati un monopolio dell’informazione: avete cannibalizzato tutte le nicchie digitali che vi sfidavano assumendo i giornalisti migliori.
«Quando dicono che siamo come Google o Amazon, io dico di guardare ai numeri. La ricerca su Google è redditizia in tutti Paesi occidentali, come l’e-commerce di Amazon. Io bramerei per raggiungere anche solo il 5% dei lettori di un Paese fuori dagli Stati Uniti»
Nei giorni scorsi ha fatto molto rumore un altro articolo di Smith che smonta la tecnica giornalistica di Ronan Farrow, autore delle inchieste che hanno dato via al MeeToo. Con un solo articolo vi siete fatti nemici sia i paladini del movimento che i colleghi del New Yorker.
«Non sono responsabile per la parte editoriale e posso solo dire che è stato un ottimo articolo. A proposito del #MeeToo voglio invece dire che l’impegno del Times verso il movimento è davvero difficile da mettere in discussione. Abbiamo seguito la vicenda ben prima che lo facesse Farrow, documentando da sempre le violenze subite da giovani donne e uomini sul posto di lavoro. Porre dubbi e domande sulla pratica investigativa non vuole dire mettere in discussione un movimento o un’istituzione come il New Yorker. Peraltro noi veniamo continuamente criticati da giornali autorevoli, ogni mattina trovo un plico di articoli che fanno le pulci al Times a firma del Washington Post o Vanity Fair. Sa che le dico? Questa è la vita».

(da Open)

This entry was posted on domenica, Maggio 24th, 2020 at 20:22 and is filed under Stampa. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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