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INTERVISTA ALLO SCRITTORE EDOARDO ALBINATI: “GRAZIE ALLA PANDEMIA HO SCOPERTO L’UNICO DESIDERIO PURO: RESTARE VIVI”

“NON SO COSA VOGLIO DALLA VITA, MA SO CHE VOGLIO LA VITA”

Con la pandemia, ha scoperto che esiste un desiderio puro: “Il semplice desiderio di restare vivi, il desiderio che restino vivi i propri cari, il desiderio che restino vivi gli altri, gli sconosciuti. ‘Non so cosa voglio dalla vita, ma so che voglio la vita’.
Un desiderio chiaro, che proviamo tutti in questo momento: non ammalarsi, non far ammalare nessuno, star svegli e passare la nottata”.
È l’unico desiderio dritto che ci sia, mi dice Edoardo Albinati: tutti gli altri sono per costituzione Desideri deviati, come li definisce il titolo del suo ultimo romanzo, edito da Rizzoli, e sottotitolato Amore e ragione.
La protagonista è Milano, la città  dell’editoria e della moda, della concretezza e dell’allucinazione, della praticità  e dello spreco.
Albinati lo incontro a Roma, a casa sua. Anche lui oscilla tra poli diversi: nella vita, fa la spola tra il carcere, dove insegna ai detenuti ormai da 26 anni, e il suo mondo borghese; nella scrittura, passa in continuazione dalla narrazione alle digressioni saggistiche, dall’azione alla meditazione. Sembra oscilli anche nell’aspetto: indossa una camicia bianca a righe azzurre e un gilet a rombi coloratissimi, dal riverbero orientale: insieme sobrio e sgargiante. Quando gli chiedo a che categoria di scrittore crede di appartenere, mi risponde con un’espressione inglese: “go-between”. Cerca sull’i-Phone una traduzione migliore della prima che gli viene in mente, ma non la trova.
“Come dire: credo di essere uno che fa avanti e indietro, un esploratore di universi umani, privo di una posizione fissa. Mi sento allo stesso tempo dentro il mondo della letteratura e fuori dal mondo della letteratura. Sconfino in continuazione tra una disciplina e l’altra, e attraverso gli strati sociali più diversi”.
Nel 2016, ha vinto il premio Strega con La scuola cattolica, un romanzo di più di mille pagine che partiva da un delitto tremendo, a Roma. Qui, comincia con un ingresso di operai in fabbrica, nei primi anni del Novecento, e finisce raccontando una sfilata in una fabbrica dismessa, nella Milano di inizio anni Ottanta.
La fabbrica oggi è scomparsa o si è estesa ovunque?
Frank Zappa, dopo aver tenuto un concerto all’ex Mattatoio di Roma, disse, non so quanto ironicamente, che mentre suonava non aveva potuto fare a meno di sentire i muggiti delle vacche che erano state uccise in quel posto. Credo che qualcosa di analogo succeda con le fabbriche dismesse. Per un paio di secoli, sono state il luogo in cui si faticava e si sputava sangue per produrre oggetti materiali, la concretezza, poichè nulla è più concreto di un bullone o di un parafango, e del lavoro che serve a fabbricarlo. Oggi, invece, dopo la loro riconversione, vi si producono merci spirituali: mostre, concerti, dibattiti, fiere di libri, convegni. Così continuano a sopravvivere, non solo come luoghi architettonici. Al loro interno ancora risuona l’eco della fatica e dello sfruttamento, cioè le ragioni per cui erano state originariamente costruite.
Le parole, le immagini, i suoni sono i nuovi bulloni?
Su questo bisogna essere chiari: sono merci anche i libri, i dischi, i quadri, le statue. Appartengono a una categoria merceologica diversa da quella di un divano, d’accordo, ma per quanto il loro statuto sia ambiguo, sempre di prodotti si tratta. Hanno un prezzo, sono sul mercato. La merce si può spiritualizzare ma anche lo spirito può essere messo in vendita. In questo senso mi interessa molto l’editoria, e ho voluto raccontarla nel mio romanzo: è il vero anello di congiunzione tra la cultura e l’industria nella nostra società . E trovo giusto che gli editori non pretendano di essere gli agenti del bene nel mondo, ma producano libri per guadagnare. Anche per guadagnare. Chiariscono un equivoco: cioè, che la cultura in sè non è qualcosa di elevato, distaccato dall’uso che ne fa il mondo; e che gli uomini di cultura non sono naturalmente votati al bene: anzi, a volte fanno, e hanno fatto, il male.
Non c’è differenza neanche tra una merce e un’opera d’arte?
Usiamo certe categorie per semplificarci la vita: distinguiamo il corpo dall’anima, il cuore dalla ragione; ma è impossibile individuare il confine preciso in cui finisce uno e inizia l’altra. Così è per un quadro o per una statua: sono oggetti prima di essere opere d’arte. Non c’è niente che possa riscattarli dalla loro corporeità . E di più: ciò che ammiriamo, è proprio la loro materialità . Per gli ortodossi nelle icone il divino non è una raffigurazione, un rimando simbolico, non è fuori dall’oggetto, bensì è nell’oggetto stesso: divina è la materia di cui sono fatte.
Anche i desideri sono così ambigui?
Il desiderio è per sua natura deviato o deviante. È un moto dell’anima forte quanto impreciso. Questo non significa che sia perverso o morboso in sè. Piuttosto, il desiderio è una freccia scoccata verso un bersaglio immaginario che finisce per colpirne uno reale, immancabilmente diverso. Desidero un certo ideale femminile, ma poi mi innamoro effettivamente di una donna che non vi corrisponde affatto, magari inseguivo il successo individuale nel lavoro e invece mi realizzo mettendo su una famiglia, o viceversa.
Si fallisce sempre?
Non si tratta di un fallimento, è la legge propria del desiderio. Racconta frottole chi dice di aver realizzato i propri desideri. Nessuno può riuscirci davvero. Il desiderio è ciò che ci spinge, ci muove, ma quello che troviamo nel cammino è sempre altro rispetto a ciò che cercavamo. È come per i cavalieri che inseguono il sacro Graal. Tutti vogliono impadronirsene, anche se non si sa che aspetto abbia, nè se esista davvero. Cercandolo, vivono avventure e conoscono chi l’amore, chi la morte, il coraggio o la viltà ; erano destinati a quello. Potrebbe essere anche più giusto che trovare il Graal.
Non sembra difficile da accettare, per lei.
Ma cos’altro si può fare? Il proprio destino si può solo accettare. È l’amor fati: quel che ti succede è fatto apposta per te.
La passione, invece, può andare a segno?
È passione ciò che sfugge alla misura, ciò che va oltre l’utile e il conveniente, lo smisurato. La passione può produrre opere meravigliose. Ma — attenzione! — può produrre anche disastri enormi. C’è un verso di Yeats che dice: ‘I migliori mancano di ogni convinzione, mentre i peggiori sono pieni di appassionata intensità ‘. I nazisti erano gente ubriaca di passione, per esempio. Chissà  perchè, noi siamo convinti a priori che la passione riscatti comunque chi la prova. Diciamo di qualcuno: “Eh, ma lui ci mette tanta passione!”. Ma cosa importa, se poi è un cane a fare quello che fa? O se le idee che professa con tanta passione sono sbagliate?
Trasmettere passione non è già  un bene?
Ma la passione, specie quando è troppa, può ostacolare la trasmissione. Io ho avuto insegnanti talmente presi dalla foga che non capivo niente di quel che dicevano. La loro esaltazione era un muro tra il sapere che dovevano trasmettere e noi studenti che dovevamo riceverlo. Succede spesso agli attori quando leggono un testo. Il loro ruolo — apparentemente modesto, in realtà  difficilissimo — sarebbe semplicemente quello di consegnare il testo al pubblico. Ma se si mettono a delibare la parola, deformandola e caricandola, impediscono alle parole di giungere ai propri destinatari.
Perchè chiama l’Italia lo Stivale?
Perchè Italia è un nome abusato
Abusato?
Accidenti se lo è: vengono prima gli italiani, lo chiedono gli italiani, noi italiani siamo stanchi!, e poi Italia Viva, Forza Italia, Fratelli d’Italia; e le pubblicità  con il tricolore ovunque, i palazzi illuminati di bianco rosso e verde. Tutti si riempiono la bocca con la nobile parola Italia. Anche persone che non dovrebbero osare pronunciarla. Io meno la uso e meglio è. In questo momento, preferisco ripiegare sull’affettuoso termine Stivale.
Sembra voglia evocare quella frase velenosa di Metternich: “L’Italia è un’espressione geografica”.
Però Metternich non chiamava l’Italia “lo Stivale’, suppongo perchè avesse un gran rispetto per gli stivali! L’Italia è davvero un sogno letterario, una creazione dei poeti, che sono i nostri veri Padri Fondatori. Oggi, l’abuso della parola Italia è un tentativo di rinnovare uno spirito identitario posticcio: il principio più pericoloso che ci sia oggi sulla faccia della Terra, sia quando è declinato dal punto di vista nazionale, sia quando è inteso in senso etnico, religioso o sessuale.
Perchè ha scelto Milano per la sua storia?
Perchè la conosco, ma non la conosco come le mie tasche. Mi è familiare, ma non poi tanto familiare. Era il luogo perfetto perchè ne sapevo abbastanza, ma conservando un buon margine d’invenzione di cui avevo bisogno. Potrei dire, usando il criterio con cui si sceglieva il luogo dove officiare un sacrificio agli dei, che Milano è per me “il più vicino dei luoghi lontani e il più lontano dei luoghi vicini”.
Qual è la differenza con Roma, la sua città , di cui ha scritto nel precedente “Cuori fanatici”?
Che a Milano, essendo ogni cosa regolata, la vitalità  tende subito a essere sregolata. È, allo stesso tempo, la città  del lavoro e del sogno. Il panorama anonimo è perfetto per le passioni strazianti. A pensarci bene, è il luogo ideale per le canzoni struggenti e l’innamoramento. Chi vive a Napoli, sente già  l’amore sprigionarsi dall’intera metropoli. Chi vive a Milano, deve amare follemente per scaldarsi. Lo sguardo fantastico, visionario, allucinatorio, a Milano nasce dalla necessità  di non precipitare nella depressione. Il mondo alternativo del glamour e della moda non poteva che crearsi lì. A Roma sembra invece consentito tutto: e perciò, non succede mai nulla. Roma è già  così colorata, che non c’è bisogno di accendere un bel niente. La fantasia dorme.
E politicamente?
In tutto il Novecento, Milano si è costruita un’immagine speculare a Roma, di opposizione alle pastoie parlamentari romane, proponendo un modello di anti-politica, basato sul decisionismo, sull’azione pura, il mito dell’efficacia, anche violenta. ‘Noi qui si lavora, si agisce, voi a Roma chiacchierate: insomma, chi deve governare questo Paese?’ Ciclicamente, questa sollevazione scuote la politica italiana: non a caso è a Milano che Mussolini ha fondato i Fasci di combattimento, Berlusconi ha creato la figura prima impensabile dell’imprenditore-politico, della gestione aziendale del potere; e poi naturalmente c’è la Lega nelle sue varie incarnazioni, prima separatista, ora nazionalista. Al di là  di come si giudichino le singole esperienze, è un fatto che, con i manganelli o con i quattrini o con l’aspirazione secessionista, a Milano sono nati modelli alternativi che volevano spezzare i lacci e lacciuoli della democrazia rappresentativa romana. Sventolando la promessa di liberarci dai vincoli e dai cavilli e dalle ipocrisie, Milano con i suoi vari leader è stata e rimane la culla della pulsione illiberale italiana, dell’aspirazione all’Uomo forte, deciso, quello che pretende di parlare in nome del popolo intero, di “sessanta milioni di italiani”. Che poi — ma solo poi — marcia su Roma.
Ma, una volta a Roma, anche l’Uomo forte rimane spesso impigliato nella romanità .
Roma riesce almeno in parte a relativizzare e insabbiare la sostanza eversiva di questi movimenti (a esclusione, è ovvio, del fascismo), finendo per integrarli nel proprio sistema. È successo persino coi 5 Stelle!
Lei suona?
Da ragazzo suonavo.
Il pianoforte?
No, quello lì è di mia figlia: io suonavo il sax, in un gruppo che aveva come modelli i Soft Machine e i Nucleus. Poi ho mollato.
Perchè ha titolato il capitolo sulla musica ‘Il senso della vita’?
Confesso che il titolo è un deliberato omaggio al film dei Monty Python, la cui allusione al senso della vita è così arrogante da svelare il suo carattere di iperbole, ironica e romantica.
Leggendola, non mi è sembrato solo un gioco.
Se c’è un’esperienza in cui ti sembra di poter toccare — non afferrare, ma toccare sì — il senso intero della vita, è quella che si prova assistendo a un grande concerto. Non c’è altra esperienza umana che illumini di colpo tutto quello che hai vissuto, che stai vivendo, che vivrai. Durante un concerto, è come se improvvisamente lampeggiasse almeno per qualche un istante il significato del tutto. È un’immagine non traducibile in parole. Che solo la musica può far apparire, luminosa, davanti a te.

(da “Huffingtonpost”)

This entry was posted on domenica, Ottobre 11th, 2020 at 20:51 and is filed under Costume. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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