LA DESTRA E IL DEFICIT DI DEMOCRAZIA
IL TEMA CRUCIALE E’ IL RISPETTO DEL PATTO COSTITUZIONALE
Com’era prevedibile, opinionisti benpensanti e servi salmodianti hanno menato scandalo per l’accusa che Elly Schlein ha rivolto a Giorgia Meloni, dopo l’attentato a Sigfrido Ranucci. In effetti, legare quella bomba alla «democrazia a rischio» quando
governano le destre è una forzatura. Ma è sbagliato fermarsi al dito che la indica senza vedere la luna che c’è dietro.
Come sempre lo “scontro Meloni-Schlein” ha la sua forza mediatica. Ma non facciamoci fuorviare dalla trappola del «mandante morale», di cui la premier abusa per stendere una cortina fumogena sulla manovra economia più mediocre dal 2014 a oggi. Parliamo del “contesto”, in cui precipita quell’odioso attacco alla libera informazione.
Se partiamo da qui, è difficile non vedere tracce di un certo «sovversivismo delle classi dirigenti» di cui parlava Gramsci quasi un secolo fa. Ed è impossibile non vedere la clamorosa menzogna con la quale la premier copre i deficit di democrazia che ha cumulato nella sua longeva legislatura. In Senato ha mentito spudoratamente, dicendo che l’Italia recupera posizioni nella classifica mondiale della libertà di stampa: è vero il contrario, nel 2025 Reporter sans Frontières certifica un ulteriore slittamento dal 46esimo al 49esimo posto, peggior risultato tra i Paesi dell’Europa occidentale.
Come l’ideologia possa sovvertire la verità, e quindi alla fine coincidere con la morte della democrazia, ce l’ha spiegato qui Massimo Recalcati. Ed è questo, adesso, il passaggio critico che non dovremmo sottovalutare. Al di là delle risse di giornata e di bottega.
Qualche anno fa Steven Levitsky e Daniel Ziblatt, docenti di Scienza politica a Harvard, pubblicarono un saggio intitolato Come muoiono le democrazie. L’assalto para-golpista a Capitol Hill doveva ancora arrivare, ma i due già prefiguravano il piano inclinato sul quale scivolava l’America del primo Trump, grazie
a un dispositivo di potere che attraverso spinte progressive e regressive incrina i pilastri sui quali poggia una democrazia.
E non avevano ancora visto il secondo Trump: la sorprendente reinvestitura dello sceriffo di Washington e l’inquietante saldatura del kombinat militare-industriale-digitale che ormai domina sul disordine mondiale, a partire dalla “pace dei ricchi” firmata a Sharm el-Sheikh sulle spoglie della Palestina.
Ziblatt e Livitsky ci invitavano a liberarci da un’illusione. Non è più tempo di golpe cileni: le democrazie vengono erose con altri mezzi, più subdoli e sottili. I nuovi demiurghi sono votati dal popolo, ma quella che un numero sempre più ridotto di elettori gli affida è ormai una delega in bianco, e l’eletto la esercita con norme approvate da parlamenti ridotti a votificio e leggi vidimate da organi di garanzia sviliti a notai.
Così, passo dopo passo, le democrazie sfioriscono in autocrazie elettive, o peggio ancora in democrature. Cos’altro sono la Russia di Putin o l’India di Modi, l’America di Trump o l’Argentina di Milei, l’Ungheria di Orbán o la Turchia di Erdogan?
Allo stesso modo in Italia non è certo più tempo di camicie nere in marcia su Roma e di Mussolini con la gonna che commissionano l’attentato a Ranucci come il Duce ordinò alla banda Dumini l’assassinio di Matteotti. Questa rappresentazione macchiettistica fa comodo alle destre al comando, per replicare lo schema vittimistico-aggressivo con il quale sanno attaccare facendo finta di difendersi.
Il punto è un altro, e ancora una volta ci interroga tutti: la “qualità” della democrazia. La “lezione americana” è un modello di regressione civile che stiamo mutuando. Smottamenti graduali sul terreno della paura e del rancore, dell’indifferenza e dell’insofferenza verso l’altro. Costruzioni di nemici immaginari, da delegittimare e criminalizzare. Contaminazioni barbariche del linguaggio, avvelenato da quella tavola per antropofagi che è ormai diventata la rete.
Creato ad arte questo “contesto”, la soluzione è banale e brutale: serve il pugno di ferro, l’uomo o la donna forte che decidono qui e ora, insensibili ai controlli, ai riti polverosi della Repubblica e irresponsabili verso qualunque altro contro-potere.
Il tema cruciale, come ai tempi di Berlusconi, è il rispetto del patto che ci lega, cioè dei principi sui quali abbiamo costruito faticosamente la casa comune grazie alla Resistenza antifascista. La democrazia come riconoscimento del limite. Il costituzionalismo come equilibrio e bilanciamento tra i poteri, la triade libertà-uguaglianza-solidarietà (non Dio-patria-famiglia) su cui abbiamo sottoscritto il contratto sociale. In una parola, il liberalismo come valore condiviso.
È qui che bisogna aspettare Meloni, mettendo in fila tutto ciò che lei e il suo governo hanno detto e fatto da tre anni a questa parte. Giovanni Donzelli, Fratello d’Italia accorso insieme ad altri tre ex camerati a versare lacrime di coccodrillo sulla bomba a Sigfrido, ha detto che «questo governo è il miglior presidio della libertà in Italia». Purtroppo risulta il contrario.
Roma, 21 ottobre: una manifestazione per Sigfrido Ranucci
È illiberale il modo in cui la presidente del Consiglio insulta le opposizioni, irride le manifestazioni, sfugge alle domande dei giornalisti. È illiberale il decreto anti-rave, e ancora di più il
decreto sicurezza, che punisce con la galera quattordici nuove fattispecie di reato, sbattendo in cella studenti che occupano un ateneo o ragazzi che manifestano per strada. È illiberale la riforma dell’elezione diretta del premier, che assegna i pieni poteri al primo ministro, riducendo a Re Travicello il presidente della Repubblica e a collegio ancillare la Consulta.
È illiberale la riforma della giustizia, con una separazione delle carriere tra giudici e pm funzionale solo all’obiettivo di riportare la magistratura sotto il tallone della politica. È illiberale l’abolizione dell’abuso d’ufficio, che ridisegna l’ordinamento giudiziario a uso e consumo dei “colletti bianchi”. È illiberale il divieto di pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare, vera “legge-bavaglio” che limita il diritto di informare e di essere informati. È illiberale la gestione della Rai, che sfruttando la dissennata riforma Renzi trasforma il servizio pubblico in struttura servente dell’esecutivo. È illiberale l’ostracizzazione subita da Report e l’umiliazione inflitta a Ranucci, dalla Commissione di vigilanza e dal Garante della privacy.
È illiberale il conflitto di interessi, in capo a un sottosegretario alla Sanità che presiede la lobby delle farmacie e a un senatore che possiede tre gazzette di regime e un impero di cliniche private. È illiberale la flat tax per i lavoratori autonomi, che nega la redistribuzione del reddito a danno dei dipendenti. È illiberale il golden power, brandito come una clava nelle scalate bancarie a vantaggio dei capitalisti amici.
Mi fermo, per carità di patria. Alcuni di questi problemi il Paese se li porta dietro da anni. Il cavaliere di Arcore è stato il proto-populista che ha avviato il processo. Governi, anche di
centrosinistra, non lo hanno arginato: in qualche caso lo hanno persino assecondato. È ovvio che un’opposizione divisa e indecisa tra piazza e palazzo — come esigono i soliti intellettuali terzisti e moderati — debba chiedersi in che Italia pensa di abitare. Ma forse è ancora più urgente che la destra ci spieghi una volta per tutte in che Italia vuole farci vivere. Nei prossimi due anni, e forse anche oltre.
(da Repubblica)
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