LA GIORNALISTA KARIMA MOUAL: “NON MI FATE SENTIRE UN’ITALIANA, AVETE VINTO VOI RAZZISTI, PER ORA”
“HA RAGIONE PAOLA EGONU, NON SIAMO INGRATI, MOLTI NON CI MERITANO”
Lo ammetto, saranno almeno 8 anni che intimamente ci lavoro, ci penso con dolore e profonda sofferenza, ma alla fine mi avete convinta. Avete vinto voi. E credo che sia una consapevolezza di tantissimi come me, figli di immigrati proprio come Paola Egonu.
Mi avete convinta. Non sono italiana. Anzi, non saremo mai italiani abbastanza come voi. I nostri nomi sono troppo stranieri, le nostre facce, i tratti, il colore della pelle, ancor più se è nera, non passa.
Sono ormai adulta e una mamma e forse è giunto il momento di tirare le somme.
Almeno è questa la presa di coscienza di un percorso di una parte della mia generazione arrivata dopo molti anni, dall’infanzia all’età adulta, a inserirsi pienamente nella società italiana, con sacrifici, dedizione e amore, portando successo a se stessa e al Paese in cui è cresciuta, l’Italia.
Mentre scrivo queste parole, mi leggo anche al passato e percepisco l’ingenuità che ho avuto in tutti questi anni pensando di far parte di un «noi», parlando e scrivendo ogni volta di un «noi italiani». In ogni passo, atto d’amore o critica. Rabbia, frustrazione o gioia.
Certo, arrivare a quel «noi» non è stato facile. È stato un crescendo. Eppure, più diventavo e mi sentivo italiana e più qualcuno mi ricordava che non lo ero poi del tutto. Più si costruiva la mia identità, mi appassionavo ed entravo nel profondo del mio sentimento e più arrivava chi mi dava la sveglia: ehi tu, non sei italiana e non sarai mai italiana.
Era un po’ il sapore della stessa sveglia che mi dava mia madre quando per paura di perdermi, perché ero invece troppo italiana per lei in molte mie scelte anche divisive e di ribellione, mi ricordava in modo dispregiativo: ehi tu, tanto per loro sei e sarai solo una marocchina.
Oggi ho la consapevolezza che ho perso. Mia madre non c’è più da qualche anno, ma forse aveva ragione proprio lei, che è insieme le mie radici straniere e la figura che combattevo e sfidavo da adolescente con la mia «italianità».
Perché alla fine hanno vinto coloro che dicono a Paola Egonu che è un’ingrata quando denuncia l’Italia razzista. Hanno vinto loro per ora, perché non sono pochi, e noi siamo sempre più soli, afoni e stanchi.
Hanno vinto coloro che non riescono a capire e accettare chi proprio per amore e frustrazione arriva a fare una denuncia così forte, proprio perché sente di essere tirato fuori con violenza da quel «noi» e quindi grida la propria esasperazione provando a difendere qualcosa che sente suo e della quale viene continuamente depredato, un pezzo alla volta.
«Ingrata che sputa nel piatto dove mangia, nel Paese che l’ha accolta invece di ringraziare». È la sintesi delle accuse a Paola Egonu, identiche a quelle che io stessa ho ricevuto in questi anni per il solo fatto che, come giornalista, partecipo pienamente e animatamente al dibattito politico e sociale di un Paese che ho ingenuamente considerato mio.
Ma non ci siamo solo Paola e io, il problema è che ci saranno decine di migliaia di figli di immigrati, cittadini italiani, che hanno preso coscienza del fatto che in questo Paese sono e saranno sempre cittadini di serie B a cui è negata la critica, perché semmai devono dire solo grazie. Grazie «Badrone».
I figli di immigrati naturalizzati sono una sfida per l’Italia e per l’Europa. Una sfida che ha evidenziato già qualche falla, comprovando che in verità la cittadinanza acquisita non è proprio piena. Volendo allargare lo sguardo, basti pensare alla Francia e alla questione fondamentalismo islamico, che ha messo in discussione anche il tema della cittadinanza da togliere in caso di radicalizzazione jihadista.
Insomma, la questione è molto complessa.
È un esempio che porta una domanda: il cittadino naturalizzato rimane tale solo quando non sbaglia?
Ora, tornando all’attualità di questi giorni, tra tutte le urla contro Paola c’è un titolo che più di tutti racconta una sfida persa dall’Italia ma anche da noi seconda generazione che abbiamo in questi anni creduto di potercela fare. È quello di Libero: «Noi le diamo la maglia azzurra, la Egonu ci dà dei razzisti».
In questa frase c’è tutto il fallimento del significato della parola integrazione che è un percorso da fare in due. Lo straniero e la comunità che lo accoglie. È una frase così razzista, paternalista e classista che servirebbe maggior spazio per scardinarla.
È certamente ingeneroso descrivere l’Italia tutta come razzista, ma purtroppo bisogna avere il coraggio e l’onestà intellettuale di dire che vi è una fetta importante di italiani convintamente conservatori e razzisti, un’altra di italiani semplicemente ignoranti, un’altra ancora di italiani sentimentalmente e culturalmente non pronti a percepire l’altro come parte di un «noi». E infine solo una piccolissima parte, invece, interconnessa con il mondo e in una dimensione che non conosce confini, e quindi senza pregiudizi, che è più accogliente e meno timorosa di vivere il nuovo come parte di uno spazio di crescita da condividere insieme.
Ecco, non basta. La verità che dobbiamo dirci è che oggi l’Italia non è ancora pronta ad accogliere la mia italianità, come quella di tanti altri cittadini che continuano a essere percepiti e raccontati come immigrati per sempre. La nostra storia di crescita e integrazione è un affronto troppo alto ed è per questo che quando denunciamo da dentro il razzismo o facciamo critiche appassionate sul futuro di quello che consideriamo il nostro Paese, ci guardano come marziani o addirittura ingrati. Il concetto di «ingratitudine» è quello che maggiormente viene utilizzato per attaccare chi, figlio di immigrati, osa farsi avanti con una critica, quale che sia. Sembra che la condizione di cittadino immigrato o figlio di immigrato (con cittadinanza italiana) debba escludere qualsiasi critica, denuncia o lamento, perché «è già tanto che l’Italia ci ha accolti». Ora, se non è razzismo questo, che cosa è?
Certo, l’Italia, come ogni Paese in cui si emigra, rappresenta uno spazio di opportunità, ma tale opportunità viene accolta dal migrante che a sua volta produce ricchezza per sé e per il Paese che lo ospita. Usufruisce di diritti ma ha anche dei doveri. Lavora, guadagna ma paga anche le tasse che fanno crescere il Paese ospitante. In estrema sintesi non è un peso morto sulle spalle dei contribuenti italiani, ma è un segmento di crescita che non solo agisce sul nostro Pil, ma anche sulle casse delle nostre stesse pensioni.
Se all’inizio i nostri genitori migranti potevano dire grazie all’Italia per l’opportunità ricevuta, rimboccandosi le maniche e sgobbando come pochi per dare senso alla propria scelta di emigrare, migliorando le proprie condizioni di vita, mi chiedo cosa c’entrino i loro figli nati e cresciuti in Italia, grazie proprio a quel viaggio della speranza dei genitori e ai sacrifici che hanno permesso loro una vita migliore.
Se mio padre Mohamed ringrazia l’«opportunità Italia» per essere arrivato dov’è, io mi sento in dovere di ringraziare soprattutto lui e mia madre Khadija per i tanti sacrifici e la sofferenza che hanno vissuto da stranieri adulti al fine di dare a me l’opportunità di arrivare dove sono, mentre l’Italia diventa naturalmente la mia casa il mio Paese di adozione.
È proprio questo passaggio che manca a una buona parte di questo Paese, il quale sull’integrazione non è cresciuto perché continua a vederci solo come immigrati con il dovere di tenere la testa bassa, di restare zitti e grati.
Ecco, no grazie. A tutti voi che avete questo pensiero dico che continuerò a esservi ingrata, vi confermo che il piatto in cui mangio è quello che mi sono conquistata non certo per vostra pietà o concessione ma per sacrifici miei e dei miei genitori migranti, come il passaporto rosso con scritto cittadinanza italiana, acquisito soddisfacendo i requisiti richiesti.
Dire «sono italiana» difendendo e combattendo per quello che vale questa parola, era una dichiarazione d’amore frutto di una storia e un percorso che in questi anni non è stato riconosciuto e oggi mi sento di dire che non ho più bisogno di avere il vostro patentino di «italianità». Oggi più che mai ho la consapevolezza che non sono io o siamo noi gli ingrati, ma siete voi che non meritate la nostra evoluzione identitaria di nuovi cittadini italiani. Sì, avete vinto voi, ma sappiate che sta perdendo l’Italia.
(da La Stampa)
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