LA LEGA CANDIDA A MILANO GLI AUTISTI DI BOSSI E SALVINI, SI RASCHIA IL FONDO DEL BARILE
IL PINO E L’AURELIO, AUTISTI DI PESO, TRA GARE DI VELOCITA’ E RISSE NEL PARTITO
L’ultima uscita pubblica di Babbini è stata all’Expo, aspettava il presidente russo con un gran
cartello: «Putin save the world».
«Lo amo – confessa senza pudore – soltanto lui può davvero salvare il mondo». Con lo stesso slancio, dichiara il suo disprezzo: «Odio gli autovelox, messi lì a far cassa sulle spalle di noialtri».
La storia inizia lontano, negli anni Sessanta. Diversamente da altri leghisti, Babbini ha un passato politico: era socialista. Craxiano quando Craxi era ancora soltanto consigliere comunale a Milano. Lui, però, oggi rivendica: «La Prima Repubblica l’abbiam fatta cadere noi, altro che Di Pietro».
Soprattutto, Babbini guida. Negli anni Sessanta, si è fatto 130 gare di Formula 3, cinque gran premi a Montecarlo. Nel ’65 corre la Targa Florio: «Sono arrivato 19esimo, ma non me ne dimenticherò mai».
Abbandonati i bolidi, diventa tassista. E vede la luce: Umberto Bossi.
«Non avevo mai sentito un politico parlare così. Dire quelle cose. Mi sono messo a disposizione». Diventa l’autista ufficiale del «Capo» alla vigilia del natale 1990.
L’11 dicembre, Bossi aveva avuto il suo primo infarto e all’uscita dall’ospedale, ad aspettarlo, c’era il Babbini.
Da quel momento, saranno giorni e saranno notti: lui è lì, sempre al fianco del Capo. Rimette a posto con un’occhiataccia gli entusiasti troppo bollenti e, se non basta l’occhiataccia, avanza di un passo: di solito è sufficiente. Nel 1992, Piergianni Prosperini esce dalla Lega. Memorabile il loro pacato confronto in piazza San Babila: volano sganassoni.
Nel 1994 Umberto Bossi vuole candidarlo al Senato, ma lui rifiuta: «Avrebbero detto che era come Caligola che candidava il suo cavallo».
Ma il 16 settembre 1996, lo storico addio. Le strade tra lui e il senatur si dividono, la scorta al Capo non lascia spazio a un’altra vita e forse c’è anche qualche questione economica.
Si ritroveranno 14 anni dopo: «Ci siamo abbracciati».
L’Aurelio è la quintessenza del leghista dell’era classica. La sua passione politica nasce con Bossi, prima di lui nessuno aveva dato rappresentanza a quel sentimento neppure pronunciabile: la Nord-nazione. La Padania.
L’Aurelio è lì, bergamasco come la val Seriana, prelevato dal Capo nel vivaio orobico da cui ha sempre scelto la sua guardia pretoria. Per anni troneggia gigantesco, sempre un passo dietro a Bossi, sempre muto: «Sono un soldato».
Se gli chiedi l’ora, non te la dice. Se la dice, aggiunge il solito: «Guai se lo scrivi».
Il destino, si sa, è beffardo. Dopo la malattia di Bossi, l’Aurelio viene accusato dal cerchio magico di intelligenza con il nemico: avrebbe parlato con i giornalisti.
È il mondo alla rovescia. Ma lui, come un soldato, accetta la fatwa e si fa da parte.
Ma Salvini sa: e infatti, appena eletto segretario lombardo, lo prende come suo autista. Con il «Capitano» non sono soltanto folle festanti.
Quasi ogni giorno, sono contestazioni dure. Imprevedibilmente, lui si dimostra capace di reprimersi.
In politica, inaugura un filone: il candidato che non vuole si parli di lui.
Marco Cremonesi
(da “il Corriere della Sera”)
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