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LA NOTTE CHE USCIMMO DALL’EURO: UN’ANTICIPAZIONE DEL LIBRO DI SERGIO RIZZO

I CAPITALI FUGGONO ALL’ESTERO, I BANCOMAT CHIUDONO, ESPLODE L’INFLAZIONE: PER GUARDARE OLTRE L’ABISSO SUL QUALE IL NOSTRO PAESE SI STA AFFACCIANDO

L’avevano chiamata operazione Morris. Il nome in codice era stato partorito durante una cena nella saletta riservata del ristorante Il Moro, a Roma, cento metri dalla Fontana di Trevi. Il capo sovranista era appena stato nominato presidente del Consiglio e aveva riunito i fedelissimi davanti a un piatto di spaghetti alla carbonara. E non ci poteva essere pietanza più adatta per quella cena. Che aveva tutte le caratteristiche, appunto, di un vertice della carboneria.
Quattro persone stavano decidendo in gran segreto il futuro del paese. Davanti al premier era seduto il suo vice nel partito: gli altri due lati del tavolo erano occupati dal tesoriere e da Piero. La presenza di un sottosegretario allo Sviluppo economico delegato alle relazioni con Putin e i paesi del blocco di Visegrà¡d in quel consesso si spiegava con il rapporto, strettissimo, che lo legava da tempo al capo. Non c’era decisione politica importante che per ragioni forse imperscrutabili non venisse condivisa con lui. Di sicuro, il capo si fidava ciecamente di Piero. O Piotr, come era solito chiamarlo.
E fu proprio Piero-Piotr a suggerire il nome in codice per l’uscita dall’euro. Era fissato con un film, che avrebbe potuto rivedere in continuazione senza mai stancarsi. Un film del regista americano Don Siegel: Fuga da Alcatraz. Ispirato a un fatto realmente accaduto, raccontava l’evasione rocambolesca dal penitenziario su un’isoletta nella baia di San Francisco di un detenuto condannato per vari crimini fra cui rapina a mano armata. Si chiamava Frank Morris e nel film veniva interpretato da Clint Eastwood. L’evasione di Morris fu l’unica riuscita fra le innumerevoli tentate nei trent’anni durante i quali Alcatraz era stato adibito a carcere di massima sicurezza. Dell’evaso e dei due fratelli che lo accompagnarono nella fuga si persero le tracce, e nove mesi dopo il penitenziario venne definitivamente chiuso.
Una metafora cristallina, disse Piero ai commensali, di quello che si stava progettando. Come l’evasione, con successo, di Frank Morris da Alcatraz aveva provocato la chiusura di quella prigione, così la fuga dell’Italia dall’euro avrebbe causato la dissoluzione del carcere europeo nel quale erano ingabbiati i popoli del Vecchio continente. Il volto del capo si illuminò. Il decreto di nomina del Comitato per il Risorgimento monetario fu secretato e dunque non venne pubblicato sulla Gazzetta ufficiale. I suoi componenti erano tenuti al riserbo più assoluto. Come deterrente era stata inserita un’apposita norma che prevedeva l’arresto immediato per chi avesse violato anche solo con il pensiero la consegna della riservatezza. Il premier avrebbe avuto anche il potere di disporre intercettazioni telefoniche e ambientali nei confronti dei componenti del Comitato e dei loro familiari, se questo fosse stato ritenuto necessario a tutelare maggiormente la segretezza.
Il provvedimento divenne operativo alle ore 00.00 di lunedì 28 dicembre 2019.
Il testo fu consegnato simultaneamente pochi minuti prima della mezzanotte del 27 ai componenti del Comitato. Il più sorpreso fu il governatore della Banca d’Italia, che dovette comunque attendere fino al pomeriggio del giorno seguente per parlare con il capo sovranista. La faccenda era davvero seria, molto più seria di quanto chiunque potesse immaginare.
La Banca centrale sarebbe stata immediatamente investita da un terremoto di inaudita potenza. Tutti gli esperti concordavano sul fatto che il presupposto per l’uscita dalla moneta unica era la nazionalizzazione della Banca d’Italia e la cessazione della sua indipendenza dal governo. Per il semplice motivo che avrebbe dovuto far fronte alla prevedibile e subitanea carenza di liquidità  del sistema allagando le banche con Lire Nuove. La nazionalizzazione, inoltre, sarebbe scattata l’ultimo giorno dell’anno per una ragione ulteriore.
Le stime più attendibili attribuivano alla Banca d’Italia un valore di circa 7 miliardi di euro. E siccome le azioni erano nelle mani dei principali istituti di credito nazionali, lo Stato avrebbe dovuto acquistarle versando loro quella cifra, che sarebbe stata una bella boccata d’ossigeno per i bilanci messi a dura prova dalle svalutazioni dei titoli pubblici che le banche avevano in pancia. Ma sempre a patto che l’acquisto fosse concluso entro il 31 dicembre. Al telefono con il presidente del Consiglio il governatore era livido di rabbia: “Non capisco, presidente. Spero vi rendiate conto delle conseguenze. Questo è il suicidio del paese”.
La risposta fu raggelante: “La pensi come crede, non m’interessa. Immaginavo che non le sarebbe andata giù. Ma non è una decisione che spetta a lei”. “Lo so bene. Se mi permette, avrei potuto essere consultato prima. Era un vostro preciso dovere, e non soltanto per rispetto istituzionale.” “Non c’è niente da permettere. L’opinione sua o della Banca d’Italia non ci avrebbe fatto cambiare idea.”
“Ma la Banca d’Italia avrebbe avuto l’opportunità  di spiegarvi in quale guaio state per cacciare il paese…” “Intanto cominciamo a cacciare lei. Aspetto la sua lettera di dimissioni immediatamente. E le ricordo che le norme sulla riservatezza con le relative sanzioni penali riguardano pure chi rassegna le dimissioni perchè in disaccordo con il break up. Articolo 6, la formulazione è sufficientemente precisa. Lo tenga bene a mente, e lo ripassi se necessario.” “Non c’è problema. Non vorrei comunque portare la responsabilità  di quello che accadrà .” “Sono d’accordo, caro governatore. Lei è stato complice della sottomissione del popolo italiano alla finanza che lo ha dato in pasto alla povertà  e al precariato. E ai complici di Soros e soci non riconosciamo il diritto di partecipare alla liberazione da questa oppressione che dura da un ventennio. Perchè questo è ciò che accadrà , garantisco.”
“Li avete letti bene i trattati? Li avete letti con attenzione prima di intraprendere questa strada? Non pare proprio… Perchè altrimenti avreste scoperto che l’uscita dalla moneta unica non è soltanto il ritorno alla lira. Ma comporta automaticamente l’uscita anche dall’Unione europea. Significa essere espulsi dal mercato unico e da tutti gli accordi di cooperazione, e questo comporterebbe che le nostre imprese sarebbero colpite da dazi commerciali pesantissimi. Perciò si illude chi pensa di tornare alla lira per poter svalutare a proprio piacimento e recuperare, abbassando il prezzo dei prodotti, la competitività  che le imprese italiane avrebbero perduto con il risultato di avere un boom delle esportazioni. Il calo dei nostri prezzi sarebbe annullato dalle tasse doganali che ci verrebbero imposte, e non servirebbe assolutamente a nulla. Comprendo che per chi non ha dimestichezza con i trattati internazionali la loro lettura possa risultare noiosa, anche se mi pare che lei, presidente, sia stato parlamentare europeo e dunque i trattati dovrebbe conoscerli nei dettagli. Potrei comunque consigliarle la lettura, sia chiaro a tempo perso, di un breve documento di un professore che dirige la Scuola di politica economica europea dell’università  e da anni studia la questione. Lì dentro, in parole semplici e comprensibili, c’è scritto tutto. C’è scritto che saremmo costretti a continue svalutazioni con l’inflazione che divorerebbe il potere d’acquisto delle famiglie. C’è scritto che saremmo condannati al protezionismo e verremmo espulsi dalle economie avanzate. C’è scritto che il governo e le imprese non potrebbero far fronte ai debiti contratti in euro con una moneta enormemente svalutata e si dovrebbero dichiarare insolventi sui mercati internazionali. A quel punto le nostre imprese più forti sarebbero spinte a trasferirsi all’estero…”
“Quando tutto verrà  giù, quella non servirà  a niente. Dovrete fare un decreto non per multare chi delocalizza, ma per vietare del tutto i trasferimenti, pena il carcere. Il che non potrà  impedire fallimenti a catena, soprattutto delle imprese più piccole e fragili.” Al presidente del Consiglio sfuggì una risata: “Lo sa perchè rido? Lei, mi fa ridere. Evidentemente non conosce la forza delle nostre imprese, e fa anche il governatore della Banca d’Italia. Le piccole e medie aziende sono fatte da gente che lavora fino a mezzanotte e si sveglia alle cinque del mattino. Sono il nerbo del paese e hanno una vitalità  sorprendente. Hanno passato momenti che lei non s’immagina…”
“Niente al confronto di quello che capiterà ,” sbuffò il governatore. E continuò: “La disoccupazione andrà    a livelli mai visti. Sarete costretti a fare i salvataggi con i denari dei contribuenti, la spesa pubblica esploderà . Quindi dovrete aumentare la pressione fiscale e i tassi d’interesse andranno alle stelle per piazzare il debito pubblico che somiglierà  sempre di più alla carta straccia. I mutui torneranno a essere carissimi e chi li ha stipulati con una banca estera, e sono tantissime famiglie, questo lo può facilmente verificare, non potrà  pagare le rate con le lire ma dovrà  continuare a farlo in euro. E ciò sarà  insostenibile. Quelle famiglie si sveneranno, molte perderanno la casa. Succederebbe come in Argentina. È questo ciò che volete?”.
“Al contrario di voi, noi vogliamo solo il bene del popolo italiano. La saluto, e si ricordi le dimissioni. Entro oggi.”
La lettera del governatore della Banca d’Italia arrivò due ore più tardi. Appena due righe. Ma nella busta c’era anche un documento di sei pagine in inglese, dal titolo: The frying pan burns less than the fire. Why Italy should not go out of the euro. “La padella brucia meno della brace. Perchè l’Italia non deve uscite dall’euro.” Autore, il direttore della scuola di politica economica.
Il presidente del Consiglio lo scorse distratto, poi lo accartocciò rabbiosamente e lo gettò nel cestino.

(da “La Repubblica”)

This entry was posted on giovedì, Settembre 6th, 2018 at 08:57 and is filed under Europa. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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