LA STRANA FINE DEGLI EX MANICOMI: CHIUSI, VENDUTI, INUTILIZZATI
NEL 1996, A 20 ANNI DALLA RIFORMA PSICHIATRICA, C’ERANO ANCORA 63 STRUTURE APERTE E 17.000 INTERNATI… VERIFICATE OGGI 82 STRUTTURE, SI SCOPRE CHE MOLTE SONO INUTILIZZATE O CHE I RICAVI DI QUELLE VENDUTE HANNO PRESO ALTRE STRADE
Che fine hanno fatto i soldi dopo la vendita o l’affitto dell’immenso patrimonio edilizio costituito dagli ex ospedali psichiatrici?
La Commissione d’inchiesta del Senato sulla sanità pubblica, presieduta da Ignazio Marino, ha sguinzagliato i Nas in giro per la penisola.
I carabinieri hanno visitato 82 strutture.
Ecco il risultato.
Primo dato, i vecchi manicomi non esistono più.
A distanza di 34 anni dall’approvazione della legge Basaglia è già qualcosa.
Ma ci sono molte situazioni poco chiare.
Si legge dalla relazione dei Nas: “Gli ambienti sono stati per lo più ristrutturati e riutilizzati dalle Asl anche per l’assistenza e cura dei malati psichiatrici. Dati in comodato d’uso gratuito. Dismessi e non utilizzati. Venduti o locati in tutto o in parte a Comuni, Università o privati e i relativi ricavi utilizzati anche per la creazione di strutture destinate ai malati psichiatrici”.
Ma i soldi?
“Le somme derivate dalle vendite o locazioni, a volte, sono state versate direttamente nelle casse regionali, rendendo difficile una ricostruzione dettagliata del loro successivo utilizzo”.
Secondo gli ultimi dati a disposizione del ministero della Salute che si riferiscono al 2009 il sistema di assistenza è diviso in due settori.
L’attività residenziale, vale a dire comunità terapeutiche e case famiglia, dove i ricoverati vengono seguiti da uno staff di psichiatri e di personale infermieristico. Il ricovero in comunità terapeutica non può superare i 2 anni ed il numero massimo degli assistiti è di 20 persone.
Alcuni numeri: 1.679 strutture, 19.299 posti, 30.375 utenti. L’attività semiresidenziale è gestita dai centri diurni dove il paziente va la mattina e la sera torna a casa. I numeri: 763 strutture, 12.835 posti, 32.030 assistiti.
L’assistenza residenziale, quella dove il malato vive, nasconde spesso nelle strutture private convenzionate una riproduzione del vecchio manicomio.
Non sempre le Asl sono in grado di effettuare controlli continui e stringenti. In molte strutture private convenzionate, guarda il Don Uva di Bisceglie, il manicomio è chiuso ma la comunità di recupero usa gli stessi metodi del passato.
La relazione dei Nas descrive una situazione che appare piuttosto lontana dai dettami della più recente normativa.
Perchè il decreto firmato nel 1996 dall’allora ministro della Sanità Rosy Bindi parla chiaro: “I beni mobili e immobili degli ospedali psichiatrici dismessi sono destinati alla produzione di reddito, attraverso la vendita o l’affitto, e i soldi destinati all’attuazione del progetto obiettivo Tutela della salute mentale”.
Ma non basta. “Le Regioni hanno due anni di tempo per chiudere i manicomi e realizzare centri diurni e case alloggio. Per quelle che non rispetteranno la legge sono previste le sanzioni: una riduzione dello 0.50 per cento del fondo sanitario regionale. A partire dal 1998 il taglio salirà al 2 per cento”.
Perchè l’ultimatum. Perchè, con loro grande sorpresa, gli ispettori del ministero, nel ’96, avevano scoperto che gli “internati” erano ancora 17.068: 11.882 rinchiusi in 63 ospedali psichiatrici pubblici e 5.186 in 13 strutture private.
Niente a che vedere con i 102.300 ricoverati nel 1956 ed i 78.538 “matti da slegare” nel 1978, anno in cui venne approvata la legge Basaglia.
Oggi, in base ai dati di cui sopra, i manicomi non esistono più e i circa 60 mila pazienti psichiatrici sono gestiti, appunto, attraverso le strutture residenziali e semiresidenziali pubbliche e private.
Ma torniamo all’indagine dei Nas e proviamo a vedere se e in che misura la normativa è stata rispettata: se, cioè, le strutture chiuse sono utilizzate per “produrre reddito” a favore del “Progetto obiettivo Tutela della salute mentale”.
Partiamo da Reggio Calabria.
La Provincia ha ceduto a titolo gratuito ai Carabinieri l’ospedale psichiatrico del Rione Modena. L’Arma ha ringraziato per il regalo e ha trasformato la struttura nella Scuola Allievi.
A Napoli l’ex ospedale psichiatrico di via Liveri è chiuso e inutilizzato, stessa sorte per quello il “Leonardo Bianchi” di Capodichino.
Passiamo in Toscana. A Pistoia l’ospedale psichiatrico “Ville Sbertoli” ha chiuso i battenti nel 1996 e non li ha più riaperti. Stessa fine per l’ex convento dei domenicani di Colorno, in quel di Parma.
In Liguria, si sa, stanno più attenti ai soldi e la Regione ha venduto l’ex di Cogoleto alla Fintecna Immobiliare e alla Valcomp per 13 milioni e 648 mila euro.
Sono serviti per la salute mentale? Neanche per idea. Sono serviti per il ripiano del disavanzo sanitario regionale.
Stessa fine dovrebbe fare lo storico “presidio sanitario per la tutela della salute mentale” di Quarto Genova. Ma c’è un intoppo.
Nella struttura vivono ancora 80 “cronici”, la Regione ha già cartolarizzato l’immobile, valore 16 milioni e 206 mila euro, acquirenti le stesse società di Cogoleto. E con i malati dentro nessuno si sogna di sborsare i soldi.
E allora la Regione ha pensato bene di lanciare un’asta pubblica: quattro residenze sanitarie assistenziali con un’offerta al massimo ribasso. Vale a dire, chiunque siate offrite due soldi e portateveli via.
La mossa della Regione ha mobilitato familiari e personale del “Quarto” e per il momento è tutto fermo. Ovviamente, se la situazione si dovesse sbloccare i soldi andrebbero a coprire il buco del disavanzo sanitario.
E per chiudere in bellezza andiamo in Puglia, a Bisceglie. Lì campeggia l’ex ospedale psichiatrico “Don Uva”, gestito dalle Ancelle della Divina Provvidenza.
Un mostro fronte mare che negli anni ’90 accoglieva più di 2 mila ospiti. Nel ’98 si erano ridotti a poco più di mille ma l’atmosfera non era proprio salubre: malati che si genuflettevano al passaggio del direttore, mentre i più audaci gli baciavano la mano: personale scarso, terapie immaginarie, molti decessi sospetti.
Oggi la struttura si è rinnovata ma il tempo delle “vacche grasse” è finito, così le Ancelle hanno deciso di chiedere la cassa integrazione a zero ore per i dipendenti.
Mario Reggio
(da “La Repubblica”)
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