LASCIAMO SOLA L’UNGHERIA
IL FILO DELLA SOLIDARIETA’ CONTRO IL FILO SPINATO
E se fossimo noi a voltare le spalle all’Ungheria?
Noi ceto medio viaggiante con biglietti vidimati, titolari di indirizzi autentici, di carte di credito ancora buone e di vite non del tutto a debito.
Noi a rifiutarci di oltrepassare i confini della bella e triste Ungheria che da molti mesi guida il fronte del rifiuto della Est Europa, arma i presidi di Horgos e il valico di Roske, innalza l’indecente spettacolo del muro.
Lo moltiplica (da ieri) lungo il confine con la Croazia, all’altezza di Gole.
Ne fa una formidabile arma offensiva camuffandola da scudo che difende.
Essere noi a imporci per libera scelta di non oltrepassare quei confini fino a quando saranno preclusi in quel modo al passaggio dei migranti che fuggono da guerre, quasi tutte di nostra lungimirante fabbricazione.
Opponendo al filo spinato srotolato dal signor Viktor Orbà¡n lungo il perimetro della sua propaganda, il nostro filo, tessuto con una certa affilata fermezza.
Anche solo per segnalarci indisponibili ad assecondare quella onda crescente di populismo e frustrazione che in questi anni di crisi economica lo ha incoronato leader di un regime nazionalista, di una società spaventata che ora pretende di chiudersi al mondo che si apre. Farlo per dignità o anche solo buon gusto.
Rinunciando — a nome dei migranti respinti con i lacrimogeni, i gas urticanti, i manganelli, i cannoni ad acqua — alla concava Budapest, perla del Danubio, ai suoi caffè ancien règime, al suo castello di incanti, ai suoi ponti di pregevole e multiculturale fattura, alle sue acque termali che scorrendo da gran tempo sanno di quante migrazioni sia frutto quella terra, dai mongoli agli ottomani, agli austriaci dell’impero che l’hanno fatta grande di storia, musica, architetture e poi piegata con il ferro dei carri sovietici nel dopo Yalta.
Imprigionandola per l’intera stagione dei piani quinquennali dal cui disastro l’abbiamo estratta nel favoloso anno 1989, trovandola con i negozi vuoti, la polvere del tempo sparsa ovunque, le pezze al culo, ma una voglia di vivere e di ridere che era contagiosa.
E che chiedeva di riprendersi il tempo. Di rimettersi in cammino, proprio come fanno i migranti di oggi, di ieri, di sempre, che sono i veri ingranaggi che muovono la Storia, altro che muri.
Ed erano loro, i nuovi ungheresi della vecchia Ungheria, a offrici abbracci e gratitudine per quel confine che andava in pezzi e li annetteva all’Occidente. Pacificamente.
Con tutto il campionario del beato consumismo che avevamo da offrire, dai Centri commerciali con vista sul futuro, fino a una manciata di valori ereditati dal passato e non del tutto ornamentali, come la tolleranza, o la libertà di fabbricarsi la vita con le proprie mani, se non addirittura con i propri piedi, mettendosi in viaggio verso altre culture.
È triste vedere quei giorni allegri (quando lo slogan dei giovani ungheresi che violavano di notte la Cortina di ferro era: “Scavalcate i muri!”) dissipati in questa quotidiana sequenza di assedi a moltitudini di disperati con le braccia alzate.
E drappelli neri d’ordine pubblico schierati “in difesa della sicurezza nazionale”, della “civiltà cristiana magiara”, con i cani al guinzaglio e i 175 chilometri di filo spinato che in realtà sono 175 chilometri di rulli di cavi zincati disseminati di lame d’acciaio ad “alta capacità dissuasiva” in grado di imprimere ferite profonde a chi ci finisce dentro.
E ascoltare perpetui allarmi governativi di imminente invasione musulmana o anche solo stracciona per rastrellare paure e voti, ancorandosi alla stessa idea di muro che per tanti decenni li ha imprigionati.
Voltando il regime di allora in questa “democrazia illiberale”, come la chiama lo stesso Orbà¡n, andandone fiero.
Pino Corrias
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