“LE FAMIGLIE ISTRIANE, FIUMANE E DALMATE HANNO PAGATO PER TUTTI GLI ITALIANI IL PREZZO DELLA GUERRA PERDUTA”: LO STORICO GIANNI OLIVA SPIEGA IL SENSO DELLA MOSTRA PERMANENTE CHE SI APRE AL VITTORIANO DI ROMA, DEDICATA ALL’ESODO GIULIANO-DALMATA ALLA FINE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE, IMPOSTO DAI COMUNISTI DI TITO DOPO CHE I TERRITORI DI CONFINE DELL’ISTRIA E DELLA DALMAZIA FURONO ASSEGNATI ALLA JUGOSLAVIA
“NON APRIRA’ LA STRADA A UNA MEMORIA CONDIVISA. MA ESISTONO LE ‘MEMORIE RICONOSCIUTE’, CHE PORTANO I POPOLI A GUARDARE ALLA PROPRIA STORIA RICONOSCENDOLE VERGOGNE SUBITE E I TORTI INFLITTI”
Una mostra permanente sull’esodo degli istriani, fiumani e dalmati, ospitata a Roma nel luogo più simbolico della memoria nazionale, il Vittoriano: ciò che viene inaugurata domani alle 18.30 è un’iniziativa che va ben oltre il significato museale e che coinvolge la consapevolezza collettiva della nostra storia.
“Foibe” ed “esodo” sono stati per decenni argomenti indicibili: per la sinistra togliattiana erano imbarazzanti perché evidenziavano le compromissioni accettate in nome dell’internazionalismo comunista; per l’Italia tutta, che nel 1945 si era raccontata come un Paese vincitore finalmente liberato dal giogo del fascismo, erano scomodi perché smentivano la narrazione autoassolutoria
Il paradosso era che a parlare di foibe fossero solo i nostalgici del Movimento sociale, cioè l’organizzazione politica che si richiamava al regime che stava all’origine del dramma stesso (se non ci fosse stata la guerra fascista di Mussolini del 1940, non ci sarebbero neppure stati il comunismo di Tito dall’altra parte e i nuovi confini del 1947).
La decisione presa dal Parlamento quasi all’unanimità nel 2004, istituendo la Giornata del ricordo del 10 febbraio, ha sdoganato il tema delle foibe e dell’esodo istriano-dalmata, ma questa mostra
permanente aggiunge un tassello nuovo.
La vicenda dell’esodo è infatti inserita in una prospettiva di lungo periodo e ciò che accade a partire dalla primavera 1945 è contestualizzato nella realtà complessa di un’area di “frontiera”, dove coesistono popoli di lingua, nazionalità, cultura differente (italiani, sloveni, croati). Sviluppare il racconto dell’esodo a partire dall’arrivo a Trieste delle armate partigiane jugoslave del maresciallo Tito, non avrebbe aiutato a comprendere.
Nella storia non si capisce mai ciò che accade oggi se non si conosce ciò che è accaduto ieri: e, nel contempo, non bisogna mai usare ciò che è accaduto ieri per giustificare ciò che accade oggi
Di qui la chiave di lettura del percorso espositivo, ospitato nella Sala del Grottone e curato dall’architetto Massimiliano Tita: fotografie, postazioni multimediali, pannelli esplicativi, testimonianze, per raccontare la storia di una terra multietnica, dove gruppi nazionali diversi hanno convissuto e collaborato, spesso rimescolandosi tra loro con i matrimoni misti, sino a quando la prepotenza dei nazionalismi li ha contrapposti e travolti.
Quando quelle terre vengono assegnate alla Jugoslavia, centinaia di migliaia di italiani pensano che per loro, da quella parte del confine, non ci sia più futuro e iniziano un esodo che nel corso di circa un decennio ridimensiona la presenza italiana.
Come ha scritto lo scrittore istriano Fulvio Tomizza, «uno dopo l’altro, se ne andarono tutti: alla fine rimasero soltanto coloro che erano così miseri da non potere nemmeno portarsi via la propria miseria».
Una domanda è d’obbligo: la mostra (che sarà inaugurata dal ministro della Cultura Giuli) apre la strada ad una memoria condivisa tra nazioni che ormai hanno casa comune nell’Unione Europea? Probabilmente no: le memorie condivise non esistono, ogni popolo ha, giustamente, la propria.
Ma esistono le “memorie riconosciute”, quelle che portano i popoli a guardare alla propria storia riconoscendo insieme le vergogne subite e i torti inflitti.
È il messaggio proposto nel 2010 dai presidenti Giorgio Napolitano, Danilo Turk (Slovenia) e Ivo Josipovic (Croazia) quando a Trieste hanno ascoltato insieme il Concerto della pace, con una grande orchestra di giovani italiani sloveni e croati diretta da Riccardo Muti; è il messaggio che nel 2020 hanno riproposto Sergio Mattarella e Borut Pahor, tenendosi per mano prima davanti alla foiba di Basovizza, poi di fronte alla croce che ricorda quattro antifascisti sloveni uccisi nel Ventennio.
La mostra permanente è stata concepita con questo spirito:
ricordare l’esodo di tante famiglie istriane, fiumane e dalmate che hanno pagato per tutti gli italiani il prezzo della guerra perduta, e inserire quel sacrificio in un quadro di lungo periodo perché si comprenda davvero ciò che è accaduto. Una mostra che non guarda al passato per alimentare revanscismi, ma per aiutare ad andare avanti meglio.
(da “La Stampa”)
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