L’ESERCITO DEGLI ADOTTATI NEGLI STATI UNITI ALLA RICERCA DELLA CITTADINANZA ITALIANA
UOMINI E DONNE CON PASSAPORTO AMERICANO RIVENDICANO LE PROPRIE ORIGINI: UN NOSTRO DIRITTO
La vendetta dello ius soli ha i volti e i nomi degli italiani di ritorno, centinaia di uomini e donne con passaporto americano ma sangue e luogo di nascita tra la Val d’Aosta e la Sicilia.
Dopo anni hanno deciso di riconquistare a ogni costo un pezzo del loro passato e rivendicare il diritto di essere italiani come sono nati, e molti di loro anche cresciuti. Mentre la politica discute e si scontra sullo ius soli senza trovare un accordo, da un angolo di passato riemerge la storia dimenticata di uno dei più imponenti casi di adozione di massa per l’Italia: avvenne tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta e coinvolse almeno 3700 bambini.
Erano figli non riconosciuti, ma anche piccoli sottratti con l’inganno a genitori che speravano di poterli rivedere prima o poi.
Erano il frutto amaro di un’Italia che iniziava appena a liberarsi dalle macerie e dalla povertà della seconda guerra mondiale, ma era ancora lontana dal benessere diffuso degli anni successivi. I bambini venivano mandati negli Stati Uniti seguendo percorsi ai limiti della legalità , a volte anche del tutto illegittimi.
Il traffico andò avanti indisturbato sino alla fine degli anni Cinquanta, quando esplose lo scandalo dei bambini deportati negli Stati Uniti. Il caso finì in Parlamento e il ministero degli Esteri dovette correre ai ripari, assicurando che da quel momento in poi le adozioni avrebbero seguito regole precise e che comunque i consolati italiani avrebbero seguito le pratiche di tutti gli orfani fino alla maggiore età .
A sessant’anni di distanza i bambini sono ormai anziani, ma delle promesse di prendersi cura dei loro percorsi si è persa traccia.
Chi va in consolato a chiedere di ripercorrere il cammino a ritroso per ritrovare le origini si vede chiudere le porte o al massimo incontra una gran confusione.
Alla richiesta di accedere ai dati biologici per dimostrare di avere diritto alla cittadinanza spesso non ci sono risposte o al massimo ci si scontra con muri di gomma.
La battaglia
È iniziata così la battaglia di questo gruppo di italiani di ritorno rappresentati dall’associazione Italiadoption guidata da John Pierre Battersby Campitelli.
«Dove sono finiti i 3700 italiani adottati negli Usa? Stiamo iniziando il puntiglioso lavoro di ricostruire la diaspora e di documentare le storie di ciascuno di loro», spiega.
Gli obiettivi sono due: «Vogliamo ottenere il dirittoalleorigini senza discriminazioni di nessun genere (anche per i residenti all’estero) e vogliamo il riconoscimento della doppia cittadinanza per tutti i figli della diaspora senza lungaggini burocratiche».
Le armi a loro disposizione per vincere la battaglia sono molte.
Potrebbero approfittare della caduta del segreto sulle origini avvenuta dopo le sentenze della Corte Costituzionale e della Cassazione, ma si tratta di un percorso lungo e costoso: la solita burocrazia italiana prevede che si vada in Italia a fare richiesta.
In alternativa si stanno procurando le prove che i minori emigravano solo con il consenso dei consolati e che quindi ora i consoli non possono far finta di nulla.
«Dai documenti dell’epoca risulta che il Consolato doveva informare il Ministero degli Esteri sulla situazione morale, religiosa e economica della famiglia adottiva. Il minore italiano emigrava solo con il loro consenso e doveva essere registrato nell’anagrafe consolare e seguito nel suo inserimento nella famiglia adottiva americana fino al compimento dei 18 anni. La cittadinanza italiana, quindi, era conservata nonostante fossimo poi naturalizzati come cittadini americani da minorenni», spiega il presidente di Italiadoption.
Le richieste di tornare a essere cittadini italiani, quindi, stanno aumentando.
E la questione sta per essere inserita in un’interrogazione parlamentare.
A firmarla sarà l’onorevole Fucsia Nissoli che ad agosto ha anche provato a scrivere all’ambasciatore italiano negli Stati Uniti chiedendogli di «intervenire per predisporre una procedura valida per tutti i consolati italiani in Usa».
Per ora, il ministero degli Esteri si è limitato a rispondere ufficialmente che: «L’Ambasciata d’Italia a Washington, in stretto coordinamento con i Consolati interessati e con le competenti istanze italiane, sta seguendo alcuni casi segnalati dall’Associazione Italiadoption. Ogni caso presenta profili diversi ed è diverso dagli altri». Non è la risposta che si aspettavano, ma la battaglia degli italiani che vogliono tornare a essere italiani è appena agli inizi.
Richiamato per la leva in Italia non aveva neppure i documenti
Ha scoperto a un certo punto di dover fare il soldato in Italia, ma intanto non era riuscito a ottenere il passaporto, perchè ufficialmente non era cittadino italiano e ha vissuto per anni da straniero nel Paese in cui era nato e in cui avrebbe dovuto avere tutti i diritti.
È la vita a sorpresa di John Pierre Battersby Campitelli, ingegnere che lavora all’Ibm vicino Milano dopo aver girato mezzo mondo e soprattutto dopo essere nato in Italia e adottato da una famiglia americana.
«I problemi sono nati quando i miei genitori adottivi americani hanno scoperto che la mia adozione a New York non era stata trascritta all’anagrafe a Torino, perciò per l’Italia ero rimasto Piero Davi», racconta John Pierre.
Da lì sono nate situazioni paradossali.
«Quando sono rientrato in Italia nel ’69 con i miei genitori adottivi, per iscrivermi alle elementari i miei hanno dovuto presentare il mio certificato di nascita. Ed è scoppiato il bubbone. Un John Pierre Campitelli nato il 23 settembre ’63 non esisteva all’anagrafe». Un avvocato risolse la faccenda. Poi tornò negli Stati Uniti e tutto andò bene fino al 1986 quando si trasferì di nuovo in Italia per un anno di studi scoprendo di essere ricercato come renitente alla leva.
Un’altra battaglia per dimostrare di essere già iscritto alla Selective Service System delle forze armate americane. Però «se mi cercavano per fare il servizio militare allora ero considerato ancora cittadino italiano a tutti gli effetti. Alla fine ha preso la cittadinanza attraverso la famiglia di suo padre, ma «sarebbe bastato che il consolato italiano riconoscesse il mio status e mi rilasciasse il passaporto. Ora mi batto affinchè chi desidera la doppia cittadinanza la possano ottenere con una semplice iscrizione all’Aire».
Nato a Torino nel 1964 respinto due volte dal consolato
Chris Emery è un produttore di film americano. È famoso soprattutto per essere l’autore di una delle tante ricostruzioni complottiste della tragedia dell’11 settembre.
Ma dietro quel Chris Emery c’è Sergio Petroselli, nato a Torino nel 1964, da una donna che non aveva potuto riconoscerlo.
E visto che non vollero riconoscerlo, diventò uno dei tanti italiani adottati da una famiglia americana, gli Emery.
Soltanto qualche mese fa è riuscito a scoprire l’identità della madre, una donna della Val di Susa e a ritrovare un pezzo della sua famiglia che nulla sapeva di lui.
A questo punto Chris ha deciso di andare fino in fondo e di diventare cittadino italiano. «Ho chiesto due volte la cittadinanza al consolato italiano di Miami.
Entrambe le volte ho ottenuto un rifiuto. Ho parlato con una donna che si chiama Angelica, mi ha risposto di attendere istruzioni dall’ambasciata italiana a Washington. Ma l’amabasciata attende istruzioni dal governo italiano», racconta.
È entrato in contatto con l’associazione Italiadoption. È andato a Torino con John Pierre Battersby Campitelli a parlare con l’anagrafe. Ora sta aspettando di avere via email il certificato di nascita dove è registrata ufficialmente l’adozione con un’annotazione a margine.
Dal punto di vista di Chris Emery il certificato è l’ultima tappa della sua battaglia. «Quando lo avrò, andrò di nuovo al Consolato di Miami, ma stavolta non potranno rifiutarmi la cittadinanza. Quel documento rappresenta la prova inconfutabile che sono cittadino italiano con pieni diritti. Ci sono quattro impiegati che hanno confermato ufficialmente la mia nascita e la mia cittadinanza».
(da “La Stampa”)
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