L’EUROPA STENTA A TROVARE SPAZIO FRA I TRE MONDI DELLA POLITICA ESTERA TRUMPIANA: MEDIO ORIENTE, ASIA, AMERICHE
GLI USA DI TRUMP SI PROIETTANO DOVE CI SONO AFFARI DA FARE E SOLDI DA GUADAGNARE (ANCHE IN FAMIGLIA), POCHI DA NOI, CHE PER SOSTENERE KIEV NON ABBIAMO DI MEGLIO CHE INDEBITARCI
Dopo le ovazioni in Medio Oriente, il Presidente americano riscuote i plausi asiatici mentre
minaccia nemici e premia amici nelle Americhe. L’Europa resta periferica, fonte di problemi intrattabili.
L’Internazionale Trump vola invece sulle ali del successo. “The Donald” si attende ora di coronarlo nell’incontro bilaterale con Xi Jinping a Seoul giovedì, ultima tappa asiatica, a margine del vertice Apec.
Un’intesa con Xi Jinping chiuderebbe il cerchio che ha visto Donald Trump indiscusso protagonista mondiale in appena nove mesi di seconda presidenza. Manca ancora, almeno per ora, la sfuggente pace fra Russia e Ucraina.
L’Europa stenta a trovare spazio fra i tre mondi della politica estera di trumpiana: Medio Oriente, Asia, Americhe. Gli Usa di Donald Trump si proiettano dove ci sono affari da fare e soldi da
guadagnare (anche in famiglia) – pochi da noi, che per sostenere Kiev non abbiamo di meglio che indebitarci (ulteriormente).
La politica estera di Donald Trump continua, e continuerà, ad essere dominata dall’istinto e dalla versatilità di posizionamenti, vedi altalena (non finita) con Vladimir Putin. Tuttavia, emerge ormai la visione di dove vuole arrivare e di come: premiando l’efficacia sull’ortodossia.
Trump parte accantonando per ora Ucraina e dialogo con Putin ma si ferma nel Golfo. In Qatar, con l’Emiro Al-Thani che gli rende visita sull’Air Force One, Trump da un doppio segnale: di voler puntellare il suo intero piano di pace, non solo il cessate il fuoco a Gaza; di privilegiare il Golfo e, in particolare Doha.
Perché il Qatar gli ha regalato il prossimo Air Force One o perché è l’attore che ha più influenza su Hamas? Comunque, Gerusalemme è avvertita. Gli Usa hanno anche altri amici nel quartiere.
Nelle capitali asiatiche, prese nella morsa Cina-Usa, Trump consolida le posizioni americane nei confronti di quelle di Pechino con qualche ramoscello d’olivo commerciale, incassa la mediazione di un’altra “pace” (Thailandia e Cambogia) a fini Nobel 2026 e, con grande tempismo, stabilisce subito un rapporto diretto con la nuova premier giapponese Sanae Takaichi, fresca di nomina.
Di qui Trump passerà all’appuntamento più importante, con il Presidente cinese, da cui dipende il bilancio dell’intero viaggio. La posta in gioco è semplicemente: guerra o compromesso commerciale fra le due maggiori economie mondiali?
Trump ha scoperto che la Cina è un osso duro; ha una capacità di ritorsione che l’Europa o altri partner commerciali non possiedono.
I lineamenti di un accordo sono tracciati; dazi americani più bassi, allentamento delle restrizioni cinesi sull’esportazione di terre rare – sperando erga omnes per beneficiarne anche in Ue – ripresa degli acquisti cinesi di soia.
L’intera economia mondiale tirerebbe un sospiro di sollievo. Ieri, anticipando l’intesa, la borsa giapponese era schizzata oltre la soglia di 50.000.
Forte dell’amicizia senza limiti con Xi, dalla lontana Mosca Vladimir Putin farà il tifo per un accordo sino-americano che non tocchi gli interessi russi.
A passeggio fra Golfo e Mar cinese, Trump metteva anche in atto una politica delle Americhe volta ad affermare il predominio continentale Usa sia a Nord che a Sud. Dazi al Canada per avere, pur autenticamente, citato un Ronald Reagan anti-protezionismo – il confinante Canada di Mark Carney, liberale, con politiche sociali avanzate, è una spina nel fianco di Maga; spiegamento di forze avio-navali senza precedenti nelle acque dei Caraibi con malcelata minaccia di diretto intervento in Venezuela – non si muovono portaerei senza intenzione di usarle; sanzioni contro il Presidente colombiano, Gustavo Petro, reo di critiche agli affondamenti di imbarcazioni sospette di narcotraffico.
Mentre invece il Presidente argentino, Javier Millei, riceve dagli Usa una boccata d’ossigeno finanziaria di 40 miliardi di dollari; a condizione che il suo partito vincesse le elezioni legislative di
domenica, aveva premesso Trump. Domenica le urne gli hanno dato ragione.
A Washington si invoca apertamente una nuova dottrina Monroe. Ultimamente senza più menzionare la Groenlandia ma Mette Frederiksen, Primo Ministro danese, non dorme sonni tranquilli.
Né li dovrebbero dormire gli altri leader europei con un Presidente americano, del quale hanno bisogno ma del quale non possono fidarsi, e che li preferisce divisi anziché uniti. Fa bene Giorgia Meloni a invocare l’unità delle due sponde dell’Atlantico – dirlo è buona politica. Purtroppo, suona sempre più come un vecchio disco di vinile rotto. Con Donald al timone la deriva continentale ha ripreso il sopravvento.
(da La Stampa)
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