L’OMICIDIO DI PIERSANTI MATTARELLA E LA VIA CRUCIS DI GIOVANNI FALCONE
DOPO LA STRAGE DI CAPACI QUALCUNO CERCO’ FILES SULL’OMICIDIO DEL PRESIDENTE SICILIANO
Le indagini sull’omicidio di Piersanti Mattarella segnarono una drammatica svolta nella
vita di Giovanni Falcone. Indagando su quel delitto e sugli altri omicidi politico-mafiosi che lo avevano preceduto e seguito, si era reso conto, come accennò in una seduta della Commissione Antimafia del 3 novembre 1989, che mentre al Nord i registri della strategia della tensione si erano avvalsi dell’estremismo di destra come braccio armato per eseguire stragi e omicidi, in Sicilia si erano avvalsi della mafia.
La causale mafiosa offriva una ottima copertura di causali politiche che dovevano restare occulte. Per questo motivo, come denunciò in altra seduta del 22 giugno 1990, si era verificato un grave tentativo di depistaggio istituzionale delle sue indagini sull’omicidio Mattarella per dirottarle dalla pista nera a quella mafiosa. Nei mesi che precedettero la sua richiesta nell’ottobre 1989 di un mandato di cattura per Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini, erano entrate in campo “le menti raffinatissime”, con l’anonimo del Corvo e l’attentato contro di lui all’Addaura.
Da allora era stato segretamente monitorato da alcuni vertici delle Forze di Polizia che redigevano note riservate su suoi atti di indagine coperti da segreto, come l’interrogatorio di Licio Gelli. Aveva capito troppo e non era disposto a fermarsi. Le indagini sui delitti politico-mafiosi era rimasti al centro della sua attenzione ed erano stati la causa del suo conflitto con il procuratore capo Giammanco, come è attestato dai brani del suo diario pubblicati nel giugno 1992, e come dichiarai al Csm il 29 luglio 1992, per essere stato diretto testimone di un acceso scontro proprio su questa materia incandescente durante il quale Falcone era arrivato al punto di minacciare le dimissioni da coordinatore delle indagini.
Pochi mesi prima di essere assassinato, in un incontro riservato a Roma mi aveva confidato che era quasi certo di essere nominato Procuratore nazionale antimafia, e mi chiese di presentare domanda per quell’ufficio perché “avremmo potuto finalmente svolgere le indagini che sino ad allora ci avevano impedito”.
Poco tempo prima – ha dichiarato il collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo, boss in contatto sin dagli anni Ottanta con alcuni vertici dei servizi segreti – alcuni esponenti dei servizi avevano chiesto la collaborazione della mafia per neutralizzare Falcone perché era divenuto troppo pericoloso.
Dalle dichiarazioni convergenti di vari collaboratori risulta che Riina cambiò il programma di uccidere Falcone a Roma con armi da fuoco, come era stato deciso dalla Commissione regionale di Cosa Nostra per depistare le indagini e fare ricadere la responsabilità sui servizi, e di ucciderlo invece a Palermo in modo eclatante, dopo avere avuto nel febbraio-marzo 1992 un incontro con un personaggio talmente autorevole da indurlo a
richiedere una nuova convocazione urgente di una ristrettissima cerchia di super capi regionali per ottenere il loro consenso a cambiare programma, superando la loro riluttanza.
Quarantotto ore prima della strage di Capaci una agenzia di stampa, facente capo a soggetti già coinvolti nelle indagini per la strage di Bologna, annunciò che di lì a poco vi sarebbe stato un grande botto per interferire sulle elezioni in corso del nuovo presidente della Repubblica.
Dopo la strage ignoti si introdussero nella stanza di Falcone al ministero della Giustizia, posta sotto sequestro dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta e, acceso il suo computer, esaminarono solo alcuni files: quelli sull’omicidio Mattarella e su Gladio, struttura sulla quale Falcone aveva acceso la sua attenzione ritenendo possibile un coinvolgimento della sua componente deviata e occulta nei delitti Mattarella e di Pio La Torre.
Dopo la morte di Falcone nel processo per l’omicidio di Mauro Rostagno è stato acquisito un dispaccio segretissimo alla cellula Gladio di Trapani, destinato a essere distrutto ma di cui il destinatario salvò una copia, che riguardava una operazione da eseguirsi nei giorni dell’attentato all’Addaura a circa 500 metri dalla villa di Falcone.
La Corte di Assise di Bologna che ha condannato per la strage di Bologna del 2 agosto 1980 Gilberto Cavallini quale esecutore, unitamente a Fioravanti, Mambro e Ciavardini, ha dedicato quasi cento pagine della motivazione per rivisitare la pista nera dell’omicidio Mattarella seguita da Falcone, ritenendola fondata anche alla luce di nuove prove sopravvenute, e ha ribadito
l’esistenza di una connessione tra le causali politiche di quell’omicidio e quelle della strage.
Un ulteriore passo avanti in questa direzione è stato compiuto con un’altra sentenza divenuta definitiva nel luglio 2025, che ha ritenuto che quella strage fu eseguita su mandato di Gelli con la collaborazione di Umberto Federico D’Amato, capo dell’Ufficio affari riservati del ministero degli Interni, e di Mario Tedeschi ex repubblichino ed esponente di spicco del neofascismo, condannando come ulteriore esecutore Paolo Bellini, esponente di Avanguardia Nazionale e uomo collegato ai servizi.
Si tratta dello stesso Paolo Bellini nel 1991 e nel 1992 si recò in missione a Palermo e, come dichiarato dai vari collaboratori di Giustizia esecutori della strage di Capaci, suggerì ai mafiosi di alzare la posta eseguendo attentati ai beni artistici nazionali per destabilizzare lo Stato.
Sebbene i suoi contatti con i mafiosi fossero stati portati a conoscenza già nel 1992 di autorevoli vertici delle Forze di Polizia, nessuno informò la magistratura né dispose alcuna indagine. Anzi un documento molto rilevante che costituiva corpo di reato fu distrutto.
Tutto ciò e molto altro non interessa minimamente la maggioranza politica della Commissione antimafia che si rifiuta ostinatamente da quanto si è insediata di svolgere qualsiasi indagine conoscitiva su tutte le piste che potrebbero condurre a ricostruire le causali politiche occulte delle stragi del 1992 e del 1993, spiegare i depistaggi e la partecipazione di soggetti esterni.
Un disinteresse che si abbina al fortissimo ostracismo dei palazzi del potere nei confronti di tutti coloro – magistrati, giornalisti
d’inchiesta, parlamentari – che in questi anni nella diversità dei loro ruoli hanno tentato di dare un contributo per portare alla luce i segreti inconfessabili che si celano dietro quelle stragi e di riannodare i fili che sembrano collegarle a quelle precedenti e ai delitti politici, come parti di un’unica storia, seguendo la traccia lasciata da Falcone.
Roberto Scarpinato
(da ilfattoquotidiano.it)
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