MANOVRA PER I PIU’ RICCHI, ALTRO CHE AIUTI AL CETO MEDIO: LE BALLE DEL GOVERNO
PREMIER E SOCI DIFENDONO IL TAGLIO IRPEF DALLE CRITICHE, MA I DATI SMENTISCONO LA NARRAZIONE: PENALIZZATO IL CETO MEDIO CHE DICONO DI SOSTENERE
Dopo le picconate di Istat, Banca d’Italia, Corte dei Conti e Ufficio parlamentare di Bilancio, il centrodestra si sta affannando nel tentativo di negare l’evidenza venuta fuori dalle audizioni: il fatto cioè che la manovra dia vantaggi maggiori ai contribuenti relativamente più ricchi rispetto alla parte più fragile e corposa del ceto medio, che pure doveva essere il destinatario della riforma Irpef. Chi guadagna 2 mila euro al mese, attorno ai 40 mila annui, resterà infatti ancora molto penalizzato anche dopo la legge di Bilancio; otterrà pochi euro al mese, del tutto insufficienti a restituire ciò che l’inflazione ha tolto in questi anni. Giorgia Meloni e i suoi, invece, stanno cercando di generare confusione e far passare l’idea per cui le persone più aiutate dalla manovra sarebbero in quella fascia di
reddito, con tanto di dissertazioni lessicali sulla definizione di “ricco”. I dati e le analisi dicono che i benefici veri andranno a una platea che copre la fascia più alta del ceto medio fino ai redditi più elevati, da 200 mila euro annui e anche superiori. Quindi i favoriti dalla manovra sono anche e soprattutto i redditi elevati a scapito di chi è ai gradini più bassi del ceto medio. Ripercorriamo i maldestri argomenti in cui il governo prova a negarlo e a delegittimare quanto detto dagli organi sentiti la scorsa settimana dalla commissione Bilancio in Senato.
“Ci vuole coraggio a dire che la manovra avvantaggia i ricchi” (Giorgia Meloni).
In realtà serve più coraggio a negarlo. La manovra fa passare dal 35% al 33% la seconda aliquota Irpef, quella che si paga sui redditi tra i 28 mila e 50 mila euro annui. Considerando che il nostro sistema è progressivo, il risparmio di tasse per chi ha redditi da 28 mila euro è quasi zero; sopra i 50 mila euro, invece, è quello pieno, vale a dire 440 euro annui. Questa cifra sarà percepita anche da chi dichiara 200 mila euro all’anno e persino da chi supera questa soglia. La manovra è riuscita solo in parte a cancellare quantomeno che il beneficio dei 440 euro andasse anche a chi supera i 200 mila euro di reddito. Il governo ha infatti previsto un taglio delle detrazioni proprio di 440 euro per chi è sopra quella soglia; il problema, ha rilevato sempre l’Upb, è che oltre un terzo dei contribuenti sopra i 200 mila euro non ha detrazioni da aggredire, quindi otterrà comunque il beneficio del taglio Irpef. Quindi, se è vero che non tutti beneficiari di questa
manovra sono paperoni – infatti a 50 mila euro di reddito comunque non si naviga nell’oro – è altrettanto vero che tra i beneficiari della riforma ci sono anche redditi molto alti. Così come è innegabile che il beneficio per i manager sarà certamente maggiore rispetto a quello quasi nullo di impiegati e soprattutto operai.
“Abbiamo cercato di aiutare quelli che guadagnano cifre ragionevoli, non i ricchi, e siamo stati massacrati da coloro che hanno la possibilità di massacrare. Chi guadagna poco più di 2 mila euro netti non è ricco” (Giancarlo Giorgetti).
Il ministro dell’Economia ha scelto l’esempio peggiore per difendersi: i redditi da 2 mila euro netti al mese – come detto – non sono stati aiutati, anzi sono proprio i più sfavoriti dalla manovra 2026 e dalle altre tre approvate dal centrodestra dopo il 2022. Quelli tra 32 mila e 45 mila euro, infatti, possono essere definiti gli esodati del drenaggio fiscale, come si evince dalle tabelle dell’Ufficio parlamentare di bilancio, che hanno appunto fatto infuriare Giorgetti: i lavoratori di quella fascia hanno subito un aumento implicito di tasse dovuto all’inflazione, e il taglio Irpef della legge di Bilancio non ha compensato affatto questa perdita. Spieghiamoci meglio. Se il governo, anziché tagliare il secondo scaglione Irpef, avesse semplicemente adeguato le aliquote all’inflazione, come chiede da tempo la Cgil di Maurizio Landini, i lavoratori tra i 32 mila e i 45 mila euro ci avrebbero guadagnato molto di più. Sopra i 45 mila euro, si legge sempre nell’audizione Upb, la restituzione del drenaggio
fiscale è comunque più generosa. Giorgetti dice (giustamente) che a 2 mila euro al mese non si è ricchi. Quindi perché ridurre le tasse fino a 200 mila euro e oltre anziché restituire il drenaggio fiscale a chi guadagna 2 mila euro? Il problema, poi, è che dai 50mila parte già l’aliquota massima del 43%. In altri Paesi ci sono ultime aliquote che partono da 300 mila euro; da noi i redditi a 51 mila euro hanno la stessa aliquota di un reddito da un milione di euro.
“Tre quarti dei beneficiari della riforma Irpef dichiarano meno di 50 mila euro” (Maurizio Leo/1).
Il viceministro dell’Economia ha però dimenticato di dire che il restante quarto dei beneficiari, quelli sopra i 50 mila euro, cuberà da solo il 50% delle risorse destinate al taglio. Il punto quindi non è tanto il numero di beneficiari, ma l’entità che ciascun contribuente otterrà: nella parte “bassa” del ceto medio, abbiamo tante persone che avranno poco a testa; nella parte alta ne abbiamo poche ciascuna con un beneficio maggiore. Si può dire anche in un altro modo: i percettori della riduzione Irpef sono il 30% “più benestante” dei redditi italiani. Questo 30% inizia dai redditi da 28 mila euro, tutt’altro che ricchi quindi. Tuttavia, il 50% delle risorse investite nella riforma va all’8% di popolazione con reddito più alto.
“L’analisi dell’Istat non è condivisibile perché fotografa la situazione famigliare, quindi non è metodologicamente aderente all’impianto dell’Irpef, che è un’imposta personale” (Maurizio Leo/2).
In realtà guardare alla dimensione familiare è la metodologia standard adottata da tutti i principali modelli di microsimulazione. Lo stesso Mef usò il reddito familiare nella nota del 2022 che stimava gli effetti della riforma Draghi.
“Le detassazioni danno inevitabilmente vantaggi maggiori, in valore assoluto, ai redditi più alti”.
L’osservazione è stata riportata da più parti, ma non è del tutto vera. La riduzione delle imposte sui redditi, infatti, non si perseguono necessariamente tagliando le aliquote: è possibile infatti agire sulle detrazioni e sui bonus che possono rendere più progressivi gli effetti e quindi dare vantaggi alle fasce più basse o a quelle medie. È ciò che è stato fatto lo scorso anno con i redditi inferiori a 40 mila euro. Quella di adoperare invece una semplice sforbiciata all’aliquota è stata una chiara scelta politica del governo Meloni, con risultati del tutto prevedibili ma non inevitabili.
(da ilfattoquotidiano.it)
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