MATTEO MESSINA DENARO NON E’ UNO, SONO TANTI
PERCHE’ LO STATO HA POCO DA APPLAUDIRE
Anni fa intervistando, in un luogo segreto in Piemonte, il mafioso Vincenzo Calcara, che diceva di aver aveva avuto il compito da Matteo Messina Denaro di uccidere Paolo Borsellino, nel 1991, di là della sua “confidenza”, mi colpì il fatto che Messina Denaro – a sua detta – era tranquillamente in giro in provincia di Trapani e a Palermo. Mi stupì questa dichiarazione perché mi fece pensare al puzzo del compromesso di cui parlava Borsellino.
In queste ore non mancano le dichiarazioni di trionfo degli uomini che governano ora lo Stato ma mi chiedo: perché ora l’hanno preso?
Matteo Messina Denaro, figlio di Francesco Messina Denaro, fratello di Patrizia Messina Denaro e zio di Francesco Guttadauro. Insieme al padre, Messina Denaro ha svolto l’attività di fattore presso le tenute agricole della famiglia D’Alì Staiti, già proprietari della Banca Sicula di Trapani, all’epoca il più importante istituto bancario privato siciliano, e delle saline di Trapani. Non aveva studi alle spalle, non era uno stratega dell’economia, era un manovale della vera mafia, dei colletti bianchi.
La prosopopea di questi giorni mi fa storcere il naso: lo Stato che vince sulla mafia è lo stesso Stato che non permette di raggiungere la verità sulle stragi del 1992?
E’ lo Stato che non svolgerà controlli di eventuali candidabili per le regionali nel Lazio e nella Lombardia, perché la commissione antimafia del Parlamento non è sta ancora costituita.
Oggi ci ritroveremo le parole di ringraziamento allo Stato anche di Marcello Dell’Utri & Company? Ma davvero pensiamo che con l’arresto di Matteo Messina Denaro la mafia sia finita?
Vi posso garantire che in paesi piccolissimi della provincia di Cremona si celano capi clan della ‘ndrangheta che stanno lavorando con il silenzio complice di amministratori e società civile che per paura o omertà non denuncia ma convive.
Matteo Messina Denaro non è uno. Sono tanti. E sono tanti che permettono latitanze. C’è poco da applaudire, oggi.
(da Il Fatto Quotidiano)
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