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MONTI: “NON HO UNA FORZA POLITICA MIA, MA HO PIU’ CONSENSI DEI PARTITI CHE MI SOSTENGONO”

L’INTERVISTA ESCLUSIVA DEL PREMIER AL “CORRIERE DELLA SERA”

Non è che lei si sente un po’ solo in queste bellissime stanze di Palazzo Chigi?

«Solo? Non mi sento solo, e non unicamente perchè ho ministri molto leali e bravissimi, così come i collaboratori. Che intende dire? Che le sembro preoccupato?».
Solo da un punto di vista istituzionale. I partiti che dovrebbero sostenerla lo fanno con ambiguità . Scalpitano, recalcitrano.
«Un altro modo di vederla è che non è chiaro perchè dovrebbero sostenerci. Ma perchè mai dovrebbero sostenere questo governo? Il nostro lavoro produce per loro costi politici rilevanti di breve periodo. Che alla fine la responsabilità  di certe decisioni sia nostra, mi pare ovvio.
Ma in passato chi sedeva in queste stanze a Palazzo Chigi aveva dietro di sè una forza politica, grande o piccola che fosse, alleata o meno con altre. Coloro che sono stati presidenti del Consiglio prima di me non dovevano guadagnarsi tutti i giorni il consenso. Io invece non ho un retroterra politico mio, eppure devo prendere decisioni che hanno una probabilità  di trovare consenso più bassa rispetto a tante decisioni che prendevano coloro che pure erano più corazzati di me in termini di retroterra politico. Però perchè le sembro solo?».
Questa assenza di una sua forza politica propria alle spalle non le pare una ragione sufficiente?
«No. Non credo possa considerarsi solo uno che – per quello che possono valere i sondaggi – sembra avere un consenso superiore a quello di cui godono i partiti che lo sostengono in Parlamento. E quando incontro persone per la strada, mi sento dire quasi sempre: “Vada avanti!”. Qualcuno, ma è raro, è più esplicito sui sacrifici: “Vada avanti, ma ci tassate troppo!”. Altri hanno un tocco di comprensione sulla difficoltà  del compito. Ricordo un tale che una volta, a Milano, mi ha apostrofato: “Eh! Aveva proprio ragione la sua mamma…”. Qualche mese prima, in televisione avevo detto che mia mamma usava dire spesso, quando ero ragazzo: “Alla larga dalla politica!”. Quel signore, che non avevo mai visto, se n’era ricordato, all’uscita da una messa affollata, nella totale incomprensione degli astanti. Io gli ho risposto: “Sì, sì. Aveva proprio ragione la mia mamma”. E lui: “Sempre dare ascolto alle mamme!”. (Ride) (…)
Un operaio che ha già  subìto gli effetti del crollo dei subprime, di Lehman, poi la sfiducia degli investitori sul debito italiano capisce bene gli eccessi del mercato. Come fa a convincerlo che la via d’uscita dalla crisi sia ancora più mercato?
«È una critica comprensibile, anche perchè fatta sotto l’impatto di un grosso disagio personale. Ma la mia lettura è in parte diversa. La crisi non è dovuta agli eccessi del mercato, ma a un mercato dove la presenza della regolazione e della vigilanza è stata insufficiente.
Per questo credo in un’economia di mercato con pubblici poteri forti (…). Ciò permette di avere un’economia sociale di mercato, che riesca a contemperare la competitività  e appunto la dimensione sociale.
È un tema su cui ho lavorato a lungo come commissario europeo a Bruxelles. (…) Quella per un’economia sociale di mercato è una lotta difficile per l’Europa nel mondo e ancor più lo è per un singolo Paese. Ma secondo me è la formula giusta alla quale mira l’Europa, spesso senza riuscire a realizzarla. Il Trattato di Lisbona parla di “un’economia sociale di mercato altamente competitiva”: nessuna di queste parole può venir meno.
Però sappiamo anche da Luigi Einaudi che se il sociale e il mercato sono mischiati malamente, si fa quello che lui chiamava il pasticcio di lepre.
In Italia lo si è fatto per decenni, con i prezzi politici e tante altre distorsioni. La mia linea di riformatore, prima come politico tra quattro virgolette a Bruxelles, ora tra due virgolette a Roma, è sempre stata la stessa: agire con gli strumenti istituzionali e legali a disposizione, e con la persuasione.
Non possiamo darci come solo obiettivo quello di realizzare gli otto passi avanti che si vorrebbero, ma che non sarebbero fattibili o preluderebbero a dei crolli. Meglio allora assicurare due o tre passi avanti che consentano dei miglioramenti». (…)
La accusano anche di essere troppo pedagogico, come se lei ritenesse che si tratti di istruire gli italiani e non di governare.
«La pedagogia è naturale in un professore, è l’unica arma che ho. E ho un obbligo di spiegare maggiore di altri.
In questo contano le ragioni soggettive: nessuno mi ha scelto, ma devo dire agli italiani che se sono qui è per far fare loro cose che non volevano fare e che tutti quelli che sono venuti prima hanno sostenuto si potessero evitare. In più sono questioni complicate, quindi cerco di spiegarle.
Fa parte della mia natura, malgrado qualche recente erosione, di parlare in modo calmo di cose brutte e magari anche drammatiche.
Uno degli aspetti che mi sono imposto di cambiare – in parte riuscendoci – è che io ero abituato a parlare davanti a un pubblico più limitato e spesso anglosassone, dove la battuta e l’ironia sono elementi essenziali.
Ma è molto rischioso: perchè è vero che il posto fisso è monotono, però sicuramente dirlo in quel modo è stato per me un bell’infortunio. Quindi adesso cerco di non fare più battute, che pure all’inizio mi avevano aiutato a comunicare». (…)
Nell’articolo «Una guerra di liberazione» del 2 gennaio 1999, scritto all’avvio dell’euro, lei disse che noi italiani correvamo il rischio di diventare il Mezzogiorno d’Europa. Lei definì quella sfida la prossima guerra di liberazione: l’abbiamo persa?
«In parte sì, abbiamo perso quella guerra di liberazione. Quando, con le decisioni europee del maggio 1997, fu conseguito l’obiettivo dell’entrata nell’euro, è venuta meno la tensione unificante e la maggioranza di Prodi si è dissolta.
Là  dove c’era un obiettivo visibile, un criterio numerico, una sanzione, ci sono state focalizzazione e unità  d’intenti. Ma conseguito quell’obiettivo, ci siamo scordati dell’esigenza di essere competitivi in una moneta unica.
Anche perchè poi l’impulso europeo che è venuto è stato quello della strategia di Lisbona del 2000, molto più debole di Maastricht. (…) Visto che l’Europa non ci dava un vincolo cogente come per la finanza pubblica, dovevamo farci noi un piano delle riforme strutturali. Che poi è quello che dieci anni dopo l’Europa ha impostato con i piani nazionali delle riforme».
Vuole dire che abbiamo perso la guerra con noi stessi?
«Esatto, abbiamo perso la guerra con noi stessi. Abbiamo avuto un’erosione di competitività  non tanto e non solo per la dinamica del costo del lavoro, ma per l’andamento insufficiente della produttività  totale dei fattori, legata alla qualità  delle infrastrutture, alla funzionalità  del mercato dei prodotti e dei servizi, a un’adeguata dimensione media d’impresa e molto altro.
Non c’era più la valvola delle svalutazioni competitive ed è mancata la politica economica reale.
C’è stato un vuoto sotto questo aspetto. Io speravo (…) che il governo Berlusconi, uscito dalle elezioni del 2008 con una maggioranza così forte, con un orizzonte di cinque anni e quel successo d’immagine al G8 dell’Aquila, avrebbe veramente potuto fare un piano delle riforme strutturali, invece di negare che l’Italia avesse un problema di crescita». (…)
Lei ha trovato molto gratificante il mestiere di commissario europeo. Per questo attuale mestiere è lo stesso? O teme che a volte la facciano sentire un po’ un corpo estraneo o un ospite appena sopportato in questa macchina amministrativa che, dice il suo ministro Fabrizio Barca, è da registrare?
«A Bruxelles per un periodo iniziale abbastanza lungo mi sentivo frustrato, anche perchè avevo la responsabilità  per uno degli aspetti più difficili a causa dell’esiguità  e della lentezza dei poteri della Commissione sul mercato interno. Ma soprattutto non ero rodato io per un’esperienza del genere, anche se avevo molta conoscenza teorica sull’Europa.
Dopo no, dopo non ho più trovato frustrante quell’esperienza, anzi. Ora qui sarei un corpo estraneo? È strano, perchè sono un corpo estraneo; però questa situazione sta dando a questo corpo estraneo una qualche centralità ».
Dunque trova questo mestiere piuttosto gratificante che frustrante, grazie alla capacità  di influire e di agire?
«Quella non si può negare che ci sia, poi si può agire bene o male, con più o meno risultati. Ma non è che gli strumenti non ci siano. Dunque no, non trovo questo mestiere frustrante.
Ovviamente c’è un’oscillazione, soprattutto nei primi tempi era così; poi uno impara a diventare più insensibile e soprattutto a mostrare meno se è sensibile. Comunque gli alti e bassi sono orari, quotidiani. Ci sono cose che danno grande soddisfazione, altre che danno grande frustrazione e bisogna imparare a incassare e ripartire. Ma frustrante nel senso dell’impotenza, no. Alcuni risultati sono molto più lenti a manifestarsi di quanto pensassi, questo è certo.
Però se ne è fatta tutti insieme un’analisi, si è cercato di farla validare in Europa e di apprestare gli strumenti conseguenti. E vorrei aggiungere una cosa che non significa niente per il mio futuro, ma è oggettivamente vera: se i problemi che l’Italia manifestava in modo acuto nel novembre 2011 sono il risultato non tanto di particolari governi recenti, quanto del non aver affrontato certi nodi strutturali per anni o decenni, questa non può che essere un’operazione lunga anni o decenni.
Ma non ho la frustrazione che deriva dal sapere che non sarò io a vederne il compimento. Sarò già  molto contento se saranno stati messi alcuni semi; speriamo diano delle pianticelle presto e che persuadano ad andare avanti con tutte le correzioni   caso».

Federico Fubini
(da “Il Corriere della Sera”)

This entry was posted on domenica, Novembre 11th, 2012 at 09:26 and is filed under economia, Monti. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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