NICOLO’ GOVONI, IL 27ENNE CHE DA’ VITA ALLE SCUOLE PER RIFUGIATI: “NEI CAMPI SI SMETTE DI ESISTERE”
DAL VOLONTARIATO IN INDIA AL CAMPO PROFUGHI DI SAMOS
Per i migliaia di profughi che vivono sulle isole greche la situazione è da anni al limite della sopportazione. Negli inferni a cielo aperto costruiti dall’Europa sulle isole di Leros, Chios, Lesbos e Kira ogni giorno è una battaglia per la sopravvivenza. Nel solo campo di Samos, costruito per ospitare 648 richiedenti asilo, i rifugiati sono al momento 5.825.
Stipati in tende, ripari di fortuna e dimenticati.
«Quando vivi in un luogo che non esiste, anche tu smetti di esistere», dice a Open Nicolò Govoni, 27enne di Crema, uno dei fondatori della Onlus Still I Rise, che nel 2018 ha aperto la prima scuola per rifugiati nel campo sull’isola greca di Samos, accendendo una luce di speranza per i migliaia di bambini e donne bloccati sull’isola ellenica. Un nome, quello di Still I Rise, ispirato all’opera della scrittrice afroamericana Maya Angelou e al suo spirito di resilienza
Da anni Nicolò e un gruppo di altri ragazzi hanno deciso di fare loro questo spirito, arrivando ad aprire una scuola internazionale per rifugiati al confine turco siriano.
Uno sforzo riconosciuto a Nicolò con la candidatura al premio Nobel per la Pace, arrivato dalla Repubblica di San Marino attraverso Sara Conti, membro del Consiglio Grande e Generale, e il premio della Farnesina per l’impegno nel campo dei diritti umani arrivato la scorsa settimana.
Prima la scuola di Mazì (insieme in greco) a Samos, poi l’apertura di una scuola al confine turco-siriano. Il viaggio tuo e di Still I Rise da dove è iniziato?
«Dopo un’adolescenza turbolenta nel 2013 mi sono trasferito in India per un’esperienza di volontariato. E un viaggio che doveva durare 3 mesi è poi diventato una permanenza di 4 anni. Ho fatto l’università e lavorato come volontario in un orfanotrofio. Nel 2017 sono arrivato in Grecia sull’isola di Samos. Qui mi sono trovato davanti a una situazione più grave di quella che avevo trovato in India, le persone sono trattate alla stregua di animali. Quando stai in un luogo che non esiste come quello di un hotspot anche tu smetti di esistere. I profughi che ho incontrato ancora più che per la propria sicurezza erano scappati per la propria dignità . Una dignità che continua a venirgli completamente negata. Una delle problematiche maggiori è che i bambini non hanno accesso alla scuola. Il 70% della popolazione sono donne e bambini».
Da qui l’idea di aprire una scuola…
«Io e un’altra ragazza americana abbiamo improvvisato una classe in cui insegnavamo dei rudimenti di matematica, cultura europea ai bambini e così la mia esperienza di 2 mesi si è allungata di altri 7. C’erano molte difficoltà con le autorità locali, così con un’altra volontaria, Giulia, abbiamo deciso di staccarci dal gruppo con cui operavano e di aprire Still I Rise. Volevamo operare in modo slegato dalle dinamiche delle autorità e delle organizzazioni che lavoravano in questo hotspot. C’è una trama abbastanza fitta di finanziamenti europei e delle Nazioni Unite. Con Still I Rise abbiamo deciso di fare quello che sentivamo fosse giusto senza dover rendere conto a “questi poteri” un po’ più grandi»
Qual è stato il passo successivo?
«Abbiamo deciso di creare Mazì, un centro giovanile a Samos che fornisse un contesto scolastico di educazione formale per bambini e adolescenti. Per noi Mazì (insieme in greco) è stata una gioia incredibile, i due anni più belli della mia vita. I bambini lo amavano alla follia. Entravano e si sentivano non solo protetti ma anche seguiti, ascoltati, capiti e valorizzati. Con l’aiuto di altri volontari abbiamo portato sempre più professionisti in Still I Rise che hanno contribuito a un nuovo modello di scuola. A un certo punto abbiamo però deciso di avviare dei procedimenti penali contro le autorità del campo, sia in Grecia che attraverso la procura di Roma e denunciare come veniva gestito l’hotspot. Abbiamo fatto delle interrogazioni parlamentari e poi siamo arrivati lo scorso dicembre a ricevere una risposta positiva dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per il ricollocamento immediato di alcuni nostri minori non accompagnati che frequentavano la scuola».
Come siete arrivati in Turchia?
«Il modello che avevamo sembrava funzionare. Dopo pochi mesi i bambini che non parlavano nemmeno una parola della lingua locale, o dell’inglese, facevano enormi passi avanti. I bambini venivano seguiti anche a livello individuale attraversi specialisti dell’infanzia. Abbiamo deciso di portare questo modello di emergenza in altri luoghi e così il nostro pensiero è andato alla Turchia, visto che è una rotta obbligatoria per tutti i nostri ragazzi e coloro che cercano di raggiungere l’Europa. Quindi 8-9 mesi fa ci siamo spostati a Gaziantep, nel sud-est del Paese, dove abbiamo creato tutta la struttura legale e burocratica di Still I Rise in Turchia e ricevuto i permessi per operare. Abbiamo affittato e ristrutturato una scuola in una città che si trova al confine siriano e dove il 90% dei bambini profughi una volta raggiunti i 10 anni lascia la scuola. Purtroppo cinque giorni dopo la sua inaugurazione, il 16 marzo, abbiamo dovuto chiudere la scuola a causa dell’emergenza Coronavirus. Il tempo a disposizione ci ha però dato la possibilità di ristrutturarci. Eravamo nati come un gruppo di 3 volontari mossi dalla voglia di aiutare, ma era necessario creare un’organizzazione più strutturata assumendo persone che si occupassero della parte finanziaria, del marketing e di risorse umane».
Dopo la Turchia è arrivata la Siria. Quali sono le difficoltà di operare così vicino a Idlib e in un contesto geopolitico complicato come quello del nord-ovest della Siria?
«La scuola siriana si trova nella città di Ad Dana. È un progetto transfrontaliero come molti dei progetti portati avanti dalle no profit nel Paese visto che i confini sono chiusi, e l’accesso è interdetto se non in casi straordinari. Abbiamo assunto del personale che è stato addestrato e viene gestito da remoto. Un team di Gaziantep si occupa di seguire il lavoro in Siria. Chiaramente lavorando a distanza alla base di tutto c’è la fiducia. Ci siamo trovati a lavorare con persone che credono moltissimo in quello che fanno. Di solito i nostri direttori lavorano sul campo, ma in Siria non è possibile. Non essere lì e non essere coinvolti fisicamente è un po’ bizzarro e fuori dal nostro solito modo di operare. Ma vogliamo comunque che lo standard sia alto come quello nelle altre scuole. Certamente adesso siamo ancora nelle fase iniziali, ma sarà un progetto intrigante. È Giulia Cicoli a essere incaricata del Medio Oriente, una delle nostre fondatrici e lei è capacissima e non ho dubbi che verrà gestito tutto in maniera ottimale».
Parlando di Turchia, il Paese ospita il maggior numero di profughi e ha un tasso molto elevato di lavoro minorile. Come entrate in contatto con i ragazzi che frequenteranno poi la scuola?
«Come organizzazione abbiamo centri giovanili nei luoghi più volatili, come Samos e la Siria. Mentre in Turchia e in futuro in Kenya, che sono contesti più stabili, apriremo scuole internazionali. Parliamo di un percorso lungo e impegnativo che dà agli studenti un diploma riconosciuto nel mondo e che è di grande valore. Aiutiamo attraverso una borsa di studio quei ragazzi che non potrebbero mai permettersi un’istruzione simile. Per fare questo il numero di persone che possono entrare è limitato e chiaramente ci rivolgiamo a quelli più svantaggiati. Ma ci assicuriamo che per il bene dei ragazzo ci sia una famiglia alle spalle che li supporta. Prima di aprire la scuola passiamo sei mesi a fare una valutazione dei ragazzi con cui entriamo in contatto attraverso ong del luogo che ci segnalano i bambini più vulnerabili».
Hai spesso detto che il vostro è un programma non di volontariato ma di “volontalento”. Possiamo dire che al centro del vostro modello, sia per quanto riguarda gli studenti che lo staff, ci sia la valorizzazione del’individuo?
«Dall’inizio abbiamo preferito fare un servizio che fosse per pochi ma totale, un servizio di altissima qualità . Non ci interessa riempire numeri su excel. Quelli sono i progetti a brevissimo termine che sono necessari per la sopravvivenza delle persone. Quello che purtroppo è un buco nell’ambito della cooperazione sono i progetti a lungo termine che chiaramente hanno dei rischi. Mentre la scuola tradizionale è più come una catena di montaggio dove tutto è molto standardizzato per raggiungere un’efficienza massima, il nostro approccio è molto più agricolo: ogni pianta è una pianta diversa e viene accudita in quanto tale. Questo vale per i bambini che sono il nostro focus principale ma anche per i volontari e per lo staff. Non siamo un’organizzazione da migliaia di dipendenti, possiamo permetterci e siamo felici di assicurarci che tutti siano messi a loro agio. Se i volontari sono selezionati e a lungo termine è meglio per i bambini. Il nostro obiettivo principe è il servizio a minore, anche il servizio che facciamo in diagonale allo staff poi impatta i ragazzi».
A proposito di volontariato e staff. Tra poco lancerete l’International teaching program. Di cosa si stratta?
«Al momento è una “call” chiusa a causa dell’epidemia, ma aprirà presto. Dove noi operiamo tendiamo sempre a puntare su un team di locali. La scuola sarà gestita da professionisti del luogo sia per rispetto del contesto che ci accoglie, sia per favorire l’integrazione dei profughi nella cultura locale. Affiancati da questi professionisti, il nostro programma prevederà di mandare degli insegnanti internazionali che si occuperanno di quelle materie che richiedono una presenza di madre lingua, per esempio. Questi insegnanti saranno formati e avranno un contratto di 2-3 anni dove, a spese nostre, otterranno una certificazione di insegnante internazionale presso un’organizzazione esterna».
Tra le vostre tappe future c’è anche l’Italia. Sarà una scuola aperta a tutti?
«Siamo ancora agli albori di questa ricerca. Prima dell’Italia nel nostro piano di espansione c’è il Sud America. L’idea iniziale era aprire in Italia nel 2021, ma dovremo posticipare. È troppo presto per parlare di un luogo, ma sicuramente la scuola sorgerà dove c’è una grande concentrazione di profughi e grande disoccupazione. Le scuole internazionali che noi apriremo a parte quella di Gaziantep, perchè la legge turca lo impedisce, accoglieranno anche un 30% di bambini svantaggiati del luogo. In Kenya il 70% degli studenti saranno profughi e il 30% bambini svantaggiati kenyoti e la stessa cosa accadrà in Italia. Purtroppo il Coronavirus, come a tutti, ha cambiato i nostri piani».
Sogni futuri per Still I Rise?
«Quello che facciamo con Still I Rise è il nostro grande amore, siamo felici di quello che possiamo fare e di come possiamo farlo. È un’organizzazione che ti fa sentire parte integrante, non sei un funzionario. Il nostro sogno è quello di consolidare questo modello di scuola che è molto efficiente per chi è penalizzato, per chi rimasto è indietro. Ed è anche un ottimo modello economico. Le nostre scuole costano una frazione di una scuola media in un Paese Ocse. Io vorrei che questo modello potesse essere replicato in altri Paesi e perchè no, magari ispirare un cambiamento nella scuola pubblica. Io ho avuto dei problemi giganteschi con la scuola, e ora apro scuole che sono l’opposto di quelle che ho vissuto e ho odiato. Gli insegnanti sono i primi a dire che la scuola non funziona più, ci vuole veramente una riforma. È anche vero che Still i Rise è un grande amore ma è anche abbastanza faticoso, stiamo sempre lavorando. Ma ci dà grande gioia. Il 2020 ci sta testando però ne usciremo e spero che potremmo portare aiuto al meglio delle nostre capacità dovunque andremo».
(da Open)
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