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NULLA ACCADE PER CASO: DRAGHI DA TEMPO SI ERA PREPARATO IL TERRENO

GLI INCONTRI SEGRETI CON RENZI, SALVINI, DI MAIO E MELONI

Mario Draghi era già  qui, in mezzo a noi, prima di apparire al Quirinale. Aveva già  ammansito i partiti più sovranisti e populisti d’Italia. Aveva già  ricevuto una telefonata di Matteo Salvini alla fine di gennaio.
Aveva già  incontrato una, un’altra e un’altra volta ancora Luigi Di Maio. Aveva già  recapitato un cortese invito a Giorgia Meloni. Questo è successo mentre si pensava che Draghi non ci fosse, un pensionato assorto fra gli ulivi umbri col suo cane bracco ungherese. Invece Draghi era pronto alla chiamata di Sergio Mattarella. No, nessun complotto ordito dalla plutocrazia. No, nessuna visione mistica di fantozziana memoria.
Draghi era pronto perchè Draghi non si fa trovare impreparato e fa sempre le cose che dice e non dice sempre le cose che fa.
E fra le cose che non ha detto c’è un intenso lavoro sui partiti più distanti — Lega, Cinque Stelle, Fratelli d’Italia — da quell’Europa che ha protetto per otto anni alla Banca centrale europea, una dozzina di mesi di contatti discreti, di presentazioni, di conoscenze.
Draghi è meticoloso, strategico, riservato: è politico. Non era nella misericordia di dio come l’uomo prima della creazione, «secondo il benevolo disegno della sua volontà », per dirla con la lettera di san Paolo agli Efesini.
Dopo il 31 ottobre 2019, l’ultimo giorno di servizio alla Bce, usato, evocato e soprattutto temuto dalla politica, Draghi si è preparato a qualsiasi evenienza. Per non fallire aveva soltanto una possibilità : trasformare il Parlamento più antieuropeista nel Parlamento che più velocemente si è convertito all’europeismo. Si è trattato di folgorazione o disperazione. Pazienza. Pure san Paolo ci è passato.
LA RESA DI MATTEO, I DUBBI DI GIORGIA
Il leghista Giancarlo Giorgetti è un amico di Draghi, ne ha un rispetto sacrale, è un tipo pragmatico, un tifoso del Southampton che il sabato e la domenica stacca col mondo e si guarda il campionato inglese.
Se risponde, non spegne mica il televisore e si ammutolisce appena segna una squadra. Per quasi due anni, dopo la sbandata del Papeete che ha ammazzato l’esecutivo gialloverde e l’alleanza con i Cinque Stelle, ha spiegato a Salvini un paio di concetti banali: i consensi non bastano per governare, è ferale inseguire Fratelli d’Italia a destra. Per Giorgetti la pandemia era l’occasione per rifare daccapo la Lega con un governo di tutti aggrappato a uno: a Draghi.
Salvini ha esitato a lungo, smentire sè stessi è più complicato che chiudere i porti sbraitando in televisione, poi l’ha sentito al telefono durante la caduta del governo di Giuseppe Conte, subito dopo il ritiro dei ministri di Italia Viva, in quegli attimi di deliquio quando fermo, con la testa nel guardaroba, la luce troppo fioca, le pile di pantaloni che vacillano, non sai che felpa metterti addosso perchè non sai più chi sei.
Per le consultazioni Salvini era già  stirato dal verso giusto, non più o voto o morte, non più feroce con i migranti e dialogante con Mosca, anzi ha rinnovato il giuramento agli Stati Uniti, come se fosse la formula magica per accedere di nuovo ai palazzi del potere, e si è mostrato ai giornalisti con Giorgetti accanto che, infagottato in un giaccone con cappuccio, annuiva soddisfatto a ogni parola di Matteo.
Draghi si è affidato a Giorgetti per avvicinare Salvini, con Meloni e Di Maio ha utilizzato un metodo diverso. Premessa. Draghi ha trascorso un decennio da direttore generale al ministero del Tesoro, da lì ha attraversato l’ultimo decennio del Novecento, ha imparato il galateo istituzionale. Draghi non si offre, non trama, si rende disponibile per rendersi utile. Così un intermediario, non un politico, la scorsa estate si è rivolto a Meloni e Di Maio con una sorta di consiglio: perchè non vi fate una chiacchierata con l’ex capo Bce?
Di Maio ha accettato presto, il suo istinto di sopravvivenza, di antico e inconsapevole lignaggio democristiano, si è rivelato come spesso gli capita e il 24 giugno l’ha raggiunto in un ufficio appartato lontano dal ministero degli Esteri. Matteo Renzi l’ha saputo, e un po’ si è ingelosito. Il premier Conte l’ha sospettato, e ha reagito assai male.
Finchè il segreto, che a Roma è tutt’altro che eterno, il tempo di un aperitivo, è diventato la notizia che Di Maio ha confermato in modo infelice: «Mi ha fatto una buona impressione».
Da quel giorno Conte ha visto Draghi in ogni angolo buio di Palazzo Chigi, anzichè costruire un rapporto ha tentato di abbatterlo persino col pubblico dileggio: «Volevo candidarlo alla guida della Commissione europea, mi ha risposto che era stanco». Invece Di Maio non ha citato più Draghi, ma l’ha frequentato con cautela.
Meloni ci ha riflettuto, settimane, ne era lusingata, però ha declinato la proposta, non ha stretto la mano, pardon non ha dato il gomito all’ex banchiere, non per presunzione, non era sicura, ci tiene alla coerenza, ai simboli
Come fai a discutere con uno che, in pratica, l’Europa l’ha salvata dopo che hai ospitato con gli onori Steve Bannon, uno che, in teoria, l’Europa l’ha sfasciata.
LA SOSTA PER ARRIVARE SUL COLLE
Mario Monti atterrò in Italia e fu accolto come un signore compìto che veste in maniera straniante. Il loden affascinò gli italiani esausti dalle cronache anatomiche sulle “cene eleganti” nella villa di Arcore di Silvio Berlusconi. Monti pensò di governare senza la politica, Draghi non ha commesso lo stesso errore.
Era in cammino verso il Quirinale, per la successione a Mattarella, poi l’hanno fermato per dirottarlo a Palazzo Chigi. La politica è un passaggio obbligato per ambire alla presidenza della Repubblica. Appena ha ricevuto l’incarico da Mattarella, nonostante le prime ingenue reazioni di Riccardo Fraccaro e Vito Crimi, Draghi ha raccolto il sostegno di Salvini e Di Maio e un rifiuto, non polemico, di Meloni.
Forza Italia ha esultato, Berlusconi è sbucato dalle palme in Costa Azzurra dove si è trasferito, di colpo Gianni Letta è tornato a vent’anni fa. Come previsto.
Quello che non era previsto è accaduto nel Pd di Nicola Zingaretti, il partito di riferimento culturale di Draghi. Più di Rocco Casalino, Zingaretti ha creduto che Conte fosse indispensabile, si è impallato sulle elezioni anticipate, si è opposto ai leghisti e al solito si è corretto e si è adeguato. Zingaretti non ha aiutato l’ingresso in politica di Draghi, uno che all’epoca della Bce viaggiava spesso in aereo col premier Paolo Gentiloni per andare a Bruxelles.
Il Pd ha dato segni di delirio cominciando a litigare sul congresso per rimuovere Zingaretti con un presidente del Consiglio dimissionario e un altro ancora non insediato. I 5S hanno scoperto quant’è sfiancante essere un partito e non si capisce chi comanda fra Beppe Grillo, le piattaforme di Casaleggio, il multiforme Di Maio, la ficcante tattica di Crimi. Allora Salvini si è ingolosito e ha provato a intestarsi l’operazione Draghi. Non si stava male tra gli ulivi umbri con il cane bracco ungherese. Ormai l’apparizione è avvenuta e san Paolo è irreperibile.

(da “l’Espresso”)

This entry was posted on domenica, Febbraio 14th, 2021 at 22:35 and is filed under governo. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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CASALEGGIO GETTA BENZINA PIU’ CHE MEDIARE: “CHI SI SENTE A DISAGIO A SOSTENERE IL GOVERNO SI ASTENGA, IL REGOLAMENTO NON PREVEDE ESPULSIONI ANCHE SE VOTASSE CONTRO” »

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