Novembre 12th, 2025 Riccardo Fucile
DIETRO LA DECISIONE IL “NO” DEL FILO-PUTINIANO SALVINI AGLI AIUTI MILITARI A KIEV (DICHIARAZIONI REGISTRATE CON FASTIDIO DALL’AMBASCIATA AMERICANA A ROMA E SEGNALATE ALLA CASA BIANCA) E LE VALUTAZIONI DEL MINISTRO DEL TESORO, ALLE PRESE CON LA “MANOVRINA”
Una riunione riservata tra Giorgia Meloni e Guido Crosetto. A Palazzo Chigi, nel primo pomeriggio di ieri. Un’analisi dettagliata che ruota attorno all’opzione di acquistare dagli Stati Uniti armi da donare a Kiev.
Al termine, la presa d’atto che al momento non è possibile fornire agli americani tutte le garanzie necessarie per aderire al programma Purl. Quello, per intenderci, che permetterebbe all’Italia di comprare dagli Usa armi da destinare a Kiev.
Dunque, la decisione condivisa: il viaggio di Crosetto a Washington il prossimo 14 novembre per incontrare il segretario alla Difesa Usa Pete Hegseth – si apprende da fonti di massimo livello dell’esecutivo – è annullato. Almeno per il momento. Un indizio, in questo senso, sembra decisivo: sempre venerdì – trapela dalle stesse fonti – il ministro dovrebbe recarsi a Berlino per prendere parte al formato E-5 assieme ai colleghi della
Difesa di Francia, Germania, Regno Unito e Polonia.
Da oggi a venerdì, il quadro può nuovamente cambiare. Ma fino alla tarda serata di ieri, nulla lasciava presagire altri colpi di scena: missione congelata.
La ragione, si apprende dalle stesse fonti, sarebbe da far risalire ai nodi interni che affliggono l’esecutivo Meloni. Due, in particolare. Entrambi conducono fino al vertice della Lega.
La prima è una motivazione tutta politica. E risponde al nome di Matteo Salvini. Le recentissime dichiarazioni contro l’acquisto di armi da destinare all’Ucraina, quelle registrate con fastidio dall’ambasciata americana a Roma e prontamente segnalate alla Casa Bianca, come riportato ieri da Repubblica, avrebbero complicato il viaggio. In questa fase, infatti, l’amministrazione Trump sembra poco incline a concedere agli alleati tentennamenti, sfumature, frenate.
E considera politicamente fondamentale – oltreché conveniente per l’industria bellica Usa – l’adesione dei partner a Purl.
Lo strappo leghista ha dunque messo Palazzo Chigi di fronte a una scelta: sfidare il vicepremier e aderire al programma di acquisti gestito dalla Nato, aprendo una crepa pubblica nella maggioranza, oppure desistere – almeno per ora – anche a costo di assecondare il veto del Carroccio?
Sono riflessioni che hanno impegnato ieri Meloni, Crosetto e il resto dei vertici dell’esecutivo. La seconda valutazione è di ordine economico, anch’essa venata ovviamente di politica. Il viaggio del ministro della Difesa cade (cadeva) infatti in piena
sessione di bilancio, con una finanziaria di austerità ancora da approvare. Per Giancarlo Giorgetti, i margini per derogare al rigido controllo sui conti sono strettissimi, quasi inesistenti. E la portata degli eventuali investimenti in armamenti è poco sostenibile.
Il titolare del Tesoro, che ieri ha incontrato in mattinata Meloni assieme ad Antonio Tajani e allo stesso Salvini (collegato dalla Puglia), ha spiegato riservatamente alla premier un rischio incombente: se il messaggio è di rigore, spendere denaro in armi diventa dannoso per il consenso.
E darebbe fiato a chi all’opposizione – in particolare al Movimento – contesta le spese militari. Come non bastasse, c’è un altro dettaglio a complicare il quadro: Washington insiste per ottenere dall’Italia un incremento significativo degli investimenti in armi e difesa, fino al 5% del pil. È un impegno sancito durante l’ultimo vertice Nato, che Roma giudica difficile da rispettare.
Sono difficoltà che hanno spinto Crosetto ad annullare il viaggio da Hegseth. E questo, nonostante il fatto che l’esecutivo abbia toccato con mano il pressing di Volodymyr Zelensky per acquistare dagli Stati Uniti armi utili alla resistenza ucraina.
(da Repubblica)
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Novembre 12th, 2025 Riccardo Fucile
IL SONDAGGIO REALIZZATO ALLA FINE DI OTTOBRE SMENTISCE L’ULTRADESTRA ISRAELIANA CHE IDENTIFICA LA POPOLAZIONE DI GAZA CON I TERRORISTI DEL 7 OTTOBRE… QUATTRO GAZAWI SU CINQUE CONCORDANO CHE HAMAS E ALTRE FAZIONI PALESTINESI DOVREBBERO ACCETTARE QUALSIASI CONDIZIONE PER GARANTIRE LA TREGUA. E QUASI LA METÀ (IL 48,7%) SOSTIENE IL PIANO DI TRUMP. LA MAGGIORANZA SI ASPETTA CHE IL CESSATE IL FUOCO SIA PERMANENTE, MA CIRCA UN QUARTO (24,4%) PENSA CHE NON CI SARÀ UN VERO RITIRO ISRAELIANO
Secondo Soliman Hijjeh, «tutti hanno un piano per la Striscia, ma non include mai le
volontà degli uomini e delle donne che ci abitano». Il giornalista di Gaza City dice che ha smesso di perdere tempo con le «opinioni su quello che gli Stati Uniti o Israele vogliono fare di questa terra in cui sono nato».
Ma Soliman eccome se ce l’ha un’opinione. Il progetto americano di costruire 25 mila alloggi per i palestinesi sul lato di Gaza controllato da Israele lo fa infuriare: «La strategia è quella di separarci e rendere permanente la presenza dell’Idf. È tutto inutile, la nostra voce non è ascoltata».
Se le volontà dei gazawi non trovano mai spazio sui tavoli delle trattative, c’è un istituto di ricerca di Ramallah — si chiama The Institute for Social and Economic Progress — che in questi due anni di incessanti bombardamenti si ostina a chiedere ai palestinesi della Striscia «come state?», «cosa volete?».
L’ultimo sondaggio è stato realizzato alla fine di ottobre, a quasi un mese dall’inizio del cessate il fuoco. Racconta che i sentimenti di speranza dichiarati dalla popolazione sono raddoppiati: oggi superano il 70%.
È duplicata anche la percentuale di coloro che ritengono «più vicina» la fine dell’occupazione. Secondo gli intervistati, il merito dell’accordo è di Egitto, Turchia, Stati Uniti e Qatar.
Quattro su cinque (l’80%) concordano che Hamas e altre fazioni palestinesi dovrebbero accettare qualsiasi condizione pe
garantire la tregua. E quasi la metà (il 48,7%) sostiene il piano di Trump. La maggioranza (70%) si aspetta che il cessate il fuoco sia permanente, ma circa un quarto (24,4%) pensa che non ci sarà un vero ritiro israeliano.
Colpiscono i dati politici.
Se domani si potesse votare, un intervistato su tre (32,8%) darebbe la sua «x» a un candidato palestinese indipendente; il 16,3% voterebbe per Fatah; il 31,5% diserterebbe le urne. Ma solo una piccolissima minoranza desidera che Hamas governi Gaza: il 2,9%.
Un numero che smentisce l’ultradestra israeliana che identifica la popolazione di Gaza con i terroristi del 7 ottobre. L’anno scorso, il dato era un po’ più alto: circa il 5% della popolazione avrebbe votato per i jihadisti.
(da corriere.it )
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Novembre 12th, 2025 Riccardo Fucile
LA RIFORMA ELETTORALE: SE GIORGIA MELONI DOVRÀ RINUNCIARE ALL’INDICAZIONE DEL CANDIDATO PREMIER SULLA SCHEDA, NON CI SARANNO PRIMARIE
Accerchiata dai padri nobili del Pd e da esponenti importanti della sua stessa maggioranza? Elly Schlein giura di non sentirsi sotto assedio. La mia avversaria è Giorgia Meloni».
Ma la segretaria sa bene quali sono i movimenti dentro e attorno al Pd. Tutto è tranne che un’ingenua. Semplicemente, preferisce agire come ha sempre fatto finora. «Una tappa alla volta, dopo le elezioni in Campania, Puglia e Veneto valuteremo il da farsi», dice la leader dem.
In realtà Schlein qualche idea in testa ce l’ha già. Per esempio, convocare una Direzione dopo le regionali, magari in prossimità del convegno di Montepulciano, organizzato dalle correnti di Dario Franceschini, Roberto Speranza e Andrea Orlando, ufficialmente per supportare la segretaria, in realtà per tentare di condizionarla e di non perdere potere dentro il Pd. E indire un’Assemblea nazionale, non più un congresso anticipato perché la preparazione delle assise è troppo macchinosa e lunga e passa, secondo statuto, per le dimissioni della segretaria.
Per la Direzione e l’Assemblea Schlein sa di poter contare su Stefano Bonaccini (è lui che le convoca), in rotta d’avvicinamento alla leader ormai da tempo. Fa assegnamento sul presidente dem, la leader, benché sappia che, come riportava ieri l’ Inkiesta , nel Pd ci sia chi propone di lasciare il partito nelle mani della segretaria e affidare palazzo Chigi a Bonaccini, in caso di vittoria alle politiche.
Ma c’è, in prospettiva, un’altra mossa che la segretaria ha in animo di compiere. La leader è da sempre contraria alla nascita
di una sua corrente, il che però non le impedirebbe di creare un pacchetto di mischia di personalità del Pd a lei vicinissime da contrapporre, all’esterno, ai «vecchi» del partito.
Si tratta di più o meno giovani. Volti già noti, come Francesco Boccia, Gaspare Righi, Marta Bonafoni, Igor Taruffi, Marco Furfaro. Ed emergenti, come l’ex sardina Jasmine Cristallo, il consigliere regionale della Lombardia Paolo Romano, la neo segretaria dei giovani del Pd Virginia Libero, la nuova vice presidente della Toscana, la ventitreenne Mia Diop. In questa squadra Bonafoni e Taruffi giocano un ruolo essenziale per Schlein.
La prima ha il ruolo di scopritrice di giovani talenti. Il secondo, in questo periodo, ha il compito di lisciare le penne agli esponenti del correntone di Montepulciano.
E la segretaria ha pronta anche un’ altra mossa mediatica: la due giorni degli amministratori locali dem prevista per il 14 e il 15 novembre a Bologna, in concomitanza con l’assemblea nazionale dell’Anci.
Un ruolo importante, nella strategia di Schlein, lo gioca anche Maurizio Landini, che la segretaria ha incontrato ieri e con cui ha costruito un rapporto molto più stretto di prima, svincolandolo dall’abbraccio con Giuseppe Conte.
Infine, la riforma elettorale.
Se, come pare, Giorgia Meloni dovrà rinunciare all’indicazione del candidato premier sulla scheda, presumibilmente non ci saranno primarie
Ma al Nazareno non prevedono nemmeno un caminetto in cui i maggiorenti del centrosinistra scelgano il nome di un federatore o federatrice che sia. «A quel punto — dice un parlamentare della maggioranza dem — si faccia come la destra». Ossia, «in caso di vittoria, il leader del partito che prende più voti va a palazzo Chigi».
Ed è difficile, per non dire impossibile, che i partiti attuali, cioè Movimento 5 stelle, Iv e Avs, o una futuribile formazione di centro, riescano a guadagnare più consensi del Pd.
(da Corriere della Sera )
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Novembre 12th, 2025 Riccardo Fucile
L’UOMO ARRESTATO ERA MEMBRO DEL GRUPPO DI ESTREMA DESTRA “REICHSBURGER” LO STESSO CHE AVEVA PROGETTATO UN GOLPE NEL DICEMBRE 2022
Una lista di politici da uccidere. E una raccolta fondi in criptovalute per finanziare questi
attentati. Con queste accuse ieri la polizia ha arrestato a Dortmund un cittadino polacco-tedesco, contestandogli gravi reati contro lo Stato.
Tutta l’operazione di «reclutamento» si è svolta sul Darknet, l’Internet invisibile e raggiungibile con particolari software. E se l’esistenza di questa kill-list era già emersa in passato, ieri si sono saputi i nomi: 20 personalità di spicco della Germania, tra queste gli ex cancellieri Angela Merkel, Olaf Scholz, politici di primo piano, magistrati. Ad alcuni di loro è stato notificato ieri per la prima volta che erano un target.
Il tedesco-polacco, secondo le leggi della privacy, è stato identificato solo con le iniziali, Martin S. non voleva passare personalmente all’azione, ma aveva raccolto donazioni, destinate a pagare «omicidi su commissione» di persone su cui aveva emesso «condanne a morte».
La pagina di Darknet si chiamava «Assassination Politics» (Politica dell’omicidio). Conteneva istruzioni dettagliate su quali armi usare o come costruire esplosivi. Quanto a Martin S., è membro dei Reichsbürger, l’estrema destra che nega la
legittimità della Repubblica Federale e che ha già compiuto attentati. Era noto alla polizia per reati minori. Si sarebbe radicalizzato attorno al Covid: avrebbe quindi deciso di voler eliminare i rappresentanti di un supposto Stato totalitario.
Come scrive la Reuters, i procuratori non hanno indicato un movente «né suggerito che agisse per conto di un attore straniero». Ma la stessa precisazione mostra il clima in cui vive la Germania. Gli attentati, di matrice islamista, che si succedevano con cadenza mensile sono cessati. Ma le notizie di sabotaggi, danni alle infrastrutture, incidenti sono esplose. Né esiste un unico attore straniero che spaventa.
(da “Corriere della Sera”)
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Novembre 12th, 2025 Riccardo Fucile
MICHAEL CLARKE, GIA’ CONSULENTE DI SUA MAESTA’: “ANCHE SE LA CITTA’ CADESSE, L’OFFENSIVA RUSSA SI FERMEREBBE PER MESI A CAUSA DELLE PERDITE SUBITE”
Ogni considerazione tattica è a favore del ripiegamento: “È quello che gli ucraini avrebbero già dovuto fare”, dice Michael Clarke, specialista della Difesa, più volte consulente del governo e del parlamento britannici per le questioni militari e docente al Kings’ College di Londra. “Il motivo della strenua resistenza è in buona parte politico”, spiega a Fanpage.it. Ed è lo stesso motivo che ha innescato l’accelerazione dell’offensiva russa sulla città che i propagandisti del Cremlino in tivù definiscono “la porta del Donetsk”.
Pokrovsk e la telefonata tra Putin e Trump
“Il fatto è che Putin nella sua telefonata del 16 ottobre ha detto a Donald Trump una cosa falsa, ovvero che la partita a Pokrovsk era chiusa, con gli ucraini circondati e presto prigionieri o peggio”, rivela l’accademico citando sue fonti che vuol mantenere anonime. In realtà, alla metà del mese scorso la situazione a Pakrovsk era ancora fluida. Ma il leader del
Cremlino non credeva di dire una menzogna. “Ha solo ripetuto quello che gli aveva detto il suo Capo di stato maggiore, Valery Gerasimov”, secondo Clarke. Il solito guaio degli autocrati: i dipendenti tendono a dire al capo solo quel che ha piacere di sentire. La realtà non è pane per i regimi.
Quindi, l’accanimento difensivo probabilmente è dovuto anche alla necessità da parte di Kyiv di dimostrare al volubile alleato americano che la situazione non è compromessa, nella oblast di Donetsk. E che ulteriori aiuti militari non sarebbero sprecati. Dalla parte opposta, la veemenza degli attaccanti non ha solo ragioni tattiche o strategiche: si tratta di dimostrare il prima possibile che Putin a Trump ha detto sostanzialmente la verità. Mica per far bella figura. Putin, nella telefonata, cercò di far accettare al collega della Casa Bianca la condizione negoziale del completo ritiro ucraino dal Donetsk. La caduta di Pakrovsk rendeva la richiesta più sensata.
La situazione militare a Pokrovsk e il rischio di un nuovo “caso Avdiivka”
Se è vero che l’amministrazione Trump spinge per rimuovere dalla risoluzione annuale dell’Onu sull’Ucraina i riferimenti alla sovranità e al termine “aggressione”, come scrive il Kyiv Post, significa che The Donald ha di nuovo cambiato opinione e il Cremlino ha fatto centro. E forse c’entra anche Pokrovsk.
Ma Pakrovsk non è ancora caduta. Doveva cadere già un anno fa. Al momento, la città è per il 70 per cento in mano russa — concordano analisti e osservatori Osint. Ma le linee si
sovrappongono, o non esistono più. Nei combattimenti urbani, casa per casa, è sempre così. La nebbia, unico deterrente per i droni, ha permesso ai russi di far affluire nuove truppe, su semplici moto e su veicoli leggeri, anche privati — dimostrano video verificati con Gps e sistemi di localizzazione. Ha anche permesso ai carri armati di Kyiv di centrare posizioni russe intorno a Donetsk, mostrano i video.
Fino al 9 novembre, il rapporto di forze era di almeno due militari di Mosca per ogni ucraino. Oltre 100mila russi contro circa 50mila difensori. E si sta modificando sempre più a favore di Mosca. Il Capo di stato maggiore Oleksandr Syrskyi parla già di 150mila soldati nemici. Presenti brigate meccanizzate e fanti di marina, ha detto al New York Post. Ma la sacca di cui tanto si è parlato in questi giorni non è chiusa. Resta un ampio varco attraverso cui far passare rifornimenti. Ma non è una passeggiata. “È estremamente difficile e pericoloso attraversare quello spazio”, riferisce Michael Clarke. “È letteralmente infestato da droni killer”. Una zona della morte che rende ogni giorno più problematica un’eventuale ritirata.
Le forze armate ucraine hanno rifornito la cittadina di Myrnohrad, a est di Pokrovsk, sostituendo le truppe impegnate, inclusi i feriti. “Le nostre unità mantengono saldamente le posizioni e respingono gli occupanti agli accessi della città. La logistica è complessa, ma in corso”, si legge sull’account Facebook dell’esercito. Il ministero della Difesa russo ha invece scritto su Telegram che gli attaccanti avanzano e conquistano
frazioni e quartieri urbani. Difendendo Pokrovsk a oltranza, le forze armate ucraine “rischiano di ripetere l’errore commesso ad Avdiivka nel febbraio 2024”, nota Michael Clarke.
Ad Avdiivka, Syrskyi ordinò la ritirata appena in tempo per evitare l’accerchiamento e un collasso strategico ma troppo tardi per mettere al riparo le sue truppe dalle forti perdite dovute al caos delle cose fatte all’ultimo momento. Alcuni soldati dovettero ripiegare a piedi, lasciandosi dietro i feriti. Altri si arresero perché, stremati dai combattimenti, non riuscirono a fuggire. La nuova linea fu costruita in fretta e non nelle posizioni ottimali per l’artiglieria dei difensori. Tutto questo ebbe conseguenze negative anche sul morale dei combattenti ucraini.
Le prospettive strategiche nel Donetsk e la guerra di logoramento
Intanto, Kyiv ha annunciato il ritiro da cinque insediamenti a Zaporizhzhia. Secondo il Gruppo d’armate Sud, l’ordine di ritirata è arrivato dopo la distruzione quasi totale di rifugi e fortificazioni dovuta ai bombardamenti. Ampi movimenti russi sono in corso anche nelle aree di Liman, Seversk e Kupiansk. Quest’ultima, è in parte sotto il controllo russo — dice Mosca. “Il Cremlino è riuscito a ottenere l’obiettivo strategico di far concentrare nel settore di Pokrovsk riserve e unità di élite di Kyiv, indebolendone le linee difensive su altri fronti”, afferma Clarke. La strategia sta pagando.
Se poi cadrà Pokrovsk, i russi non dilagheranno in tutto il Donetsk ma punteranno sulle “fortezze”della regione: Sloviansk
e Kramatorsk, sostiene l’analista militare londinese. Saranno facilitati dalle strade e dalle ferrovie che arrivano alla “porta del Donetsk”. Altrove, sarà difficile avanzare: in un anno, gli ucraini hanno avuto il tempo di costruire due linee difensive arretrate alle spalle della città presa di mira dalla Russia. Soprattutto, “ogni nuova offensiva russa non avverrebbe per qualche mese, almeno fino a febbraio”, dice ancora Clarke. I russi hanno consumato troppe energie, perso troppi mezzi e troppi uomini, per Pokrovsk. “Non potrebbero continuare subito, come farebbe un esercito normale ed efficiente. Farebbero una lunga pausa”, conclude il professore.
Le armate di Putin in circa 1360 giorni dall’invasione dell’Ucraina hanno fatto un sessantina di chilometri, da Donetsk a Pokrovsk. L’Armata Rossa nei 1417 giorni di guerra contro la Germania nazista arrivò a Berlino. Che da Stalingrado (oggi Volgograd), punto di svolta di quel conflitto, dista 2700 chilometri. Ma quella di oggi è solo una “operazione militare speciale”.
(da Fanpage)
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Novembre 12th, 2025 Riccardo Fucile
EMERGE UN NUOVO CASO: L’ASL DELL’AQUILA NEL 2023 SUBÌ UN ATTACCO HACKER MA NON FU MULTATA, NONOSTANTE LA VIOLAZIONE DI DATI DEI PAZIENTI, DOPO CHE SI ERA AFFIDATA ALLO STUDIO LEGALE FONDATO DA GUIDO SCORZA, MEMBRO DEL COLLEGIO DEL GARANTE, PAGANDO 130MILA EURO
Gli hacker violano la banca dati dell’Asl, che per questo rischia una multa record dal Garante
della privacy. E a quale studio legale si rivolge l’azienda sanitaria per difendere la sua posizione, investendo 130mila euro? A quello fondato da Guido Scorza, uno dei membri del collegio del Garante, studio dove lavorano ancora sua moglie e un altro avvocato vicino al presidente Pasquale Stanzione.
Risultato, l’Asl riceve solo un ammonimento perché «ha cooperato ben oltre l’obbligo di legge». A far emergere la vicenda è un altro legale, l’avvocato Simone Liprandi, che lo ha segnalato anche ad Anac e Corte dei Conti. L’accusa è di aver violato la norma sul conflitto d’interessi
Anche perché non si tratta dell’unico episodio, come dimostra la vicenda, già raccontata da Repubblica, di Agostino Ghiglia e di un’azienda sanitaria della provincia di Torino: in un’intercettazione, la dirigente indagata parla della «multa da 5.000 euro» dell’authority e aggiunge di volerne parlare con «mio cugino Ago», membro del Garante. Il quale sulla decisione non si astiene.
Cambia l’Asl e cambiano le parentele ma ora spunta un caso simile per l’azienda sanitaria de L’Aquila. A maggio 2023 un attacco hacker svela i dati sanitari di 6.800 pazienti, per un totale di 389 gigabyte distribuiti nel “dark web”. Una violazione della privacy di enormi proporzioni, per cui partono indagini e reclami al Garante: per questo l’Asl spende 5.000 euro per un legale, poi altri 130.000 per lo studio E-Lex di Roma, specializzato in diritto dell’informatica e privacy.
L’avvocato Liprandi parla di «duplice spesa non giustificata» e, nella sua segnalazione ad Anac e Corte dei Conti, aggiunge: «E-Lex vanta una particolare vicinanza con due dei quattro membri del collegio». Perché l’avvocato Ernesto Belisario, che ha firmato l’offerta all’Asl, ha fondato lo studio legale insieme a Scorza, che a questo giornale ha detto di aver interrotto ogni rapporto quando è stato eletto al Garante.
Ma Liprandi sostiene che avrebbe partecipato a eventi organizzati dagli ex colleghi anche in tempi recenti. Inoltre è il marito dell’avvocato Maria Grazia Capolupo, che in E-Lex è responsabile del contenzioso civile.
Un altro socio fondatore dello studio, l’avvocato Giovanni Maria Riccio, è allievo della scuola di dottorato all’Università di Salerno coordinata dal professor Pasquale Stanzione, presidente del collegio del Garante, e dalla moglie, la professoressa Gabriella Autorino. E anche altri funzionari dell’autorità risultano appartenere alla stessa «famiglia accademica».
Scorza sostiene di essersi astenuto quando ha scoperto che l’Asl abruzzese era difesa dallo studio “amico”, anche se non risulta
dal provvedimento: «Gli uffici avevano proposto una sanzione di 5.000 euro e il collegio, all’unanimità, ha deciso di ammonire il titolare del trattamento anziché infliggere una sanzione poco più che simbolica. Non solo il conflitto di interessi non c’è stato perché non ho partecipato al voto ma non sarebbe stato determinante neppure se avessi partecipato».
(da agenzie)
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Novembre 12th, 2025 Riccardo Fucile
IL COSTITUZIONALISTA AINIS: “LE AUTORITA’ SONO SENTINELLE DEI DIRITTI, MA DEVO APPARIRE INDIPENDENTI, NON E’ QUESTO IL CASO”
Il tentativo — malevolo e maldestro — di mettere un bavaglio a Report non è che l’ultimo episodio. Ne è stato artefice il Garante della privacy, che a quanto pare si preoccupa di tutelare la propria privacy, anziché la nostra. Però la trasmissione di Ranucci è andata in onda, mentre il Garante è finito sotto un’onda. Recando un danno non soltanto alla libertà d’informazione, ma al suo stesso ruolo. Le autorità indipendenti sono altrettante sentinelle dei diritti, tuttavia possono riuscirci a condizione d’apparire davvero indipendenti dai potentati economici e politici. Non è questo il caso. E d’altronde l’assalto alla libertà di stampa registra ogni giorno una nuova puntata.
Qualcuno dirà: nulla di nuovo. La volontà di reprimere il dissenso è antica quanto l’esperienza del potere, si ripete perciò lungo tutti gli itinerari della storia. Ne fu vittima Cristo, processato e ucciso per le sue parole; ma si può inoltre ricordare la persecuzione di Socrate, o più tardi di Giordano Bruno, o di mille altri martiri della libertà. Del resto la repressione delle voci antagoniste agisce in molte forme, non soltanto con la forca. E ha raccolto paladini autorevoli come Thomas Hobbes, che avallò il potere dello Stato di proibire la diffusione di opinioni pericolose per la pace sociale.
Sennonché la circolazione di opinioni dissonanti giova a tutti, a chi è d’accordo e a chi non è d’accordo. Non foss’altro che per la ragione illustrata nell’Ottocento da Alexis De Tocqueville, dato che ciò frappone un argine alla «tirannia della maggioranza».
È questo, infatti, il lascito del costituzionalismo, della cultura dei
diritti che ha aperto l’età contemporanea. Ma questo lascito adesso si è appannato, benché sopravvivano — almeno sulla carta — le garanzie giuridiche che proteggono l’informazione nel suo duplice aspetto: la libertà d’informare, senza altri limiti che quelli dettati dalla deontologia dei giornalisti; la libertà d’essere informati.
Se però si viaggia dal paradiso della Costituzione all’inferno della vita reale, il paesaggio è di tutt’altro stampo. Stando alla classifica sulla libertà di stampa stilata ogni anno da Reporter sans frontières, nel 2025 il risultato italiano è stato il peggiore dell’Europa occidentale, scivolando dal 46° al 49° posto rispetto al 2024.
Per quali ragioni? Da un lato, «il tentativo della classe politica di ostacolare la libera informazione in materia giudiziaria attraverso una legge bavaglio» (ossia il decreto legislativo n. 198 del 2024, che vieta la pubblicazione testuale delle ordinanze d’arresto). Per altri versi, «la prassi di azioni legali intentate per intimidire, imbavagliare o punire coloro che cercano di esprimersi su questioni di interesse pubblico».
Alla crisi della libertà di stampa s’accompagnano altresì molteplici episodi di censura contro le voci non allineate, specialmente dopo lo scoppio della guerra in Ucraina. Provocata dall’invasione russa, e avversata giustamente dall’Europa, fornendo assistenza all’esercito ucraino. Ma un conto è la politica, un conto è la cultura. Ci si può opporre a Putin, non all’arte russa. Né silenziare chi manifesti un’opinione divergente
rispetto alle verità ufficiali.
Eppure in questi ultimi mesi sono stati annullati prima un concerto alla Reggia di Caserta di Valery Gergiev, direttore d’orchestra russo di fama internazionale; poi un’esibizione all’Arena di Verona del baritono russo Ildar Abdrazakov. E sempre con il beneplacito del ministro della Cultura, Alessandro Giuli: «L’arte è libera, ma la propaganda è un’altra cosa». Mentre nei giorni scorsi è caduta sotto la scure del censore una conferenza a Torino di Angelo d’Orsi, allievo di Bobbio e storico illustre, su “Russofobia, russofilia, verità”.
Sorvegliare e punire, recita un celebre saggio di Foucault. E negli ultimi anni la vigilanza occhiuta dello Stato italiano si concentra sui giornalisti scomodi e sugli oppositori radicali, come mostra il caso Paragon. Quando abbiamo scoperto che i loro cellulari erano stati infettati da uno spyware messo a punto dalla società israeliana Paragon Solution, che lo ha fornito alle agenzie di intelligence di vari Paesi, fra i quali l’Italia. Dal canto suo, il governo ha subito negato ogni implicazione. Negare sempre, anche di fronte all’evidenza: la strategia eterna dei fedifraghi.
Michele Ainis
(da repubblica.it)
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Novembre 12th, 2025 Riccardo Fucile
BOLLETTE PIU’ ALTE D’EUROPA, ECCO PERCHE’ LE RINNOVABILI IN ITALIA NON LE ABBASSANO
Lo sappiamo: l’elettricità in Italia è la più cara d’Europa. Lo scorso anno il prezzo medio
all’ingrosso (Pun) è stato di 108,5 euro per Mwh a fronte dei 78 euro della Germania e dei 58 euro della Francia. Nell’area scandinava, con la Norvegia dove oltre il 95% dell’energia prodotta è green, invece il prezzo è crollato a 36 euro. E allora, cosa frena la corsa alle rinnovabili?
Obiettivi a rischio
Nel 2024 in Italia abbiamo consumato312.285 Gwh di elettricità (Qui pag. 10), ne abbiamo importati 51mila, mentre il resto ce lo siamo prodotti da soli, per il 49% da fonti rinnovabili, compresi 1.992.117 impianti fotovoltaici e 6.148 eolici. Quel che resta, arriva da fonti fossili. Per arrivare alle emissioni-zero entro il 2050, il Pniec (Piano Nazionale per l’Energia e il Clima)
stabilisce che entro il 2030 le rinnovabili dovranno coprire il 63,4% dei nostri consumi, ma in pochi credono riusciremo a centrare l’obiettivo. Se guardiamo all’ultimo decennio la nostra capacità Fer è aumentata del 44%, mentre in Francia è salita del 75%, in Spagna del 78%, e in Germania del 93% (Dati Agici–Osservatorio Rinnovabili).
La spinta
Gli esperti del settore dicono che la spinta deve arrivare soprattutto dai grandi impianti, che «costano meno e producono di più», ma purtroppo i segnali non sono buoni: nei primi nove mesi del 2025 gli investimenti nelle strutture di larga scala sono scesi del 28% (dati Anie).
Non bastano l’Iva al 10% (sui componenti è al 22), la possibilità di vendere l’energia a una tariffa fissa garantita che mette al riparo dalle oscillazioni del mercato, e il contributo a fondo perduto del 40% per l’agrivoltaico. A spaventare gli investitori è l’assenza di certezze: anche con tutte le carte in regola, non possono prevedere se riusciranno o meno a ottenere tutte le autorizzazioni necessarie. E se anche le ottengono, Dataroom (qui e qui) ha già raccontato come il sistema di norme e pareri dilati i tempi all’infinito: tra la prima istanza per un grande parco fotovoltaico e la sua costruzione, possono trascorrere 70 mesi, e 78 per l’eolico (Osservatorio R.e.gions2030).
La frenata è dovuta a due fattori: il groviglio normativo e l’opposizione dei territori sui quali quegli impianti dovrebbero sorgere.
Il caos legislativo
Michelangelo Lafronza, segretario Anie Rinnovabili, l’associazione che riunisce la imprese del settore: «Negli ultimi 10 anni, sul fronte delle rinnovabili abbiamo avuto almeno trenta tra norme e decreti diversi». Nel mezzo c’è pure il pasticcio delle aree idonee: tra il 2021 e il 2024 la legge prima dice che i pannelli a terra possono andare nei terreni agricoli purché a ridosso delle aree manifatturiere, poi che non si può. E alla fine, tocca alle Regioni individuare le aree di accelerazione (dove l’iter autorizzativo dovrebbe essere rapidissimo), quelle idonee, e quelle dove è meglio evitare gli impianti. Tutto chiaro? Non proprio: a maggio di quest’anno, il Tar ha bocciato il decreto perché lascia troppa discrezionalità alle Regioni e ora il governo ne sta scrivendo un altro.
Ma nel frattempo le Regioni si sono mosse, in genere con un’interpretazione «restrittiva» così da prevenire il malcontento degli elettori. E si è scatenata una raffica di ricorsi. La prima a fare la sua legge è stata la Sardegna bloccando anche impianti già autorizzati. Il governo la impugna, la Regione ne approva un’altra dove quasi tutta la regione è «non idonea» e il governo impugna pure quella. A lugliola Corte Costituzionale censura la Regione Calabria: un’area non idonea non equivale a divieto assoluto; a ottobre 2025 il Consiglio di Stato annulla due delibere del Piemonte che vietano il fotovoltaico a terra su aree agricole di elevato interesse economico. E così via…
L’opposizione
In Italia ci sono 120 tra comitati e associazioni che organizzano cortei, convegni e petizioni per dire no all’eolico e al fotovoltaico a terra. A volte hanno ragione, altre volte no. Chi di certo è dalla parte del torto, sono i violenti: negli ultimi sedici mesi si registrano sette tra incendi e sabotaggi. Più volte nel mirino è finito il cantiere di Agsm autorizzato alla costruzione di un parco eolico sulle montagne del Mugello: gli attivisti hanno asportato recinzioni e picchetti, piantato chiodi sugli alberi per renderne pericoloso il taglio, e a luglio hanno danneggiato i macchinari e aggredito ingegneri e boscaioli. In Sardegna, dove si sospetta l’infiltrazione criminale nel business dell’eolico, hanno svitato i dadi alla base delle pale, incendiato pannelli fotovoltaici, e lanciato molotov contro i teli di protezione di un deposito.
L’iter per l’approvazione degli impianti non prevede la consultazione della popolazione locale, ma le proteste influenzano i politici locali secondo la logica del Nimtoo («Not in my terms of office», non durante il mio mandato elettorale).
Un esempio: il 13 giugno la Ponente Green Power propone 4 pale eoliche nelle valli del Natisone, in una zona del Friuli che non ricade tra quelle definite «non idonee», e subito un comitato fa partire la raccolta firme. A fine luglio 15 sindaci si accodano perché «compromette paesaggio, fauna, popolazione», e ad agosto in Regione arrivano i pareri contrari di decine di associazioni. Il 2 ottobre l’assessore regionale all’energia Fabio Scoccimarro si schiera col fronte dei contrari: «La mia
valutazione politica è che il grande eolico da noi non ha motivo di essere». Lo stesso giorno esce il decreto della commissione tecnica regionale: servono altri approfondimenti, l’autorizzazione per le quattro pale dovrà passare per la Valutazione d’impatto ambientale.
Le accuse alle rinnovabili
Da nord a sud, le motivazioni di chi protesta sono più o meno le stesse:
1) «Rovina il paesaggio, ruba spazio all’agricoltura». L’Italia ha spazio per estendere le rinnovabili senza invadere i suoi scorci più belli? Uno studio del Politenico di Milano dice di sì: anche considerando l’effettiva possibilità di allacciarsi alla rete, ci sono 210 km quadrati di aree dismesse (ex cave, ex discariche, ex industrie) adatte a ospitare fotovoltaico. E fino a 490 km quadrati per il fotovoltaico a terra (attualmente ne sono stati occupati 177), si ricaverebbero usando appena il 4% delle zone agricole che giacciono inutilizzate.
2) «Le rinnovabili inquinano». Ridurre gli inquinanti è l’unica soluzione per frenare il cambiamento climatico, e «ogni frazione di grado in più significa più fame, sfollamenti e perdite», ha spiegato il segretario dell’Onu Guterres in vista della Cop 30 che si è aperta a novembre in Brasile.
I dati dell’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili (Irena) e dell’Università di Oxford dimostrano che per fabbricare un impianto da un Mw di fotovoltaico a terra servono 200 tonnellate di materiali, poi si alimenterà gratis per 30 anni. Pe
produrre la stessa elettricità, a una centrale termoelettrica servono 14mila tonnellate di carbone e 5mila di gas. E quando hanno concluso il loro ciclo? Nicola Armaroli, dirigente di ricerca del Cnr: «Gli impianti eolici sono riciclabili o riutilizzabili al 95%, praticamente ogni componente tranne le pale, invece oggi è ancora anti-economico separare le materie prime che compongono i pannelli fotovoltaici, ma si arriverà a fare anche questo. Èuna grande occasione: nel 2050 avremo 2,2 milioni di tonnellate di pannelli da smaltire, se non creiamo una nostra industria dovremo farli riciclare alla Cina».
3) «Non conviene». Secondo il Politecnico di Torino l’attuale sistema di trasmissione dell’energia elettrica, basato su un’infrastruttura a corrente alternata, crea dei «colli di bottiglia» che impediscono agli impianti di produrre alla loro capacità massima, perché non sempre si riesce a trasferire grandi quantità di potenza sulle lunghe distanze. Le soluzioni ci sono, a cominciare da quella di realizzare una rete a corrente continua ad alta tensione e implementare i sistemi di accumulo. I costi sembrano elevati, ma sganciarci dal gas e raggiungere l’obiettivo 2050, per l’Italia significa guadagnare 900mila posti di lavoro (qui lo studio dell’Università di Roma) e, come ci insegna la Norvegia, ridurre le bollette. L’Agenzia Internazionale per l’Energia dice che produrre un Mwh di solare ed eolico costa 4 volte meno del gas e 3 volte meno del nucleare. Infatti Ferrovie dello Stato (la più grande azienda energivora del Paese) ha appena chiuso i bandi d’acquisto di energia green a lungo
termine: invece dei 110 €/Mwh, che è il prezzo medio all’ingrosso nel 2025 , pagherà 75 euro la fotovoltaica; e 90 euro l’eolica.
Battaglia ideologica
Per Trump le fonti di energie rinnovabili «sono la truffa del secolo» e l’eolico «causa il cancro». Frasi come queste non hanno alcuna base scientifica, ma offrono nuovi pretesti per frenare la transizione energetica. Conclude Armaroli (Cnr): «Prima con il Covid poi con l’impennata del prezzo del gas dovuto alla guerra, gli italiani si erano schierati a favore delle rinnovabili, ora la controffensiva delle lobby dei combustibili fossili sostenute dalla Casa Bianca è arrivata qui, e trascina su posizioni ideologiche che ignorano i dati scientifici e generano un oggettivo danno economico ad aziende e famiglie».
Milena Gabanelli e Andrea Priante
(da corriere.it)
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Novembre 12th, 2025 Riccardo Fucile
FINANZIARIA DI GALLEGGIAMENTO, SEPARAZIONE DELLE CARRIERE, ELEZIONI DIRETTA DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO
Grande è la versatilità di Giorgia Meloni nel passare dalla postura di statista di livello internazionale, che alterna serietà compunta e faccine sorridenti ammiccanti, a quella di guida di un governo variamente sfidato da opposizioni in disordine sparso, «costretto» a difendersi e a contrattaccare con toni minacciosi da comiziante (una parte che le ha dato fama e probabilmente portato voti).
Qualche volta, però, di recente, la presidente del Consiglio manifesta un eccesso di nervosismo che la spinge sopra le righe. Con un verbo che a Colle Oppio è di uso frequente, Meloni “sbrocca”. Raffinati psicologi meglio esploreranno modi, tempi, entità della perdita di controllo sulla voce e sul body language. Utile, forse preferibile andare all’individuazione delle cause politiche del comportamento di Meloni.
Il fatto
A uso dei sostenitori e degli oppositori premetto che le difficoltà e le tensioni, le criticità nelle azioni del governo e le appena visibili conseguenze non positive non si traducono né immediatamente né automaticamente in caduta di consensi per lei e per il suo governo né, meno che mai, in impennate di intenzioni di voto per le opposizioni e i loro dirigenti. Ci vuole altro. Poi, però, purtroppo per loro, i benaltristi non sanno dire con sufficiente previsione e condivisione che cos’altro e come manca e da chi potrebbe essere prodotto.
L’agenda della valutazione e, presumibilmente, delle preoccupazioni del governo (e delle migliori fra le opposizioni, alcune sono solipsistiche) la dettano il fatto, il non fatto e il fatto male. La legge finanziaria è il fatto più importante. Sul punto mi atterrò alla sapida espressione inglese “a gentleman never quarrels about figures”.
Non importa se i numeri danno qualche premietto ai ceti medi, tali definiti con riferimento ai redditi che spesso sappiamo non essere proprio il più affidabile degli indicatori. Importa poco anche che i “ricchi” sfuggano a qualsiasi aggravio. No, Robin Hood non frequenta nessuna foresta italiana. Importa di più che ai ceti più deboli non vengano dati aiuti più cospicui. Cruciale, invece, è che il governo preferisca il galleggiamento a interventi “coraggiosi” per la crescita, per aumentare le dimensioni della torta e non per (re)distribuire poco più delle briciole.
Sarà, come argutamente sospetta Giulia Merlo, la Finanziaria dell’anno elettorale a mostrare tutta la sua spinta espansiva, fatta
specialmente di regali più meno mirati, collocati in bella mostra in vagoncini clientelari?
Quasi fatta è la separazione delle carriere fra pubblici ministeri e magistrati giudicanti. Non sarà lo sbandierato ricordo che questa riforma la voleva Silvio Berlusconi a farmi votare Sì al referendum prossimo venturo. Infatti, fra i mei ricordi trovo anche le strenue battaglie del Cavaliere e dei suoi seguaci non solo “nei” processi, ma “contro” i processi. Quanto ai sondaggi che danno al Sì un buon vantaggio, ricordo che anche il referendum di Renzi partì con notevole abbrivio che si spense piuttosto rovinosamente. Memore, Meloni ci rassicura o ci gela: il rigetto (referendum nient’affatto “confermativo”) non farà cadere il governo che pure quella separazione ha voluto e imposto. Non esattamente un bell’esempio di accountability.
Il non fatto
Fra il non fatto risplende «l’elezione diretta del presidente del Consiglio dei ministri», sbrigativamente il premierato. Definita da Meloni stessa «la madre di tutte le riforme» sembra destinata a rimanere incinta ancora per molti mesi. Per non incorrere in un referendum rischioso assai nonostante il probabile sostegno dei riformisti già impunitamente renziani, è tutto rimandato alla prossima legislatura.
Servirà, forse, in campagna elettorale quando si potrà assistere allo spettacolo senza precedenti dell’unica capa del governo italiano rimasto in carica per l’intera legislatura che chiede voti per la stabilità, degli altri. Sì, anche questa non remota
eventualità provoca una non modica dose di nervosismo. Troppo banale concluderne che, al momento, non si vede chi sappia approfittarne e come?
(da editorialedomani.it)
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