QUALI SONO LE PROVE CONTRO ISRAELE NEL PROCESSO PER GENOCIDIO ALLA CORTE INTERNAZIONALE DI GIUSTIZIA
“ISRAELE E’ ACCUSATA DI UNA CAMPAGNA MILITARE ELIMINAZIONISTA, I SUOI LEADER HANNO INCITATO AL GENOCIDIO DEI PALESTINESI”
Israele sta commettendo un genocidio nella Striscia di Gaza? E il massacro di palestinesi, per lo più civili, può essere ancora interrotto? È su questi due aspetti che la Corte Internazionale di Giustizia – il massimo organo giudiziario delle Nazioni Unite – è chiamata ad esprimersi dopo la causa intentata nelle scorse settimane dal Sudafrica. La prima udienza si sta svolgendo in queste ore nel Palazzo della Pace all’Aia, nei Paesi Bassi. Pretoria accusa Tel Aviv di aver commesso un genocidio in violazione della Convenzione per la prevenzione e repressione di tale crimine del 1948, testo ratificato sia dal Sud Africa che da Israele.
Più nello specifico Pretoria ha portato due serie di prove: l’entità della devastazione a Gaza, a partire dal gran numero di morti (oltre 23mila), e un lungo elenco di citazioni di funzionari israeliani, che negli ultimi tre mesi hanno ripetutamente sollecitato massacri contro i civili palestinesi. Le deliberazioni del tribunale dell’Aia sul genocidio potrebbero richiedere diversi mesi o anni. Il Sudafrica, tuttavia, chiede anche alla Corte Internazionale di Giustizia una misura provvisoria e rapida, ordinando a Israele di interrompere immediatamente la sua campagna militare a Gaza.
La seconda richiesta è indipendente dalla prima e potrebbe essere accolta nel giro di pochi giorni. Dunque, cosa accadrà adesso alla Corte dell’Aia? E quali sono gli esiti della causa intentata dal Sudafrica contro Israele?
Fanpage.it ha interpellato il professor Luigi Daniele – docente di Diritto dei conflitti armati e diritto Internazionale Umanitario e penale alla Nottingham Trent University.
Oggi alla Corte Internazionale di Giustizia si sta svolgendo la prima udienza sulla causa intentata dal Sudafrica – sostenuto da Turchia, Malesia e Bolivia – contro Israele per la guerra a Gaza. Quali sono nel dettaglio le accuse contro Tel Aviv?
Le accuse sono di violazione, da parte di Governo ed esercito israeliani, degli obblighi discendenti dalla Convenzione per la prevenzione e repressione del crimine di genocidio del 1948, cioè in concreto l’aver “minacciato, istigato, adottato, approvato e commesso” condotte di genocidio contro il popolo palestinese, “come distinto gruppo nazionale ed etnico”. Secondo il Sudafrica (in ciò allineato al parere di una moltitudine di organizzazioni internazionali e al prestigioso Istituto Lemkin per la Prevenzione del Genocidio) le condotte di genocidio configurabili sono l’uccisione di membri del gruppo vittima, le lesioni gravi all’integrità fisica e mentale di membri del gruppo e l’inflizione deliberata di condizioni di vita intese a provocare la distruzione fisica parziale del gruppo stesso (rispettivamente articoli 2(a), 2(b) e 2(c) della Convenzione). I giuristi sudafricani insistono sulle affermazioni ripetute da rappresentanti dello Stato di Israele, ai livelli più alti, ad esempio dal Presidente israeliano, dal Primo Ministro e dal Ministro della Difesa, che ritengono esprimere un dolo specifico di genocidio.
Oltre alle dichiarazioni dei leader israeliani sono state messe in atto pratiche configurabili come genocidio?
L’intento genocidario può essere dedotto, secondo i ricorrenti, anche dalla natura e dalle modalità operative dell’operazione militare di Israele a Gaza, tenendo conto, tra l’altro, dell’impedimento da parte di Israele dell’arrivo di cibo, acqua, medicine, carburante e aiuti umanitari essenziali per la sopravvivenza della popolazione palestinese assediata e bloccata, spingendola sull’orlo della carestia. Ma il Sudafrica insiste anche su portata, estensione, tipologia e distruttività degli attacchi militari di Israele a Gaza, che hanno coinvolto il bombardamento prolungato per 3 mesi di uno dei luoghi più densamente popolati al mondo, costringendo all’evacuazione 1,9 milioni di persone, cioè l’85% della popolazione di Gaza, dalle loro case e radunandole in aree sempre più piccole, senza rifugi adeguati, in cui continuano ad essere attaccate, uccise e ferite in massa. Israele, ad oggi, ha ucciso oltre 23.350 palestinesi identificati, inclusi almeno 9.600 bambini e almeno 6750 donne (70% delle vittime, cui vanno aggiunti tutti i civili uccisi tra i circa 7mila maschi adulti, per un totale verosimilmente tra l’85 e il 90% di vittime civili rispetto a quelle complessive), con oltre 8mila altri dispersi, presumibilmente morti sotto le macerie, e ha ferito oltre 60mila altri palestinesi, causando loro gravi danni fisici e mentali. Israele, nota il Sudafrica, ha anche distrutto vaste aree di Gaza, compresi interi quartieri residenziali, e ha danneggiato o distrutto oltre 360mila case palestinesi, insieme a vaste porzioni di terreni agricoli, panetterie, scuole, università, imprese, luoghi di culto, cimiteri, siti culturali ed archeologici, edifici municipali e giudiziari, nonché infrastrutture critiche, tra cui impianti idrici e fognari e reti elettriche, mentre perseguiva un attacco incessante contro il sistema sanitario e i presidi medici palestinesi. Israele, affermano i giuristi sudafricani, ha ridotto e continua a ridurre Gaza in macerie, uccidendo, ferendo e distruggendo la sua popolazione e creando condizioni di vita intese a causarne la distruzione fisica come gruppo.
Quali prove sono state raccolte per inchiodare lo stato di Israele alle sue responsabilità nel processo alla Corte Internazionale di Giustizia?
Le giovani giuriste e giuristi dell’organizzazione Law for Palestine hanno messo insieme un catalogo di più di 500 dichiarazioni di pubblici ufficiali, personale militare e commentatori di istigazione pubblica e diretta al genocidio dei palestinesi, che ai sensi della Convenzione vanno perseguite. Per responsabilità statali, come quelle di cui si discute alla CIG, il punto sono le dichiarazioni di ufficiali di governo. I riferimenti ad ordini divini di massacri indiscriminati (come quello di Netanyahu allo sterminio degli Amaleciti), la rimozione ideologica di ogni innocenza di due milioni e mezzo di civili (come quella del Presidente Herzog, che affermava l’intera “nazione” di Gaza essere responsabile del 7 ottobre, negando apertamente l’esistenza di civili non coinvolti), o il linguaggio disumanizzante (“tutti terroristi”, “animali”, o comunque “parenti di terroristi”) o la valanga di istigazioni ad “annientare, distruggere, bruciare, radere al suolo, cancellare dalla faccia della terra” Gaza sono tutte rilevanti. Indicano, secondo il Sudafrica, un esecutivo che ha predisposto e portato avanti una risposta militare di stampo eliminazionista. A ben vedere, tra le numerose immagini registrate da soldati israeliani mentre distruggono interi quartieri, scuole, università, o addirittura ironizzano divertiti sul fatto che “non si trovano più bambini” a Gaza, alcune – citate nel ricorso sudafricano – riprendono i soldati stessi cantare di essere a Gaza per “eliminare la stirpe di Amalek”, allo slogan “non ci sono civili non coinvolti”, dunque riproducendo esattamente le affermazioni di Herzog e Netanyahu.
Al di là di tutti questi aspetti, la catastrofe umanitaria e sanitaria inflitta scientemente alla popolazione civile di Gaza, privata dagli ordini di assedio totale dei mezzi di sussistenza e di cura (con epidemie mortali rivendicate come legittimo strumento di guerra da uno dei consulenti del Ministro della Difesa), unita ai ben 600 attacchi militari a strutture sanitarie già allo stremo nella cura di decine di migliaia di mutilati, feriti e vulnerabili (soprattutto bambini), costituiscono i nodi più critici e meno difendibili. Non è necessario, in altre parole, uccidere decine di migliaia di membri del gruppo vittima per violare gli obblighi della Convenzione, è sufficiente imporre condizioni tali da lasciarne morire più o meno lentamente una parte sostanziale, o quanto meno l’aver agito in questo senso, senza necessità che si realizzi compiutamente la distruzione fisica del gruppo stesso (altrimenti un genocidio si configurerebbe solo quando realizzato nella sua interezza e in tutte le sue estreme conseguenze, svuotando di senso gli obblighi giuridici di prevenzione).
Dunque, cosa accadrà adesso alla Corte dell’Aia e quando si arriverà a un verdetto definitivo?
A questo stadio, alla Corte è richiesto solo di pronunciarsi sulle misure cautelari richieste dal Sudafrica al fine di interrompere le violazioni, tra cui l’ordine di cessazione delle ostilità per prevenire ulteriori massacri di civili. Per la decisione nel merito del caso, invece, potrebbero volerci anni. Per emettere questa sentenza provvisoria, invece, la corte deve solo accertarsi – questo aspetto è fondamentale – che il verificarsi di un genocidio sia plausibile e che esista il rischio di danni irreparabili in mancanza dell’adozione delle misure cautelari richieste.
La cessazione delle ostilità, comunque, non è l’unica misura richiesta. Il Sudafrica richiede anche il ritiro degli ordini di assedio comportanti ostruzioni all’ingresso di tutti gli aiuti (al momento gravemente insufficienti a evitare morti per carestia, malattie e mancanza di cure), così come quelli che comportano l’espulsione forzata dei palestinesi dalle proprie aree di residenza. Israele interverrà nel procedimento, contestando le accuse. Successivamente, altri stati potranno intervenire formalmente con le proprie osservazioni circa la contesa, così come accaduto in precedenza in altri casi.
Quali sono i possibili esiti di questa causa? E cosa rischia lo stato di Israele, nel concreto?
Gli ordini della Corte sono immediatamente vincolanti. Non esistono, però, autorità sovranazionali di esecuzione, come una polizia a livello nazionale, per intenderci, per cui le misure per imporre il rispetto degli ordini della Corte, in caso di rifiuto dello stato, andrebbero applicate dal Consiglio di Sicurezza. Ciononostante, un ordine di cessazione delle ostilità sarebbe un colpo significativo per il Governo israeliano, a quel punto ufficialmente sanzionato per le proprie gravi violazioni, comparabili a quelle del Governo della Federazione Russa.
Inoltre, la Convenzione proibisce la complicità nel genocidio. Esistono già casi incardinati dinanzi a corti domestiche statunitensi per complicità e violazioni dei rispettivi obblighi nazionali di prevenzione del genocidio a Gaza. Questi obblighi, infatti, rispetto ai genocidi, sono interpretati dalla Corte stessa come autenticamente universali, erga omnes partes, nel senso di spettare a qualsiasi stato che abbia mezzi in proprio potere per contribuire a porre fine alle violazioni (il Sudafrica stesso afferma di aver agito adempiendo a tali obblighi) ed il cui adempimento ciascuno stato parte è legittimato a invocare, a prescindere dalla sussistenza di un danno o interesse specifico dello stato stesso.
Una pronuncia di merito favorevole al Sudafrica, in ogni caso, avrebbe ramificazioni giuridiche, diplomatiche e commerciali di primo ordine, poiché a quel punto gli stati terzi rischierebbero, continuando il proprio supporto incondizionato, di rendersi a tutti gli effetti complici (in senso giuridico e non solo politico, o morale, in cui i profili di complicità sono già ampiamente chiari).
Ci sono già dei precedenti di ricorso alla Corte Internazionale di Giustizia? Ci riassume come andò a finire?
Sì, diversi. Quello più risalente, Bosnia contro Serbia. Più di recente, il ricorso del Gambia contro il Myanmar, ma anche quello dell’Ucraina contro la Federazione Russa. In entrambi i casi la Corte ha ordinato misure provvisorie. Nel caso del Gambia, alla contestazione del Myanmar che non esistesse una effettiva disputa tra i due stati, tale da radicare la competenza della Corte, fu sufficiente opporre le note ufficiali inviate dal Gambia, a cui aveva fatto seguito il silenzio del Myanmar, per registrare l’esistenza di una disputa sulla Convenzione del 1948. In questo caso, siamo di fronte a una disputa anche più evidente, poiché Israele ha accusato apertamente il Sudafrica di aver avanzato una calunnia e di essersi resa complice di Hamas. Curioso, visto che al quarto rigo della prima pagina del ricorso del Sudafrica vi è una chiara ed equivocabile condanna dei crimini di Hamas.
Nel caso del Gambia contro il Myanmar, l’ordinanza di misure provvisorie fu adottata nel gennaio del 2020 all’unanimità. Nel caso dell’Ucraina contro la Russia, l’ordinanza di misure provvisorie, inclusa la cessazione immediata delle ostilità, è stata adottata con 13 voti favorevoli e due contrari, nel marzo 2022.
Quali sono le differenze tra Corte Internazionale di Giustizia e Corte penale internazionale?
La Corte Internazionale di Giustizia dirime le controversie tra stati, accerta responsabilità di diritto internazionale degli stati come enti. La Corte penale internazionale è un tribunale penale che accerta responsabilità di individui per crimini internazionali.
Anche la Corte penale internazionale sta indagando sui crimini commessi in Israele e a Gaza, seppur con gravi ritardi e una postura assai più dimessa di quella sui crimini commessi in Ucraina, in cui si è mostrata capace di perseguire il diritto alla giustizia delle vittime senza timore dei rapporti di forza, avendo emesso in tempi relativamente brevi un mandato d’arresto contro il capo di stato della seconda potenza nucleare del pianeta (e giustamente).
Singoli individui e leader israeliani potrebbero rispondere anche alla Corte penale internazionale?
Sì, dovrebbero. Il baratro delle atrocità commesse a Gaza, chi le ha seguite lo sa, è una mostruosità che segnerà la storia di questo secolo. Se chi le ha ordinate rimarrà impunito, così come è accaduto in questo contesto fino ad oggi, l’impunità sarà una luce verde per atrocità contro le popolazioni civili nei conflitti del futuro. Inoltre, ferma restando la necessità di accertamenti terzi ed imparziali, anche membri dei gruppi armati palestinesi potrebbero e dovrebbero rispondere delle azioni del 7 ottobre contro civili israeliani.
Attualmente il nodo è interamente nel campo del Procuratore della Corte penale internazionale, Karim Khan, il cui approccio fino ad oggi ha sollevato numerose critiche, segnalando timidezza, un ecumenismo da diplomatico e infinite cautele anche verbali nelle dichiarazioni sui probabili crimini delle forze israeliane ed apparendo invece più netto su quelli dei gruppi armati palestinesi. È una battaglia legale, comunque, interamente aperta, su cui si gioca il futuro stesso della giustizia penale internazionale, che come progetto appare in caduta libera, sotto i colpi dei doppi standard che assecondano i rapporti di forza geopolitici e il profilarsi di un diritto penale internazionale che potrebbe dirsi del nemico, sacrosanto per i crimini degli avversari strategici e impronunciabile per quelli degli alleati. Un tale declino equivarrebbe alla morte di questo progetto universalista.
Di fronte a questa disillusione forzata, ricordo però sempre uno degli eroi della mia formazione, un grande giurista ebreo, Benjamin Ferencz, ultimo procuratore vivente del Tribunale di Norimberga (scomparso nel 2023 lasciando un grande vuoto), che ha passato tutta la vita e persino i suoi ultimi anni da ultracentenario potremmo dire da attivista, cioè insistendo sulla necessità di perseguire tutte le responsabilità di chiunque violi il diritto internazionale, stati e leader di governi, senza sconti a nessuno, disarmando le guerre col diritto. Insisteva con lo stesso slogan, in tutte le sedi: “Law, not war”, a cui aggiungeva sempre le sue 3 “semplici indicazioni pratiche” per le più giovani e i più giovani studiosi, cioè: “1) mai arrendersi, 2) mai arrendersi, 3) mai arrendersi”. Lo ripeto sempre ai miei studenti e forse proprio oggi è essenziale ripetercelo.
(da Fanpage)
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