RENZI GUARDA AL COLLE: “COSI’ POSSO FARE A MENO DEI VOTI DI FORZA ITALIA”
IL PREMIER NON PUO’ PERMETTERSI IL CAOS INTERNO SE VUOLE EVITARE LA GUERRIGLIA SULLA NOMINA DEL NUOVO PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Dev’essere chiaro che se il patto del Nazareno salta o viene “arricchito” impropriamente con la
corsa al Quirinale, la colpa è di Berlusconi. «Confermo: l’Italicum al Senato si vota prima dell’elezione del presidente della Repubblica», dice Matteo Renzi ai suoi collaboratori.
Dunque, non accetta diktat o ricatti nemmeno dal leader di Forza Italia.
«Non sono preoccupato e non necessariamente ci serviranno i voti di Forza Italia», spiega ancora il premier che probabilmente punta a spaventare l’ex Cavaliere con il ritorno al Mattarellum.
Ma per evitare il cortocircuito riforme-Colle è necessario tenere unito il più possibile il Pd.
Così si spiega la virata all’assemblea di ieri, riunita in un hotel vicino a Villa Borghese
Non è stato presentato alcun documento contro la minoranza, non c’è stato alcun voto politico contro i dissidenti.
Significa che ha vinto una linea di mediazione, sponsorizzata da Lorenzo Guerini e Roberto Speranza e sposata dal segretario. Una linea sulla quale si regge, al di là della scissione di Civati e dello sfogo di Fassina, la tregua tra i renziani e l’ala guidata da Pier Luigi Bersani.
L’assenza dell’ex segretario (causa mal di schiena) assume così il senso non di un atto ostile ma di un via libera a quella lealtà alla ditta invocata al microfono da Renzi.
Raccontano che anche Giorgio Napolitano, negando un ripensamento o un rinvio delle dimissioni ormai accettate con rassegnazione anche dal premier, abbia consigliato le parti in guerra del Pd, almeno quelle più responsabili, di non dividersi proprio adesso.
Perchè la sua successione appare tutt’altro che semplice. «Era sbagliato forzare, era sbagliato votare e la resa dei conti non si è vista», commenta soddisfatto il capogruppo del Pd alla Camera Speranza.
Renzi non può oggi tenere un fronte aperto anche nel Pd. Ora diventa chiarissimo infatti che il centrodestra sul nome del capo dello Stato si gioca le residue chance di ricomporsi.
Alfano con Berlusconi, Berlusconi con Fitto e Alfano. Se i democratici si spaccano o peggio si avviano a una scissione corposa, Renzi finisce per essere prigioniero dei giochi dentro il vecchio Pdl. Per questo rimane difficile che la legge elettorale venga approvata prima della grande riffa del Colle. Ma Renzi ci prova, per evitare di mischiare tutto.
E ha bisogno del Partito democratico, dei suoi voti, dei suo parlamentari.
Una strada per avere l’approvazione dell’Italicum prima che le Camere diventino seggio elettorale del capo dello Stato è chiudere su un nome condiviso in tempi brevi.
Dopo le parole di Alfano (non dev’essere un Pd che ha già molte poltrone) e di Berlusconi, l’idea di scegliere un candidato di stretta osservanza dem che avrebbe il potere di consolidare la tregua interna rischia di non essere realizzabile.
Molti in sala, ieri, hanno letto nel discorso di Piero Fassino una candidatura al Quirinale.
E secondo alcuni il sindaco di Torino ha cominciato a muoversi anche fuori dal suo partito sondando i leader di altre forze. Ma un politico Pd ha possibilità di essere scelto e votato dalla larghissima maggioranza dei parlamentari?
I grillini hanno fatto sapere che la loro indicazione cadrà su un non politico e che solo con questo criterio sarà fattibile un accordo in Parlamento. Quindi si lavora su uno schema libero, anche Renzi ne dovrà tenere conto.
L’eleganza di Cuperlo e la diplomazia di D’Attorre, come le ha chiamate Fassina, lo hanno aiutato, per convinzione e per convenienza, ad accettare il compromesso interno e a non provocare la tempesta.
L’eco dello scontro si è sentito solo negli interventi di Ivan Scalfarotto e di Giorgio Tonini mentre dietro le quinte Guerini, Speranza e Dario Franceschini lavoravano a una linea soft. Renzi sa che il punto nodale rimane la tentazione di un voto anticipato e ieri, per negarla, è stato più convincente del solito, facendo l’esempio di Shinzo Abe, il premier giapponese che «al primo intoppo» ha portato il Paese alle urne, peraltro vincendo.
«Ma io non mi voglio fermare al primo intoppo. Voglio lealtà e non accetto i diktat della minoranza. Detto questo, ascoltiamoci e troveremo sempre una direzione unitaria».
No, non era il giorno giusto per sfasciare il Partito democratico.
Semmai adesso bisogno indebolire le prime prove di ricostituzione del centrodestra, puntare su un candidato o una candidata che non renda troppo compatta l’area centrista e forzista e che sia frutto di un confronto dentro il Pd.
Magari certificando la scelta con un appuntamento solenne. Come una nuova assemblea nazionale convocata ad hoc.
Goffredo De Marchis
(da “La Repubblica”)
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