“RIDATECI I SOLDI” CACCIA AGLI YUPPIES IN STRADA A SHANGHAI: E’ LA FINE DI UN SOGNO
RISPARMIATORI ALL’ASSALTO DEI BROKER… E LA BANCA CENTRALE SMENTISCE LA PROPAGANDA DI STATO
Colletto bianco e grisaglia addio. Sconsigliati anche tailleur e tacchi a spillo. A Shanghai e a Shenzhen ora è aperta la caccia a brokers, traders e funzionari di banca. Sparite, nel quartiere dei grattacieli eleganti di Pudong, auto sportive e borsette di lusso. Chiusi i ristoranti gourmet, spente le vetrine con gli orologi svizzeri.
Lavorare in Borsa, fino a due mesi fa, in Cina era il simbolo del successo e proiettava nella “dolce vita all’occidentale”.
Regola numero uno: esibire l’eccesso, mostrare a tutti di avercela fatta
Oggi il “compagno economista” recupera dall’armadio i vecchi jeans, sandali e t-shirt, va in ufficio in metrò ed entra dal retro, succhiando tagliolini liofilizzati assieme alle giovani migranti interne assunte per le pulizie.
L’alternativa è venire linciati dalla folla, o essere arrestati dalla polizia.
Nella capitale finanziaria gli investitori inferociti sfondano i portoni blindati che proteggevano i manager di quattro banche.
«Ridateci i nostri soldi — grida la folla — dove li avete nascosti?».
Immagini censurate dei media di Stato, che tacciono pure come banche, finanziarie e palazzi dei mercati, compresi quelli di Hong Kong, siano ora difesi dell’esercito.
Per i cinesi accettare che in un giorno la “febbre gialla” dei listini bruci 5 mila miliardi di dollari, azzerando i guadagni da gennaio, è impossibile.
«La ricchezza — scrivono i piccoli risparmiatori sulla facciata del secondo istituto di credito di Pechino — non può sparire: trovatela e restituitela al popolo»
Alla tivù di Stato la propaganda esalta «la capacità di resistenza e il notevole potenziale del sistema economico cinese, che ci permette di mantenere uno sviluppo stabile e salutare».
Nello stesso tempo novanta milioni di neo-investitori capital-comunisti, ingrossati di 40 milioni in otto mesi, assistono in diretta smartphone all’evaporazione di guadagni e risparmi accumulati a colpi di debiti. Il partito-Stato rassicura, vieta di vendere per salvare almeno un centesimo del patrimonio perduto, e i compagni- giocatori cedono bottega, campagna e casa, impegnati per il miraggio di «diventare ricchi prima di diventare vecchi».
La risposta del Quotidiano del Popolo, organo del politburo, alla crisi del Duemila è da purghe anni Sessanta.
Annuncia la mobilitazione della polizia e del viceministro alla pubblica sicurezza Meng Qifeng, scatenati contro «banche ombra, funzionari sospetti e finanziamenti illeciti ».
Il bilancio, esulta la propaganda, è di «66 banche clandestine chiuse, 160 arresti e 67 miliardi di dollari sequestrati».
Per la prima volta però Pechino si scontra contro l’incensurabile, un sesto dell’umanità teme di poter perdere tutto, la leadership comunista vede lo spettro di un’inarrestabile “rivoluzione capitalista” e a Borse asiatiche chiuse, la banca centrale è costretta ad usare quella che un industriale del Guangdong definisce «l’ultima bomba atomica del soccorso di Stato».
La giornata, dopo il “Black Monday”, è stata di nuovo da panico.
Shanghai chiude perdendo un altro 7,63%, tocca quota 2964,97 punti, meno 16,12% in quarantotto ore: sono i peggiori quattro giorni da 18 anni, le perdite superano il 22%, oltre 2 mila i titoli che toccano il limite quotidiano del meno 10%.
Segue Shenzhen, che aggiunge il meno 7,09% al meno 7,10% d’inizio settimana. Limita i danni Hong Kong, rimbalzano invece gli altri mercati asiatici, con l’eccezione di Tokyo (meno 3,96%), spaventata dall’impennata dello yen.
Per i miliardari dell’Oriente, nuovi protagonisti della ricchezza globale, è uno spartiacque che prevede un irrecuperabile prima e un imparagonabile dopo.
Wang Jianlin, l’uomo più ricco della Cina, in poche ore vede sfumare 6,1 miliardi di dollari, primato mondiale, con il fondatore del gigante Wanda Group che si sveglia sotto i 30 miliardi di patrimonio.
Per operai e casalinghe, contagiati e sterminati da quello che adesso la tivù di Stato definisce «virus del mercato», è l’unica consolazione: anche i nuovi “imperatori d’oro”, prima invidiati e ora odiati, in tre mesi hanno perso un quinto della ricchezza, 97 miliardi da venerdì, 14 solo ieri, un sesto dell’intero capitale.
Per i padroni-ombra del comunismo di mercato è troppo, la voragine non drena più solo la panna montata della speculazione, intacca patrimoni economici e stabilità politica, fino a costringere la Banca del Popolo a ricorrere, controvoglia, all’«arma atomica »: il taglio dei tassi e quello delle riserve obbligatorie bancarie. Il governatore Zhou Xiaochuan, dato come ostile al presidente riformista Xi Jinping, abbassa (quarta volta in un anno) di mezzo punto i tassi, portando da oggi quelli sui prestiti al 4,6% e quelli sui depositi all’1,75%.
Giù di mezzo punto dal 6 settembre anche le riserve obbligatorie di banche e finanziarie.
L’ennesimo sostegno di Stato vale 23,4 miliardi di dollari, più altri 17 (totale oltre 40 miliardi) destinati al credito, intervento più pesante dal gennaio 2014.
Centinaia di milioni di cinesi, assieme al resto del mondo, si chiedono se i successori di Deng Xiaoping stiano «cavalcando la crisi», oppure se ne siano travolti, se «il nuovo Mao stia in sella o tra le zampe del cavallo».
L’Occidente scopre di essere orfano del suo motore della crescita, ma milioni di cinesi si vedono rubare il sogno di archiviare per sempre fame, sacrifici e ciotola di riso.
A scuotere il Paese è anche l’inedita smentita della propaganda di partito da parte della banca centrale, come se due Cine si stiano silenziosamente confrontando, drammaticamente spaccate tra nostalgici comunisti e riformisti ancora innamorati del capitalismo.
Per i primi i «fondamentali sono solidi e la crescita stabile, al più 7%».
La banca centrale invece ammette che «permangono pressioni al ribasso», che «la volatilità dei mercati richiede maggiore flessibilità degli strumenti di politica monetaria » e che «c’è stata una carenza di liquidità ».
Mai l’istituto monetario del potere centrale si era permesso di riconoscere la realtà e di criticare l’immobilismo dei leader politici, accreditando le voci sui dati ufficiali manipolati. Il fantasma di uno storico tonfo cinese, capace di allontanare la ripresa globale, impedisce in queste ore a Shanghai, a Shenzhen e a Hong Kong di rimbalzare come le Borse occidentali e del Pacifico.
Una gigantesca bolla di Stato gonfiata da milioni di micro-debiti privati fuori controllo, unita al fallimento fuori tempo massimo del modello made in China, rivela il potenziale per distruggere non solo il sostegno pubblico, ma anche l’illusione di rientro dell’irriducibile investitore privato.
Tra i grattacieli-icona del trentennio d’oro gli ex rivoluzionari maoisti vanno così a caccia del trader alla Gordon Gekko, ma nel mirino cominciano a inquadrare proprio quello «Stato che li ha gettati in pasto al mercato» per sostituire l’ideologia con il profitto.
Il Quotidiano del Popolo insinua il sospetto che «la crisi perfetta sia orchestrata dall’esterno per fermare l’ascesa della Cina e quella del suo leader».
Insomma, il dito è puntato contro un Occidente «politicamente interessato a ridimensionare l’influenza di Pechino».
Si riaffaccia la teoria dei soldi quale arma alternativa nelle guerre, l’Asia sino-centrica teme di perdere la sua occasione secolare e i cinesi, persi gli investimenti, intravedono non un’accelerazione delle promesse «nuove riforme di mercato», ma una «stretta del vecchio Stato di polizia».
E’ la domanda, e dunque la scelta essenziale che la rivolta anti-mercato dei cinesi delusi dal mercato pone al partito a Pechino, alle Borse a Shanghai e a Hong Kong, ai governi in Europa e negli Usa: oggi conviene più la Cina imprevedibile di Xi Jinping o quella nostalgica dei suoi oppositori? Tirano più la crescita i traders o gli operai? Colletti bianchi e tacchi spillo questa sera a Pudong finiscono in cantina: ma le tute blu che assediano i «palazzi del grande furto dello Stato piegato al mercato» sanno bene che questo crack consegna proprio loro, per sempre, in un museo.
Giampaolo Visetti
(da “La Repubblica”)
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