SCINTILLE DI NOVECENTO: IL DUCE, PERTINI, WOJTYLA, CRAXI.
STORIE INEDITE NEL FORMIDABILE LIBRO DI UGO INTINI… EPISODI SCONOSCIUTI RACCONTATI DA CHI C’ERA
I nostalgici del secondo Novecento stanno già venendo allo scoperto e d’altra parte è fatale che sia così: l’impatto durissimo della guerra in Ucraina sta richiamando – sempre più spesso e per contrasto – il ricordo di quella straordinaria stagione di progresso e di pace che è stato il secondo cinquantennio del ventesimo secolo. E proprio ad alcuni dei principali personaggi (soprattutto italiani) di quella stagione è dedicato l’ultimo libro di Ugo Intini “Testimoni di un secolo. 48 protagonisti e centinaia di comprimari del secolo breve”.
Negli anni del “nuovo corso” socialista, Ugo Intini è stato direttore dell’ ”Avanti!” e portavoce del Psi di Craxi e proprio quella sua duplice natura – politica e giornalistica – è il “reagente” che ha prodotto un saggio con un tratto di notevole originalità.
In pochissimi libri usciti negli ultimi anni in Italia sono contenuti così tanti episodi inediti, uniti tutti dallo stesso filo: essere stati raccolti direttamente dalla viva voce dei protagonisti. Una miniera per gli storici e per i “malati” di politica.
Non si tratta di aneddoti fini a sé stessi, quelli che servono a arricchire il campionario dello “strano ma vero”, ma invece testimonianze collocate in un contesto storico. Come quella del generale Angelo Cerica sulla natura dell’accordo tra Vittorio Emanuele III e Benito Mussolini nel celebre incontro di Villa Ada nel luglio 1943. O come le pressioni americane sul governo italiano perché non si insistesse a ricercare le responsabilità sovietiche per l’attentato di Alì Agca a Papa Wojtyla. O come tante altre.
La carrellata comprende, oltre alle principali personalità della storia socialista, personaggi come Andreotti, Cossiga, Scalfaro, Ciampi, Pajetta; gli artefici della Milano progressista e umanitaria del secondo dopoguerra; giornalisti come Montanelli, Tobagi e Bettiza, grandi oppositori del comunismo (Sacharov e Pelikan) ma anche leader del socialismo reale, a cominciare dal generale Jaruzelski.
La prima testimonianza controtendenza riguarda la versione «comunemente accettata sulla fine del fascismo»: Mussolini messo in minoranza e fatto arrestare dal Re dopo l’incontro a Villa Ada.
Il generale Cerica, che comandava i Carabinieri al momento dell’arresto, a Sandro Pertini che sospettava una messa in scena, confiderà: «La penso esattamente come lei…». Una “contro-lettura” che si dipana così: Mussolini – temendo di essere accusato di viltà dai suoi – si sarebbe consegnato al Re, sperando di esserne difeso davanti agli Alleati, dopo che casa Savoia aveva condiviso quasi tutto nel ventennio fascista.
Intini indica qualche indizio successivo: una lettera di Mussolini a Badoglio «senza nessuna recriminazione o rimprovero» e successivamente il serio disappunto del Duce, quando fu prelevato e “liberato” dai tedeschi sul Gran Sasso.
E se Intini non sposa questa versione dei fatti ma la affida ad ulteriori approfondimenti storici, inequivocabile è la testimonianza dell’ex portavoce di Craxi, sul disappunto del governo americano negli anni Ottanta per l’attenzione politica (dei socialisti) e giudiziaria sulla responsabilità sovietiche in merito all’attentato a Giovanni Paolo II. Scrive Intini: «Ci fu fatto filtrare dal Dipartimento di Stato: supponiamo che si dimostri in modo inoppugnabile che il Cremlino ha tentato di uccidere il Papa? E allora? E poi? Che si fa, la guerra?».
Rivela ulteriormente Intini: «Una volta terminato il processo, sono andato a trovare il povero giudice istruttore Ilario Martella, che aveva visto la verità ed era stato lasciato sostanzialmente solo: mi disse che l’intera famiglia aveva ricevuto minacce terribili, dalla Germania».
Una storia che racconta il cinismo della convivenza pacifica Usa-Urss e che richiama un’altra storia: la gelida indifferenza delle socialdemocrazie europee e dei comunisti italiani per dissidenti dell’Est europeo. Dopo la Primavera di Praga, l’ex direttore della Radio Jiri Pelikan lasciò il suo Paese «con altri duecentomila connazionali», non trovò ascolto tra i socialdemocratici tedeschi e scrisse «una lunga lettera personale» ad Enrico Berlinguer, che però non ebbe risposta. Ebbe aiuto soltanto da due giovani socialisti, Carlo Ripa di Meana e Bettino Craxi, che riuscì a far pubblicare in Italia “Literarny ListY”, la rivista della Primavera cecoslovacca. Scrive Intini: come direttore responsabile «pensammo ad una firma del giornalismo italiano», «si trattava soltanto di prestare il nome, anche per un gesto simbolico di solidarietà». Ma con una scusa o con l’altra, «tutti gli interpellati si sfilarono», compresa una grande firma del “Giorno” di cultura azionista, «perché nel 1970 era ancora sconsigliabile sfidare l’egemonia culturale comunista e la potenza sovietica».
Il tema del garantismo e della magistratura politicizzata è trattato non con le consuete argomentazioni ma con le parole spiazzanti e preveggenti di Pietro Nenni e Riccardo Lombardi, assieme a Pertini, i tre personaggi «più popolari» del socialismo italiano. Nel lontano 1964 Pietro Nenni scriveva parole profetiche: «L’ indipendenza della magistratura va assumendo forme che fanno di quest’ultima il solo vero potere, un potere insindacabile, incontrollabile e, a volte irresponsabile». Anni dopo, sempre Nenni, usò termini che sembrano pensati ieri mattina: «La magistratura l’abbiamo voluta indipendente ma per di più è divisa in gruppi e gruppetti peggio dei partiti». Anno, 1974: quarantotto anni fa.
Racconta ancora Intini: «Un giorno un giornalista dell’“Avanti!” mi disse che un giudice istruttore che indagava sui neofascisti voleva parlarmi molto riservatamente. Ci vedemmo in modo carbonaro in una stazione veneta, mi raccontò delle difficoltà dell’inchiesta, incaricandomi di parlarne a Lombardi, “sa, sono lombardiano…”». Intini: «Andai da Lombardi, che mi gelò: “Faccio finta di non aver sentito, perché altrimenti questo magistrato dovrei denunciarlo per violazione del segreto istruttorio. Digli di fare il suo mestiere e non politica». Conclusione di Intini: «Magistrati come questo, non trovando risposta dai socialisti, andarono del Partito comunista e, per dirla con Manzoni, “lo sciagurato rispose”».
Tantissimi episodi inediti o poco conosciuti. Campagna elettorale del 1968: «Nenni chiamò Craxi e gli disse: “Ti devi tirar dietro Fortuna e Scalfari, riversando su di loro le tue preferenze”», Intini, che ai tempi faceva il galoppino, ha un ricordo nitido: «Stampammo i santini: Nenni, Craxi, Fortuna, Scalfari». Per le sue inchieste sul Sifar, Eugenio Scalfari rischiava il carcere, aveva bisogno della immunità parlamentare e la ottenne grazie ai “santini” stampati da Craxi. Poi creò uno dei più straordinari giornali del Novecento e avversò Craxi, ma quella è un’altra storia.
Tra i testimoni del Novecento, grande spazio (con episodi davvero belli) agli artefici della rinascita economica, culturale e civile della Milano del dopoguerra, dai “cumenda” venuti su dal nulla, come Angelo Rizzoli, ai grandi intellettuali come Paolo Grassi e Giorgio Strehler, sino ad un personaggio più appartato come Giulio Seniga.
Operaio all’Alfa, Seniga, detto Nino, divenne un capo militare della Resistenza, dove mostrò un coraggio fuori dal comune, come quella volta che la Wermacht a Domodossola aveva ripreso il controllo di un prezioso carico di mercurio, l’ “argento vivo”. Nino «saltò sul treno del mercurio, puntò la pistola alla testa di un macchinista e gli ordinò di partire a tutto vapore verso la Svizzera». I tedeschi con le moto sidecar inseguirono, sparando all’impazzata, Seniga rispondeva al fuoco e al termine di una scena da western, Nino mise il salvo il prezioso carico.
Nel Pci del secondo dopoguerra Seniga – braccio destro di Pietro Secchia – era diventato il capo della “polizia interna” del partito, mentre sua moglie Anita Galliussi fu promossa addirittura segretaria di Palmiro Togliatti. Scrive Intini: «Nino e Anita erano giovani, belli, entusiasti, volevano fare la rivoluzione ma quando si accorsero che nella loro doppiezza, i capi pensavano alla tranquilla gestione del potere, si ribellarono». Seniga se ne andò con i soldi segreti del Pci e, pensando già alla sua pelle, portò via documenti che dimostravano traffici indicibili. I comunisti tentarono di ucciderlo ma quelle carte, affidate ad un notaio in Svizzera, lo salvarono.
Dai soldi del Pci, Seniga attinse una cifra che equivaleva allo stipendio mensile di un operaio e tuttavia «lo addolorava l’accusa di essersi arricchito».
Scrive Intini: «Lo ricordo sempre con la stessa giacca grigia spigata, con un cappotto dai larghi risvolti, lungo sino a terra», «abitava in una casa di ringhiera, tipicamente operaia, dove si entrava dal balcone direttamente nella grande cucina». Per i comunisti restò un traditore, non assurse mai allo status di personaggio che seppe vedere in anticipo, fino a quando un “evento” sbalorditivo ne illuminò il ricordo.
In un libro di memorie, Edgard Morin, uno dei più grandi filosofi contemporanei, di punto in bianco scrisse: «Seniga è uno degli uomini più coraggiosi, calunniati e denigrati che abbia mai conosciuto, è un caso estremo di una presa di coscienza, che lo ha portato ad una decisione incredibile. Mi dona coraggio e fiducia nel genio sotterraneo che lavora nelle profondità cerebrali, qualcosa che risveglia e rivoluziona le menti, proprio quando si pensa che tutto sia chiuso, congelato, pietrificato».
“Testimoni di un secolo” (Baldini e Castoldi, 25 euro, 684 pagine) è dunque un libro ricchissimo di episodi, raccontati senza autocompiacimenti (del tipo: avevamo ragione noi socialisti) e con un understatement, due approcci sanamente anacronistici.
Così come poco contemporaneo è il rispetto verso gli avversari, politicamente combattuti per anni e anni. Esemplare il capitolo su Giancarlo Pajetta, dirigente storico del Pci, che una sera degli anni Ottanta incrociò le lame dialettiche proprio con Intini. Erano gli anni nei quali i socialisti avevano scoperto il velo sugli orrori del comunismo, i due erano stati protagonisti di un serrato dibattito sull’Urss a una festa dell’Unità a Roma sul Tevere e al termine, «intorno ad una pizza e a troppo vino bianco, facemmo notte».
Racconta Intini: «Al momento dei ricordi gli occhi di Pajetta diventarono lucidi e mentre ce ne andavamo, con improvvisa dolcezza, mi prese sottobraccio e mi disse: “Tu non puoi capire. Quando ci sentivamo soli, scoraggiati e randagi, nella Roma fascista, noi giovani andavamo davanti all’ambasciata sovietica, guardavamo sventolare la bandiera rossa con la falce e il martello e gli occhi si riempivano di lacrime».
A coronamento di questo struggente ricordo, Intini conclude così il capitolo su Pajetta: «Prima di scrivere queste righe ho cercato e ritrovato tra gli scaffali di casa il suo libro più famoso, “Il ragazzo rosso”. Non sapevo che c’era la sua dedica: “Al compagno Intini, anche ricordando la serata sul Tevere”».
(da Huffingtonpost)
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