SCONTRO SU VENEZI ALLA ‘FENICE’ DI VENEZIA, IL RISULTATO? LAVORATORI IN SCIOPERO, PUBBLICO IN RIVOLTA, UNA FIGURA DI SHIT PLANETARIA E LA DISTRUZIONE DELLA CARRIERA DELLA LORO PROTEGÉE VENEZI, AMMESSO CHE CI FOSSE QUALCOSA DA DISTRUGGERE”
LA BOZZA DI RIFORMA DELLE FONDAZIONI LIRICHE DEL GOVERNO PREVEDE UN ACCENTRAMENTO DECISIONALE NELLE MANI DELL’ESECUTIVO
Lo scontro su Venezi a Venezia sembra diventato una guerra di logoramento, una serie di «spallate» modello Cadorna. Nessuno fa un passo indietro, nemmeno per salvare un’ipotetica dignità personale.
Nel frattempo, i risultati della brillante idea di Mazzi, Brugnaro, Colabianchi e soci sono sotto gli occhi di tutti: i lavoratori in sciopero, il pubblico in rivolta, una figura di shit planetaria e la distruzione della carriera della loro protegée, ammesso che ci fosse qualcosa da distruggere.
L’operazione è così goffa, così maldestra perfino per questa destra, da far sospettare che ci sia qualcosa dietro. E si sa che in Italia a pensare male si fa peccato, però spesso si indovina. D’accordo: sono evidenti l’amichettismo cameratesco, l’arroganza del «ci metto i soldi quindi faccio quel che voglio», l’esibizione del potere a scapito del buonsenso, il disprezzo delle regole.
Ma se ci si ostina a voler mettere nella cucina di un ristorante stellato di vecchia tradizione qualcuno che al massimo può
cuocere un hamburger, forse il progetto è anche quello di cambiare il tipo di ristorante.
Questa vicenda si svolge infatti mentre il ministero, cioè il sottosegretario Mazzi (per il ministro Giuli i teatri d’opera potrebbero stare anche su Marte), sta per licenziare il Codice unico dello Spettacolo. Una sua corposa parte è dedicata alle fondazioni lirico-sinfoniche, con alcune novità, per esempio quelle sui corpi di ballo, perfino non sbagliate.
Poi ci sono le barzellette, come ribattezzare le fondazioni «Gran teatri d’opera», un’idea davvero degna del Milanese imbruttito, taaaac! Il controllo dello Stato e il suo peso nella governance vengono amplificati, facendo esattamente il contrario di quel che servirebbe, cioè rafforzare lo storico legame delle città italiane con i loro teatri. Qui però interessa l’incredibile disposizione del comma 8 dell’articolo 47, dove si dice che le fondazioni, pardon Gran teatri, devono coordinare la loro attività per «la valorizzazione delle grandi opere della tradizione italiana».
Nemmeno il fascismo aveva deciso per legge le scelte artistiche, che saranno ovviamente tutte nel segno della tradizione e dell’autarchia (quattro risate sono assicurate poi dal diktat successivo, quello della «riscoperta di nuove opere dei compositori di quella straordinaria epopea», chissà che dai cassetti non sbuchi qualche Rossini o Verdi di cui si ignorava l’esistenza).
Insomma, l’idea che sottende tutta la riforma è quella di teatri che mettono in scena il repertorio più nazionalpopolare e nei modi più consolidati, e che non venga in mente di innovare, rischiare, scommettere sulla contemporaneità, discutere e far discutere.
L’opera come periodica ostensione della mummia di Verdi o di Puccini, in teatri a vocazione turistica o nazionalpop, che facciano il minimo indispensabile di titoli e nella maniera più scontata possibile mentre, non lo scrivono ma lo si può supporre, il core business diventano i gala, i concerti di Bocelli, le serate per gli sponsor, le contaminazioni pop, i programmi facili e così via.
Il curriculum di Venezi, in pratica. E infatti l’ineffabile ma evidentemente inaffondabile sovrintendete Colabianchi (ma è già firmatissima la petizione per chiederne le dimissioni) ha tentato di giustificarne la nomina attribuendole dei meriti da perfetta influencer, non da direttore musicale di uno dei teatri d’opera più illustri del mondo.
L’unità di misura della qualità artistica diventeranno i like e i follower, non il giudizio del pubblico che va doverosamente diseducato, men che meno quello della critica, ormai estinta (principalmente per colpa sua, va precisato).
E infatti la riforma introduce uno spezzettamento di potere fra i vari organi dirigenziali, ignorando la regola aurea che chi comanda in teatro deve essere in un numero dispari e minore di tre. Ma, molto significativo, rende obbligatoria in ogni teatro la
figura di un responsabile Marketing e comunicazione che, per carità, è bene che ci siano: ma per sostenere la linea artistica, non per deciderla.
Quanto al «marketting» giornalistico che celebrerà le magnifiche sorti e progressive dell’opera dopo la riforma Mazzi, aspettiamo fiduciosi: sull’affaire Venezi si sono già illustrate penne che l’autorevolezza non possono perderla perché non l’hanno mai avuta
(da La Stampa)
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