SE IL DIAVOLO SI NASCONDE NEI DETTAGLI: COSI’ L’ACCORDO PER GAZA RISCHIA DI INCEPPARSI
FINORA TUTTO FUNZIONA PERCHE’ I PROTAGONISTI NE TRAGGONO UN VANTAGGIO SENZA CONCEDERE MOLTO
Di fronte alle grandi tragedie, quando dolore e terrore sembrano per un attimo sospesi miracolosamente, invece di scomodare subito la Storia, la Speranza e l’ottimismo ad ogni costo, bisognerebbe dire quello che è meno consolante: la verità. Al
momento in Palestina stiamo tornando, con lo scambio dei prigionieri ancora nebuloso e il cessate il fuoco, faticosamente al sei di ottobre. Ovvero al livello di violenza che l’Occidente (e i regimi arabi) hanno da sempre considerato come accettabile; ricalcato in fondo sull’unica strategia seria a cui hanno fatto tappa, ovvero lavarsene le mani limitandosi a esecrazioni, ammonimenti, compianti teorici.
È ridurre in limiti ragionevoli le cose tragiche, in modo da renderle quasi inoffensive, suvvia non consumiamo troppe energie. Certo finisce lo strazio degli ostaggi e si apre uno spazio in cui il ritmo infernale dei morti nella Striscia scrive un meraviglioso zero. I palestinesi festeggiano: è bello essere vivi. Con le tregue coloro che soffrono possono respirare. Coloro che hanno voluto la guerra invece dubito meditino sulle loro colpe. Ma perché il piano Trump poi vada oltre l’ennesimo effetto illusionistico, una finta letizia, un finto riposo pronto a ridiventare guerra e orrore, occorre molto di più. I processi di pace funzionano, vanno fino in fondo quando tutti i protagonisti dello guerra, come Hernàn Cortés che aveva fatto bruciare i vascelli della sua spedizione nel Nuovo Mondo, dicono: «No hay vuelta atràs», non c’è più ritorno.
È davvero così nel vicino Oriente? La trama del piano di Trump nelle fasi successive alla tregua è leggera come la tela di un ragno: ma ne ha la stessa elastica resistenza? A furia di inventare favole, tra polluzioni di ottimismo verbale, si diventa bugiardi e si accusa chi si ostina a svelare mali e lacune di rivelar piaghe e
miserie, mentre assicurano che tutto si sta mettendo a puntino.
Un esempio: il disarmo di Hamas. Non assomiglierà alla resa tedesca nel 1945 o all’addio alle armi dei sudvietnamiti a Saigon. Bisogna applicare una modalità sperimentata al termine di altri conflitti civili, che richiede condizioni e capacità. Non basta che chi deve disarmare lo annunci, bisogna che i suoi miliziani escano dai rifugi o dalle zone che controllano (i labirintici tunnel, la Gaza sotterranea e largamente inviolata), si presentino in luoghi fissati, consegnino le armi e ottengano un lasciapassare per tornare alla vita civile o partire per l’esilio. Si fa fatica a immaginare i lugubri talebani di Hamas che hanno affollato le scene delle precedenti liberazioni degli ostaggi prestarsi a questo ruolo. E poi chi dovrebbe controllare se si presentano davvero tutti coloro che devono deporre le armi, e se in rifugi segreti altri sono pronte per riprendere la lotta?
E l’amministrazione controllata (o meglio il mandato coloniale) che dovrebbe sollevare Gaza dalle rovine e portarla al buon governo e alla pace su cosa si reggerà: caschi blu arabi che dovrebbero obbedire a Tony Blair? Mercenari a contratto modello iracheno?
Finora tutto sembra funzionare perché ognuno dei protagonisti ne trae qualche vantaggio senza dover rinunciare a nulla di sostanziale. Si fa tutto per far figura. Purché lo si creda. Tutti giocano una parte, guerrieri e pacieri, sembra che tutti aspettino di rimediare, di trattare. Alla fine tutto può sfasciarsi per un errore di calcolo. Nessuna idea starà più in piedi.
I protagonisti di questi giorni, presidenti, petro-emiri, raiss e terroristi: sono, a guardarli in controluce, personaggi di decadenza che nei momenti di stanchezza del mondo salgono sul palcoscenico di una storia tramontata e irripetibile. Trump per alcuni giorni può pavoneggiarsi come signore della guerra e della pace, far collezione di foto storiche (la scena del foglietto con l’annuncio che tutto è concluso…). È il microscopico orizzonte temporale della sua diplomazia. Poi, mentre tutto rimpicciolisce, passerà comunque all’incasso: altro che premio Nobel, semmai ricostruzione e affari petroliferi in nome del povero Abramo. Parte economica affidata non a caso a due faccendieri di larga manica come suo genero e Blair, delegati perfino al tavolo diplomatico a tener d’occhio gli affari più strettamente di famiglia.
Netanyahu riporta a casa gli ostaggi chiudendo una falla sul fronte interno, libera le piazze dal molesto grido di dolore dei parenti dei sequestrati del sette ottobre. Il ritiro, se ci sarà, in fondo non gli costa nulla: in pochi secondi Tzahal può riprendere a frantumare Gaza o quanto ne resta. Quanto al programma di annientare Hamas fino all’ultimo gregario o di annettere la Striscia, era ciancia dei suoi alleati che esigono la Grande Sion. Anzi: poiché ha verificato che né l’uno né l’altro obiettivo di vittoria erano tecnicamente realizzabili può rinunziarvi dandosi arie di moderazione.
I regimi arabi salvano la faccia dopo aver consentito che i fastidiosissimi palestinesi venissero massacrati per due anni.
L’abominevole Al-Sisi mette in cassaforte i complimenti dei suoi datori di lavoro americani; il Qatar completa con incantevole faccia tosta il suo triplo gioco, regista, finanziatore del jihadismo e suo rispettato ministero degli esteri.
E poi c’è Hamas. Che dovrebbe nel copione di Trump recitare la parte dello sconfitto che si auto elimina. In attesa che accada il gruppo jihadista ha ottenuto lo status di controparte con cui gli americani hanno trattato senza problemi. Vi par poco? Dopo due anni di massacri esiste ancora. Anche se i capi dovessero andare in esilio lasciano nella Striscia una eredità di odio contro Israele su cui può lavorare nei prossimi anni. E le migliaia di palestinesi che ha sacrificato alla sua guerra? Hamas è una parte del jihad totalitario: anche le vittime collaterali, i martiri involontari nella guerra santa sono sangue senza importanza.
Domenico Quirico
(da lastampa.it)
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