SE TRUMP FA FRANARE I RACCONTI DEI SOVRANISTI
NESSUNA GRANDE ALLEANZA SOVRANISTA, OGNUNO FA I PROPRI INTERESSI E TRUMP DANNEGGIA PROPRIO QUEI SETTORI ITALIANI CHE VOTANO SOVRANISTA: COMPLIMENTI MELONI
Solo adesso, a ridosso di una scadenza fatale e sotto la spada di Damocle di una nuova lettera-ultimatum, il governo italiano comincia a percepire la portata dello strappo trumpiano e la determinazione del presidente Usa di rompere l’asse occidentale in tutte le sue componenti: commerciale, militare, politica.
Donald Trump esercita un sovranismo in purezza, qualcosa di assai diverso dalle blande imitazioni che hanno tanto preoccupato l’Europa provocando peraltro danni limitati, perché nessuno dei leader nazionalisti arrivati al governo ha rispettato i suoi programmi, uscire dall’Unione, abbandonare la moneta unica, disconoscere le norme e i trattati.
Trump, al contrario, è coerente con il suo imprinting su ogni tavolo. E su ogni tavolo chiede sottomissione all’atto di forza americano.
In Italia, il capitolo finale dello scontro sui dazi fa franare due racconti della destra, uno ideologico e l’altro assai pratico.
Il primo è quello legato al sogno della grande alleanza sovranista che avrebbe dovuto modificare i paradigmi dell’Occidente, sostituendo al buonismo progressista l’orgoglio delle storie e delle radici, il Dio-Patria-Famiglia collettivo e dunque una nuova trama condivisa che avrebbe avvantaggiato tutti i soci del club. Non è successo. Dell’enclave conservatrice l’Italia fa parte a pieno titolo eppure non ne ricava vantaggi.
A poco sono serviti la vicinanza al Lord di Mar-a-Lago, la comunanza ideologica così a lungo ricercata col mondo Maga o gli applausi alle invettive anti-europee con cui JD Vance avviò il suo mandato. «C’è un nuovo sceriffo in città», avvertì all’epoca il vicepresidente Usa, e pure quella frase piacque assai: ora scopriamo che anche Roma potrebbe finire dalla parte dei banditi.
L’altra questione riguarda le categorie che fino a pochi giorni fa hanno creduto a soluzioni a impatto zero, soprattutto l’agroalimentare, il vino, la farmaceutica, che sono anche i grandi bacini elettorali della destra italiana.
Stanno già calcolando le perdite economiche e occupazionali, e oltre le perdite c’è l’umiliazione della mancata reciprocità perché se le nostre merci andranno oltreoceano a caro prezzo, quelle americane arriveranno qui a dazio zero.
Ogni equilibrio sembra perso. E la protezione governativa su cui si faceva conto comincia a rivelarsi un’illusione. La “strategia della bresaola” ipotizzata dal governo per placare il settore – diventare i norcini della carne americana per comprarla, lavorarla e rispedirgliela trasformata in prosciutti – ha il sapore delle azioni disperate che si tentano quando si teme che tutto frani.
Magari ha ragione chi dice: i dazi Usa al dieci per cento «non sarebbero insopportabili» per la nostra economia, ma anche se la trattativa con Donald Trump approdasse lì – ed è la migliore delle ipotesi al momento – la questione economica sarà solo metà del problema.
L’altra metà sarà spiegare all’elettorato di centrodestra come mai questi fratelli d’oltreoceano, questi amici per cui si stappò champagne solo sei mesi fa, all’improvviso ci prendono per il collo nonostante le prove d’amore che abbiamo dato.
Gli abbiamo concesso senza fiatare un enorme aumento delle spese in armi, l’esenzione dalla Global Minum Tax, probabilmente anche un pezzo di Ucraina, li abbiamo blanditi chiamandoli Paparini e minimizzando ogni loro provocazione contro «gli scrocconi europei», e adesso?
(da lastampa.it)
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