SI PUO’ FARE DI PIU’ PER SALVARE GAZA
IL VUOTO EUROPEO PROFONDO E INCOLMABILE
Il 15 marzo scorso, in piazza del Popolo a Roma, cinquantamila persone si ritrovarono per chiedere all’Europa di esistere come comunità politica, non solamente come entità economico-burocratica. Tra il Far West di Trump e il Far East di Putin, lo spirito di quella piazza era cercare nell’identità europea, nella sua struttura sovranazionale e nella sua vocazione fondativa (Ventotene, Nizza) alla democrazia, alla libertà, alla giustizia e alla pace, un baricentro ideale. Un solido e grande riparo nella tempesta del mondo — così come l’Europa appare ai migranti, sovente mal ripagati di questa fiducia. Nell’evidente schianto del canone occidentale, quella piazza invocava un canone europeo.
Quel raduno, che potremmo definire di europei senza Europa, o di europei in cerca di Europa, non solo non esaltava ciò che esisteva, ma sognava ciò che non esisteva, e nella convinzione dei presenti bisognava, prima o poi, fare esistere. Nella peggiore delle ipotesi, un wishful thinking, un pio desiderio senza grandi agganci con il deludente stato delle cose; nella migliore, una potenziale piattaforma politica. Ma il senno di poi, in triste
sintonia con il senno di allora, ci dice che il vuoto europeo ci appare, oggi, ugualmente incolmabile, se non ancora più profondo e rimbombante, come un pozzo vuoto.
L’ecatombe di Gaza non ha prodotto nell’Unione — potremmo dire: nella sua coscienza, supponendone una — niente che non sia lo sconcertato borbottio dei singoli, lasciando ogni Stato membro al suo comodo silenzio o al suo approssimativo disaccordo. Come se concertare una qualunque reazione comune, atto politico o concreta azione umanitaria, fosse, peggio che sconveniente, impossibile.
Così che in questo muto tergiversare il gesto di Macron (riconoscimento dello Stato palestinese, come già fatto dalla maggioranza dei Paesi del mondo, compresi alcuni membri dell’Ue) è parso di audacia rivoluzionaria e di sconquassante portata politica, perché nel vuoto e nel silenzio anche una semplice parola di buon senso sembra un ruggito.
In molti abbiamo pensato (in assenza di parole chiare e intellegibili, vale ogni processo alle intenzioni) che la imbarazzante trattativa sui dazi, con tempi e modi sempre dettati dalla controparte, abbia contribuito a sedare ogni possibile soccorso, politico e/o materiale, ai palestinesi di Gaza, per non contrariare Trump.
Sarebbe stata comunque una poco lodevole ragione, perché per quanto importanti siano i commerci, per quanto rispettabile generatrice di benessere l’economia, tacere su un prolungato eccidio, e sull’uso della fame e della sete come arma di guerra, è un prezzo ignobile. Se non una vera e propria correità
Ma alla luce dei fatti dobbiamo dire che no, neppure un cinico
realismo economico spiega e tanto meno giustifica l’inerzia europea su Gaza: von der Leyen non può spacciare quel 15 per cento (un gol subìto) come un successo o un miglioramento del precedente status.
Quel 15 per cento è qualcosa che prima non c’era, e adesso c’è. E se l’Europa passa a capo chino sotto quelle forche imposte non da un alleato, ma da un rude competitor (a proposito di fine del canone occidentale), vuol dire che non solamente l’Europa valoriale, quella dei bei princìpi e delle buone intenzioni, ha l’inconsistenza dell’aria (fritta) di fronte all’abominio di Gaza; anche l’Europa bottegaia, quella che sa fare di conto, non ha la forza di dettare le regole del gioco — almeno qualcuna — e deve sottostare, di conseguenza, al gioco di Trump.
Come è evidente, e politicamente assai rilevante, questa inconsistenza dell’Europa rattrista molti (sicuramente i tanti manifestanti di Roma, molto più in generale l’opinione pubblica progressista) e rallegra, come è ovvio che sia, chi combatte l’idea dell’unità europea perché è nazionalista — come buona parte delle destre europee — o perché incomprensibilmente ritiene, “da sinistra”, che l’europeismo sia l’ultimo cascame del suprematismo bianco.
Il lugubre gesto di bruciare le bandiere europee appartiene a queste frange astiose quanto inconsistenti; ben più gravemente, e con una potenza di fuoco infinitamente maggiore, è il sovranismo, con il suo seguito di massa, ad alimentarsi della debolezza valoriale e politica dell’Europa.
Se non esiste, per il mondo nello sconquasso, un approdo sovranazionale, quantomeno una mappa ideale che riapra le
porte a quella speranza, il nazionalismo sarà l’eterno vincitore. E la logica della guerra — vedi Gaza, vedi l’Ucraina — la sola logica leggibile, nell’illeggibile afasia delle altre opzioni.
Come ha scritto Ezio Mauro nei giorni scorsi, “l’ultimo dovere che ci riguarda è chiedere all’Europa, cioè a noi stessi, di sfamare Gaza… Questo non significa sostituire la politica con la misericordia: ma dare una base concreta, materiale, immediata e popolare a quell’azione politica che dobbiamo pretendere dall’Europa, se vuole scrivere la sua parte di storia invece di leggerla come una vicenda altrui”.
Sottoscrivo con convinzione. Ma mi sento costretto ad aggiungere che non credo accadrà. Risuonano sempre più spesso, nella mia testa di europeo senza Europa, le parole che Mario Draghi rivolse ai parlamentari europei nello scorso febbraio: «Se non fate qualcosa, vuol dire che non siete in grado di applicare i valori fondativi dell’Unione Europea».
(da repubblica.it)
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