VETI IN PUBBLICO E APERTURE IN SEGRETO
LEGA E M5S RASSEGNATI A TEMPI LUNGHI E SENZA TROPPE CERTEZZE
Il tentativo di archiviare gli equilibri del passato rimane forte: almeno quanto la difficoltà di riuscirci.
E il modo in cui Luigi Di Maio e Matteo Salvini si muovono riflette il potere e i limiti del mandato elettorale ricevuto il 4 marzo.
Contano di fare un governo insieme, ma le condizioni politiche, i numeri e il tempo non bastano a perfezionare il loro «contratto». Anzi, in apparenza sembrano allontanarlo.
Nell’impazienza e nei timori che si avvertono nel Movimento 5 Stelle, traspaiono l’incertezza per una soluzione ancora sfuggente. Per quanto soddisfatti per la giornata in memoria di Gianroberto Casaleggio a Ivrea, i seguaci di Beppe Grillo appaiono ipersensibili.
È bastato il vertice del centrodestra a Arcore, da Silvio Berlusconi, per metterli in allarme.
Già avevano borbottato per la scelta di Matteo Salvini di andare con Giorgia Meloni nella residenza del fondatore di Forza Italia. Suonava come la replica di un film vecchio di vent’anni; una concessione eccessiva del leader leghista e del centrodestra a un primato berlusconiano smentito dagli elettori; e soprattutto la conferma che il Carroccio non riesce a staccarsi dall’alleato di sempre.
Poi c’è stato il comunicato che parlava di unità e di Salvini candidato premier; e l’irritazione è cresciuta.
Solo quando, poche ore dopo, Salvini si è smarcato dal documento diramato dopo quel vertice, Di Maio e i suoi hanno ripreso a pensare che un accordo sia possibile.
È significativo che per le nuove consultazioni al Quirinale, probabilmente giovedì e venerdì, non sia stato ancora fissato l’ordine col quale i partiti saranno ricevuti. Potrebbe cambiare, o forse no: si saprà nelle prossime ore.
Il fatto che il centrodestra si presenterà unito, non più diviso, non lo «promuove» automaticamente a primo partito.
Dunque, il M5S potrebbe essere ricevuto di nuovo alla fine, come forza che ha ottenuto più voti.
Ma il dialogo con la Lega rimane guardingo. Anzi, forse lo è più di una settimana fa.
I Cinque Stelle cominciano a rendersi conto che per capire quale sarà la ricaduta finale del voto, ci vorrà più tempo di quanto pensassero.
Salvini, ma non solo, ne ha bisogno per definire meglio i contorni di un centrodestra del quale oggi è l’azionista di maggioranza. E quando annuncia che c’è il «51 per cento di possibilità » di formare un esecutivo tra centrodestra e M5S, provoca in Di Maio l’ennesimo moto di stizza.
Più si va avanti, più il suo Movimento arretra rispetto ai possibili «contraenti». No a Forza Italia, non solo a Berlusconi. No a Fratelli d’Italia. E no allo stesso Pd, «perchè non abbiamo intenzione di abbracciare un Matteo Renzi sconfitto nel Paese».
Per questo, mentre Salvini annuncia che chiederà «volentieri» un incontro a Di Maio e esclude altri vertici della sua coalizione, il candidato premier dei Cinque Stelle nicchia.
Fa filtrare che non ci sarà incontro con Salvini: almeno fino a quando il leader della Lega e del centrodestra proporrà un governo tra il suo schieramento nella sua interezza, e il Movimento.
Messa così, la trattativa sembrerebbe incanalata in un vicolo cieco. L’aut aut della forza di maggioranza relativa avrebbe come unico sbocco la presa d’atto che non si può fare un governo; e dunque che sarebbe meglio tornare alle urne. Ma anche in questo schema si nota un eccesso di schematismo, simmetrico all’idea della «diarchia» Di Maio-Salvini.
Non è da escludersi che il limbo tra dopovoto e governo possa dilatarsi per un paio di settimane; e che, di fronte a una rigidità che non accenna a sciogliersi, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, riceva la richiesta dei partiti di sondare quali siano i veri margini di trattativa.
Il problema è quanto tempo sarà necessario per capire se e come i veti incrociati cadranno o almeno si attutiranno; e a quali condizioni.
Non è da escludersi che alla fine si renda necessario un terzo giro di consultazioni, o magari che gli stessi partiti chiedano al Quirinale di affidare un incarico esplorativo di tipo istituzionale.
Il M5S rimane dell’idea che a Palazzo Chigi debba andare Di Maio. In teoria potrebbe toccare anche a Salvini, se non rappresentasse solo il 17 per cento dei voti; comunque, a qualcuno che abbia il consenso popolare, dopo una legislatura di premier cooptati. Non sarà facile uscire da una richiesta così perentoria: sebbene in realtà il sistema parlamentare non preveda l’elezione del presidente del Consiglio, e comunque nessuno abbia consensi sufficienti per rivendicare l’incarico.
L’Europa osserva e aspetta, confidando in Mattarella. Ma prima o poi, il capo dello Stato chiederà agli interlocutori di assumersi le loro responsabilità . E esigerà risposte e soluzioni, non solo veti: sempre che non siano destinati a cadere magicamente dopo le Regionali di aprile.
(da “Il Corriere della Sera”)
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