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“VI RACCONTO CHE COS’E’ LA GALERA IN KAZAKHSTAN”

UN GIORNO A CASA SHALABAYEVA: “QUI IO E ALUA ABBIAMO PAURA, IL NOSTRO SOGNO E’ TORNARE A ROMA”

C’e’ una vita di prima, dovrà  esserci una vita dopo.
C’è un tratto comune nella vicissitudine di Alma Shalabayeva. Lei non è esistita se non come “moglie di”.
La polizia italiana, spinta dall’eccesso di zelo dei suoi responsabili politici, cercava il marito, non l’ha trovato, e ha raccattato con le brutte lei e la bambina.
Per consolazione, come in un inventario di reperti: “Documenti cartacei, un computer, banconote, la moglie e la figlia piccola…”.
Poi è toccato alle autorità  kazake che, per risarcimento della caccia all’uomo provvisoriamente mancata, hanno incamerato “la moglie di”, con l’altro accessorio, la figlia piccola, che fino ad allora non si erano sognati di cercare, improvvisando un’imputazione qualunque.
La “moglie di” e la bambina acclusa diventavano una carta da giocare nella caccia all’uomo
L’opinione italiana si è indignata e commossa per la deportazione.
Ma anche allora Alma Shalabayeva (e bambina) è rimasta essenzialmente “la moglie di”, e buona parte dei sentimenti manifestati al suo riguardo si è improntata al giudizio sul marito: oligarca, dissidente, truffatore, crapulone o braccato.
Lo “scoop” sulla bionda avvocata slava voleva rendere più che mai Alma Shalabayeva “moglie di”: in quella specie di antonomasia maschile che è la moglie tradita.
Come se la deportazione illegale e brutale di due persone fosse attenuata o aggravata dalla loro eventuale felicità  famigliare.
Catturato Ablyazov (sul cui destino peserebbe comunque in patria una giustizia gregaria: e Nazarbayev graziò Ablyazov, già  suo pupillo, facendolo tornare agli affari alla condizione che non si occupasse più di politica, impensabile in una democrazia) si poteva pensare che trattenere Alma fosse ormai una seccatura superflua per il governo kazako. Però la “moglie di” può restare una carta pregiata nella pressione per l’estradizione dell’uomo.
C’è una sola persona che possa guardare a Alma come “la moglie di”: lei stessa.
Il ministro degli esteri kazako, Erlan Idrissov, ha detto che «Alma Shalabayeva è libera di andare dove vuole». Bisogna pur credere alle parole di un ministro, e lui per primo.
«Azhezh, il paesino in cui sono nata, nella regione di Karaganda — racconta Alma Shalabayeva — faceva così freddo che se sputavi quando atterrava era già  ghiaccio. Ho trascorso lì i primi 17 anni, con due sorelle e due fratelli. Mio padre era tipografo, mia madre dottore del pronto soccorso».
Siamo nella casa dei suoi genitori, un po’ fuori Almaty, al bordo di un quartiere che si è intitolato “felicità “, e lo inalbera anche in caratteri latini. Alua ha sei anni e ci saluta in inglese e in italiano.
Ha un coniglietto bianco, uno vero, si chiama Sasha, fanno un piccolo spettacolo.
Alua ci canterà  anche a memoria una canzoncina italiana: “Era una casa molto carina, senza soffitto senza cucina…”. Non credo che ne colga l’allusione, e nemmeno nel finale, in via dei Matti, al numero zero
Guardiamo un video su Zhezdy oggi, in abbandono, ci sono restati solo un uomo e una donna anziani, sulla parete diroccata della casa di lei sono appese due foto di famiglia e un profilo di Stalin.
C’era una miniera di manganese, è stata dismessa. Allora era un posto grazioso, si piantavano alberi, c’è anche un fiume, si pattinava.
E a ballare andava? «Ah no, il padre era severo, e col bel tempo si lavorava alla verdura e la frutta per l’inverno. La cosa più bella era quando andavamo fuori con tutta la famiglia e gli animali, dormivamo nella yurta, la mamma faceva la panna con le sue mani. Avevo paura dei cavalli, quando ero piccola un cavallo all’improvviso mi starnutì addosso, e non mi è passata…».
«Andai all’università  ad Almaty, abitavo in un ostello, mi sono laureata in matematica. Ero forte a scacchi, ma non sono mai riuscita a entrare in nazionale.
Mukhtar Ablyazov l’ho incontrato così, lui però era in cima alla classifica.
C’era un torneo, finiva a notte, sarei tornata sola al buio, lui mi accompagnò. Ero al terzo anno, ne avevo 20, ci siamo sposati il 1° settembre del 1987.
Non avevamo dove andare se non nella mia stanza al collegio, ma quando arrivammo era chiuso. Siamo entrati dalla finestra, eravamo giovani e agili.
Le belle case londinesi erano lontane.
Quando ero già  incinta andammo a stare nel suo collegio, che ospitava le coppie, a un’ora da Almaty: la stanza in verità  era di 6 metri quadri, bagno e cucina comuni. Poi arrivammo a 9 metri, e l’ultimo anno a 20.
Lui si era laureato in fisica a Mosca, ed era assistente ad Almaty. Quando perse il posto bisognò cavarcela con le lezioni private.
A quel tempo il commercio tirava, e si mise a vendere macchinari elettronici. Provò anche con le mele, ma il primo carico arrivò che erano già  marce.
Capitò l’occasione di un piccolo bungalow, senza allacci, tutto andava con la benzina. Tutti quelli che incontrava gli dicevano: Sai che puzzi di benzina. Traslocammo in un appartamento. C’era ancora l’Urss, penuria di merci, si mise a vendere zucchero, sale, fiammiferi.
Gli affari crescevano, finchè qualcuno riuscì a portargli via quell’attività .
Allora decise di impegnarsi nella finanza. Nella prima banca, la Kazkommerz, si accorge in tempo che lo statuto di fondazione è stato manipolato facendone scomparire il suo nome, così ne esce, a mani vuote, e fonda la sua, la BTA».
«Quando i bambini erano più piccoli (dopo la femmina è nato un maschio, nel 1992) lui se ne occupava, e anche della casa. Ora che gli affari assorbono tutto il suo tempo vuole che io ne resti fuori, per non espormi ai rovesci che il successo si porta dietro.
Solo a 32 anni mi iscrissi alla Scuola Nazionale di Management, un corso annuale, poi all’Accademia Diplomatica, due anni. In verità  stavo sempre coi figli, cucinavo, mi piace fare i dolci, anche se il mio tiramisù non assomiglia mai abbastanza al vostro: era un bel tempo.
Nel 2001 un gruppo di giovani progressisti, alcuni avevano lavorato nel governo, fondarono il partito della Scelta Democratica, Ablyazov era il leader.
Ci fu un gran meeting pubblico, la tv TAN lo trasmise in diretta, finchè qualcuno distrusse a fucilate l’alimentazione elettrica. Dopo, Ablyazov e Galymzhan Zhakiyanov furono arrestati».
«Il presidente Nazarbayev aveva apprezzato Mukhtar, che parlava chiaro sulle questioni economiche ma anche politiche.
Dopo la fine dell’Urss la condizione dell’energia era rovinosa, le amministrazioni pubbliche credevano di non dover pagare bollette. Mukhtar impose che pagassero. Il presidente lo convocò per riferire le lamentele dei notabili, lui gli chiese se preferisse che le cose funzionassero o che smettessero le lamentele, e Nazarbayev si mise a ridere e gli disse di andare avanti.
Fu nominato ministro dell’economia e del commercio, si impegnò a promuovere l’energia per l’agricoltura.
Si attirava malumori e invidie. Intanto la BTA era cresciuta molto.
Il pretesto dell’arresto fu che si fosse servito del telefono del ministero… Fu condannato a 6 anni.
Mi ricordo la prima prigione, quell’orrore di ferri battuti. Portavo le cose più buone, era una festa per i detenuti. Anche in galera lui provava a far funzionare le cose.
Ottenne una bilancia, per verificare che non si imbrogliasse sui pasti. O la doccia due volte alla settimana invece che una. E le pulci: non sai che cosa sono le pulci in galera. Lo trasferirono.
I compagni gli volevano bene, alcuni per protesta si tagliarono. Nella nuova prigione lo mettono in mezzo al cortile, fanno venire fuori i detenuti e li picchiano dicendo che devono ringraziare lui per il trattamento.
Stava in una cella così fredda che si forzava a non addormentarsi, per paura di morire, si ammalò, fece uno sciopero della fame.
Si è persuaso che la sua vita era in pericolo. Gli hanno proposto di incontrare la stampa, di dichiarare che non si occuperà  più di politica, e l’ha fatto. Amnesty e Human Rights Watch hanno riconosciuto che la sua era una prigionia politica».
«In molti avevano smesso di frequentarmi, allora. Quando andò in carcere mi chiese di andare via, a Londra. Anche ora qui sono isolata, e anch’io evito i rapporti, non voglio nuocere a nessuno.
Per fortuna ho i miei parenti. Non vedevo madre e padre da cinque anni. Mio padre era un uomo sportivo, amato dai ragazzi. Ha 72 anni, da quando ne aveva 65 è malato. D’un tratto mi domanda: Ma come mai sei qui? Perchè non sei con tutta la tua famiglia? Allora io gli dico: Papà , non vuoi che stia con te?, e si accontenta.
Ho avuto tanta paura la notte in cui sono venuti a prenderci, ma sono grata agli italiani che ci hanno difese.
Ringrazio tutti, ne ho molto bisogno. Mi colpisce Emma Bonino, con quell’aspetto così fragile e una volontà  così coraggiosa: vorrei trovarmela di fronte.
L’ho detto, vorrei tornare dove stanno i miei, mi mancano tanto, mi manca la mia figlia grande, e io a lei.
Le donne capiranno: grazie a lei sono diventata nonna, e ha con sè il fratellino di dodici anni. Capisco quello che dici, che si parla di me solo come “la moglie di”: sono una donna, una persona, però io lo posso dire che sono la moglie di, e che lo amerò sempre. Una moviola che ci riporti indietro a una sera di Roma, senza che nemmeno dobbiamo voltarci, è un sogno impossibile.
Il ritorno è la mia speranza, e faccio tutto quello che occorre, passo dietro passo. Ho firmato un impegno a non lasciare Almaty, lo rispetto. Abbiamo chiesto al magistrato di sospendere il procedimento aperto contro di me lo scorso 30 maggio. E ho chiesto di poter espatriare, per ricongiungermi con la mia famiglia di cui sento tanto la mancanza, e per la nostra sicurezza»
Abbiamo parlato di molto altro, ma i giornali ne sono già  pieni, e poi toccherà  ai tribunali. Anche Alma è minuta e ha un aspetto fragile e molte notti senza sonno.
Anche lei è coraggiosa, però non bisognerebbe chiedere troppo alle persone.
A Ciampino, nelle ore in cui aspettavano, un impiegato gentile le ha detto: “C’è un mucchio di persone armate: ma che cos’ha fatto?” “Sono la moglie di un oppositore kazako”, ha risposto. “Tutto qui?”, ha chiesto lui.
Ho imparato tre o quattro parole di kazaco. Una è alma, vuol dire mela, il nome di Alma Ata viene da lì.
Però, in memoria del paradiso perduto, vuol dire anche, letteralmente, “Non toccare”.

Adriano Sofri
(da “La Repubblica“)

This entry was posted on lunedì, Agosto 12th, 2013 at 21:10 and is filed under Diritti civili, governo. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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