Dicembre 30th, 2010 Riccardo Fucile
COMPLIMENTI AI CATTIVI MAESTRI E AI GIORNALI DI REGIME: E’ COSI CHE LA GENTE IMPARA A CONOSCERVI MEGLIO… SE ESISTESSE UNA DESTRA SERIA E CIVILE IN ITALIA, CERTI IMBECILLI CHE DISCREDITANO UN’INTERA COMUNITA’ UMANA SAREBBERO CACCIATI DAL PDL A CALCI NEL CULO…INVECE ESPELLONO SOLO CHI DISSENTE
Molestato nel cuore della notte da un gruppo di giovani del Pdl che sono arrivati sotto
casa sua, nel centro storico di Terlizzi, alle porte di Bari.
Brutta avventura quella del governatore della Puglia Nichi Vendola, che stamattina è arrivato zoppicando alla conferenza stampa di fine anno organizzata nella sala Europa di villa Romanazzi Carducci a Bari.
E’ stato lo stesso Vendola a raccontare l’espisodio in apertura del suo discorso: il brusco risveglio nel cuore della notte e l’incidente, dovuto a una caduta per le scale.
Per identificare il gruppo di militanti politici sono intervenuti i carabinieri di Molfetta.
“Non ho trascorso una bella nottata perchè giovani del Pdl hanno pensato bene di venire a molestare il Presidente della Regione a casa sua, immaginando che un’abitazione privata possa essere una specie di protesi della lotta politica”, ha detto Vendola.
“E’ stata una nottata antipatica e alcuni giovani sono stati identificati dalle forze dell’ordine. Ognuno ha il diritto al sonno e nello spavento notturno sono anche caduto per le scale e per questo mi vedete così claudicante. Ho scelto di vivere nel centro storico del mio paese di fronte al mercato, e non in una villa residenziale separata dla popolo – ha concluso – e penso che continuerò così. Spero che i giovani del Pdl abbiano motivo di imparare le regole della lotta politica”.
Da parte nostra, oltre a esprimere la nostra solidarietà a un avversario serio e intelligente, non possiamo non sottolineare che quei giovani, non solo qualcuno ce li ha mandati, ma sono soprattutto il prodotto sottoculturale e arrogante di un partito di “accatoni di deputati” che non ha nulla a che spartire con una destra sociale e popolare.
Sono i figli coglioni di cattivi maestri, di killer travestiti da giornalisti, dell’arroganza del potere, di accattoni morali prima che politici.
Vendola è un avversario politico e come tale merita rispetto: se qualcuno lo ha insultato per le sue scelte sessuali, faceva prima a rivolgersi a certi esponenti del Pdl che tale scelta nascondono, nonchè a chi sniffa e si rifiuta di sottoporsi ai test proposti da Giovanardi.
Questa feccia farebbe meglio a combattere il malaffare e la corruzione interna a quella sottospecie partitica che corrisponde al “sedicente” centrodestra al governo nel nostro Paese, una coalizione affaristica-razzista che disonora la vera destra italiana.
Se una destra vera esistesse certi soggetti sarebbero stati cacciati a calci nel culo dal Pdl, invece si pensa solo a cacciare i dissidenti e chi non si prostra al gran sultano.
Il danno che quei mentecatti hanno arrecato alla destra vera, sociale e popolare, non ha prezzo.
Soprattutto morale.
Il conto lo presenteremo ai loro cattivi maestri.
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Dicembre 30th, 2010 Riccardo Fucile
DITE LA VERITA’ AL PAESE: LE COSE NON VANNO BENE E IL PANORAMA E’ SCONFORTANTE….PAGHIAMO MALI ANTICHI, MA OCCORREREBBE UN BILANCIO IMPIETOSO E UN GENERALE ESAME DI COSCIENZA…LA POLITICA RESTA IN SILENZIO TRA I PATETICI “GHE PENSI MI” E LA VACUITA’ DI TANTI: MAI UNA PROPOSTA CONCRETA PER RISOLVERE UN PROBLEMA…L’ANALISI DI GALLI DELLA LOGGIA SUL “CORRIERE DELLA SERA”
Non vanno bene le cose per l’Italia.
Prima che ce lo dicano le statistiche – comunicandoci per esempio un dato lugubre: che nel 2010 il reddito pro capite degli italiani sarà in termini reali inferiore a quello del 2000 – ce lo dice una sensazione che ormai sta dentro ciascuno di noi e ogni giorno si rafforza.
Basta che ci guardiamo intorno per scorgere un panorama sconfortante: abbiamo un sistema d’istruzione dal rendimento assai basso; una burocrazia sia centrale che locale pletorica e inefficientissima; una giustizia tardigrada e approssimativa; una delinquenza organizzata che altrove non ha eguali; le nostre grandi città , con le periferie tra le più brutte del mondo, sono largamente invivibili e quasi sempre prive di trasporti urbani moderni (metropolitane); la rete stradale e autostradale è largamente inadeguata e quella ferroviaria, appena ci si allontana dall’Alta velocità , è da Terzo mondo; la rete degli acquedotti è un colabrodo; il nostro paesaggio è sconvolto da frane e alluvioni rovinose ad ogni pioggia intensa, mentre musei, siti archeologici e biblioteche versano in condizioni semplicemente penose.
Per finire, tutto ciò che è pubblico, dai concorsi agli appalti, è preda di una corruzione capillare e indomabile.
C’è poi la nostra condizione economica: abbiamo contemporaneamente le tasse e l’evasione fiscale fra le più alte d’Europa, mentre gli operai italiani ricevono salari ben più bassi della media dell’area-euro; il nostro sistema pensionistico è fra i più costosi d’Europa malgrado le numerose riforme già fatte e siamo strangolati da un debito pubblico il pagamento dei cui interessi c’impedisce d’intraprendere qualunque politica di sviluppo.
Ancora: nessuno dall’estero viene a fare nuovi investimenti in Italia, ma gruppi stranieri mettono gli occhi (e sempre più spesso le mani) su quanto resta di meglio del nostro apparato economico-produttivo; nel frattempo il processo di deindustrializzazione non si arresta e la disoccupazione, specie giovanile, resta assai alta.
Nessuno di questi mali ha un’origine recente, lo sappiamo bene.
Non paghiamo cioè per errori di oggi o di ieri: o almeno non solo per quelli.
È piuttosto un intero passato, il nostro passato, che ci sta presentando il conto.
Oggi cominciamo a capire, infatti, che qualche tempo fa – quando? nel ’92-’93? un decennio dopo con l’adozione dell’euro? – si è chiuso un lungo capitolo della nostra storia.
Nel quale siamo diventati sì una società moderna (qualunque cosa significhi questa parola), ma pagando prezzi sempre più elevati, accendendo ipoteche sempre più rischiose sul futuro, chiudendo gli occhi davanti ad ogni problema, rinviando ed eludendo.
Prezzi, stratagemmi, rinvii, che negli Anni 70-80 hanno cominciato a trasformarsi in quel cappio al collo che oggi sta lentamente strangolando il Paese.
Lo sappiamo che le cose stanno così.
Ce ne accorgiamo ogni giorno che l’Italia perde colpi, non ha alcuna idea di sè e del suo futuro.
Ma ci limitiamo a pensarlo tra noi e noi, a confidarcelo nelle conversazioni private.
Avvertiamo con chiarezza che avremmo bisogno di bilanci sinceri e impietosi fatti in pubblico, di un grande esame di coscienza, di poterci specchiare finalmente e collettivamente nella verità .
Che ci servirebbero terapie radicali. Invece sulla scena italiana continua a non accadere nulla di tutto ciò.
Chi dovrebbe parlare resta in silenzio.
Resta in silenzio il discorso pubblico della società italiana su se stessa, consegnato ad una miseria che diviene ogni giorno meno sopportabile.
Ma soprattutto resta in silenzio la politica, divisa tra lo sciropposo ottimismo di Berlusconi, il suo patetico «ghe pensi mi» da un lato, e la vacuità dei suoi oppositori dall’altro.
Bersani, La Russa, Bossi, Fini, Bondi, Vendola, Verdini, Di Pietro, Casini, e chi più ne ha più ne metta credono di parlare al Paese con le loro dichiarazioni, le loro interviste, i loro attacchi a questo o a quello, i loro progetti di alleanze, di controalleanze e di governi: non sanno che in realtà se ne stanno guadagnando solo un disprezzo crescente, ne stanno solo accrescendo la distanza dal loro traballante palcoscenico.
Sempre più, infatti, la loro produzione quotidiana di parole suona eguale a se stessa: ripetitiva, irreale, ridicola.
Mai una volta che uno di essi proponga al Paese una soluzione concreta per qualche problema concreto: chessò, come eliminare la spazzatura a Napoli, come attrarre investimenti esteri in Italia, come finire la Salerno-Reggio Calabria prima del 3000, come iniziare a risanare il debito pubblico.
Mai: anche se a loro scusante va detto che nel solcare quotidianamente l’oceano del nulla sono aiutati da un sistema dell’informazione anch’esso perlopiù perduto dietro la chiacchiera, il «retroscena», il titolo orribilmente confidenziale su «Tonino» o «Gianfri», il mortifero articolo di «costume».
Nelle pagine e pagine dedicate dai giornali alla politica diventa sempre più difficile distinguere il vero dal falso, scorgere qualche spicchio di realtà tra i fumi dell’aria fritta.
È così che alla fine siamo condannati a questo necessario, disperato, qualunquismo.
Agli italiani non sta restando altro.
Disperato perchè frutto dell’attesa vana che finalmente da dove può e deve, cioè dalla politica, venga una parola di verità sul nostro oggi e sul nostro ieri. Una parola che non ci esorti – e a che cosa poi?
A credere in un ennesimo partito, in un’ennesima combinazione governativa? – ma che ci sfidi: ricordandoci gli errori che abbiamo tutti commesso, i sacrifici che sono ora necessari, le speranze che ancora possiamo avere.
Per l’Italia è forse iniziata una corsa contro il tempo, ma non è affatto sicuro che ce ne resti ancora molto.
Ernesto Galli Della Loggia
(da “il Corriere della Sera“)
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Dicembre 30th, 2010 Riccardo Fucile
IL CAVILLO USATO DAL CONSIGLIO DI STATO ORA POTREBBE ESSERE UTILIZZATO PER ANNULLARE ANCHE LE MAXI-SANZIONI DA 98 MILIARDI DI EURO… ESULTANO I CONCESSIONARI, IN VISTA L’ENNESIMO VERGOGNOSO COLPO DI SPUGNA, COMPLICI I PARTITI
Una sentenza del Consiglio di Stato che annulla una penale da 7 milioni di euro. 
È passata quasi inosservata nel mare di decisioni prese dalla magistratura amministrativa.
Ma potrebbe cancellare i 98 miliardi che la Procura della Corte dei Conti ha richiesto alle società concessionarie delle slot machine.
La decisione sulla penale più grande mai richiesta dalla magistratura contabile italiana arriverà dopo l’estate.
L’opinione pubblica ha seguito tutta la vicenda sulle pagine del Fatto, del Secolo XIX, nelle inchieste di Striscia la notizia e sul blog di Beppe Grillo dove sono piovuti migliaia di messaggi.
Ma la sentenza del Consiglio di Stato è stata salutata come un trionfo dai padroni delle slot…
Per capire perchè, bisogna leggere tutte le 25 pagine.
I magistrati hanno accolto il ricorso di BPlus Gioco Legale Ltd e hanno annullato le penali delle nuove slot irrogate dai Monopoli di Stato nel 2008. Tutto parte dal ritardo contestato nell’avvio della rete delle slot che avrebbe provocato, secondo l’accusa, un danno ai Monopoli.
Una vicenda complessa, che si è divisa in una miriade di giudizi, ricorsi e controricorsi, dal Tar fino alla Corte dei Conti.
La sentenza del Consiglio di Stato, come ricorda l’agenzia specializzata Agicos, “riguarda solamente le penali, per la precisione il secondo conteggio, quello basato sugli atti integrativi delle convenzioni di concessione siglati nella primavera del 2008 che hanno reso più favorevoli i parametri per il conteggio delle penali”.
BPlus (una volta si chiamava Atlantis) è la compagnia con il maggior numero di apparecchi installati.
Ad essa i Monopoli avevano contestato penali per circa 7 milioni di euro (ma la Corte dei Conti aveva parlato di 31 miliardi).
Il Tar aveva confermato le penali. Ma ecco la decisione di appello del Consiglio di Stato.
Il passaggio chiave: “Con riferimento alle violazioni più gravi imputate” alle società concessionarie, “cioè al mancato collegamento di apparecchi entro il 31 dicembre 2004, va condivisa la tesi… secondo cui occorre tener conto delle modifiche alla Convenzione (tra concessionari e Monopoli, ndr)” intervenute successivamente.
È il nodo della questione: la nuova Convenzione.
Quella che per le concessionarie è l’ancora di salvezza e che per i critici invece è sempre parsa un colpo di spugna voluto da tutti, partiti compresi, per cancellare decine di miliardi di penali previste per le concessionarie.
La nuova disciplina deve essere applicata anche a violazioni precedenti…?
In materia penale le leggi più favorevoli sono retroattive.
Ma qui siamo in un ambito completamente diverso, parliamo di contratti e convenzioni.
I legali delle concessionarie cantano vittoria: “Una sentenza ottima che chiude in maniera tombale la questione. Il Consiglio di Stato afferma che i ritardi non hanno causato danni alla pubblica amministrazione. Una sentenza destinata ad avere ripercussioni anche sul procedimento della Corte dei Conti”.
Maa è davvero il preannuncio che le casse pubbliche devono dimenticarsi i famosi 98 miliardi…?
No, perchè il giudizio della Corte dei Conti si basa anche su altri atti e perizie, non sempre favorevoli alle concessionarie.
Certo, però, che la sentenza del Consiglio di Stato offre una via di uscita che i magistrati contabili potrebbero scegliere di seguire…
Ferruccio Sansa
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Dicembre 30th, 2010 Riccardo Fucile
“SE VI STA BENE E’ COSI, ALTRIMENTI IL LINGOTTO SE NE VA”: CHI NON ACCETTA LA DOTTRINA MARCHIONNE E’ DAVVERO FUORI DALLA STORIA?….CONSERVATORI E MODERNISTI: L’ECCEZIONE CHE DIVENTA LA REGOLA…I SINDACATI GIOCANO CON CARTE FALSE, LA FIAT BLUFFA, IL GOVERNO NON HA NEANCHE LE CARTE…NON SI PARLA DI INNOVAZIONE E DI RICERCA, MA SOLO DI 10 MINUTI DI PAUSA E DI DIRITTI IN MENO PER 30 EURO IN PIU’
Nel Paese degli opposti estremismi, il caso Fiat è diventato un paradigma della Modernità .
Sedicenti leader sindacali lo usano con poca prudenza: una clava da brandire contro i “padroni”, rispolverando un conflitto di classe irripetibile
Ma sedicenti pensatori liberali lo usano con poca conoscenza: una pietra angolare del riformismo, da lanciare contro tutti i conservatorismi.
Pomigliano e Mirafiori si impongono nel discorso pubblico come luoghi-simbolo di ogni cambiamento, non solo industriale.
Secondo questa chiave di lettura, conservatrici sono quelle migliaia di operai che non si adattano all’idea di veder ridotto il perimetro dei diritti e peggiorato il modo della produzione.
Conservatrici sono quelle casamatte della sinistra sindacale che non si rassegnano alla dura legge del mercato globale.
Conservatrici sono quelle trincee della sinistra politica che non scorgono nella trasformazione post-fordista della fabbrica l’opportunità di riscrivere il proprio decalogo di valori.
Conservatrici sono persino quelle frange della rappresentanza confindustriale, con modelli di relazioni solide nel settore pubblico delle public utilities e collaudate nel settore privato delle piccole imprese, che non capiscono la chance irripetibile offerta dalle vertenze-pilota aperte dal Lingotto.
Chi non accetta la “dottrina Marchionne” è dalla parte sbagliata della Storia. Quasi a prescindere.
E così, per sconfiggere l’ideologia delle vecchie sacche di resistenza corporativa, si adotta un’ideologia uguale e contraria: quella delle nuove avanguardie della “modernizzazione progressiva”.
Questa impostazione del problema Fiat deflagra in modo potente, e patente, con l’ennesima firma separata prima sugli accordi per Mirafiori e ora sulla riapertura di Pomigliano.
Pochi ragionano sui contenuti degli accordi. Molti si preoccupano di giudicare i torti della Fiom che ancora una volta si è sfilata dal tavolo.
La si può raccontare come si vuole. Ma in questa vicenda ci sono due dati di fatto, oggettivi e incontrovertibili.
Il primo dato: l’accordo di Pomigliano doveva essere un’eccezione non più ripetibile. Si è visto ora a Mirafiori che invece quell’eccezione, dal punto di vista della Fiat, deve diventare la regola.
Chi ci sta bene, chi non ci sta è fuori da tutto, dalla rappresentanza e dunque dall’azienda.
Il secondo dato: questo accordo è obiettivamente peggiorativo della condizione di lavoro degli operai e della funzione di diritto del sindacato.
Si può anche sostenere che non c’erano alternative, e che firmare era la sola opzione consentita, per evitare che la Fiat smobilitasse.
Tuttavia chi oggi parla di “svolta storica” abbia il buon senso di riconoscere che si è trattato di una firma su un accordo-capestro basato su un ricatto. Legittimo, per un’impresa privata.
Ma pur sempre ricatto.
Per questo c’è poco da brindare di fronte al passo compiuto dal nostro sistema di relazioni industriali verso la “terra incognita” indicata da Marchionne.
Per questo fanno male i modernizzatori, che inneggiano agli accordi separati di Mirafiori e Pomigliano come se si trattasse degli accordi di San Valentino dell’84 (quelli sì, davvero storici) che troncarono il circolo vizioso del “salario variabile indipendente” e salvarono l’Italia dalla vera tassa occulta che falcidia gli stipendi, cioè l’inflazione.
La verità è che in questa partita quasi tutti i giocatori usano carte false o fingono di avere carte che non possiedono.
Il giocatore che non ha carte da giocare è il governo. Berlusconi non è Craxi, e Sacconi non è Visentini.
Questo governo non è stato capace di mettere in campo uno straccio di proposta, nè sulle misure per la competitività del sistema nè sulla legge per la rappresentanza: ha saputo solo gettare benzina ideologica sul fuoco delle polemiche.
Il giocatore che non ha carte da giocare è anche il Pd, che sa solo dividersi e non sa capire che l’unico metro per misurare il suo tasso di riformismo sta nel proporre un’agenda alternativa e innovativa per la crescita del Paese, un progetto per l’occupazione, per la produzione del reddito e per la sua redistribuzione.
E sta nel riconoscere i diritti, uguali e universali, nel difenderli dove e quando serve, rinunciando a tutto il resto.
Il giocatore che usa carte false è il sindacato.
La Fiom ha le sue colpe, per non aver saputo accettare il confronto con solide controproposte e non aver voluto prendere di petto il drammatico problema dell’assenteismo nelle fabbriche.
La Cgil ha le sue ambiguità , per non aver potuto ricondurre a unità la sua dialettica interna, ancora dominata da una logora “centralità metalmeccanica”.
Ma Cisl e Uil che si gridano “vittoria” spacciano carte false. Bonanni e Angeletti porteranno a lungo sulla coscienza una gestione gregaria dei rapporti con la politica e con la Fiat, e un accordo che per la prima volta riconosce il principio che chi non accetta i suoi contenuti non ha più diritto di rappresentanza sui luoghi di lavoro.
C’è poco da festeggiare, quando peggiorano le condizioni di lavoro e si comprimono gli spazi del diritto, a meno che non ci si accontenti di monetizzare tutto questo con 30 euro lordi di aumento mensile.
Il giocatore che bluffa, infine, è Sergio Marchionne.
Ha il grande merito di aver salvato la Fiat quando il gruppo era a un passo dalla bancarotta, e di aver lanciato il gruppo da una proiezione domestica a una dimensione finalmente sovranazionale, grazie all’accordo con Chrysler. Ma ora il “ceo” col golfino e senza patria, l’inafferrabile manager italo-svizzero-canadese che vive “tra le nuvole” (come il George Clooney dell’omonimo film) in transito perenne tra il Lingotto e Auburn Hill, ha il dovere della chiarezza.
Verso il Paese e verso i lavoratori.
C’è una questione di merito.
Nessuno ha ancora capito cosa ci sia nel piano-monstre Fabbrica Italia: quali e dove siano indirizzati i nuovi investimenti, quali e quanti siano i nuovi modelli di auto che il gruppo ha in programmazione, dove e come saranno prodotti.
Nessuno ha ancora capito di cosa parla l’azienda quando esalta, giustamente, la via obbligata del recupero di produttività .
Con le condizioni pessime nelle quali versa il Sistema-Paese, c’è davvero qualcuno pronto a credere che questa sfida gigantesca si vince riducendo le pause di 10 minuti al giorno, o aumentando gli straordinari di 80 ore l’anno? E’ vero che in Germania e in Francia le pause sono già da tempo minori che in Italia.
Ma solo un cieco può non vedere che Volkswagen e Renault hanno livelli di produttività giapponesi, macinano utili e aumentano quote di mercato grazie all’innovazione di prodotto e di processo, prima ancora che all’incremento dei tempi di produzione.
C’è poi una questione di metodo.
Dove porta questa volontà pervicace e quasi feroce di mettere fuori gioco la Cgil, con piattaforme divisive che servono solo a spaccare il fronte confederale?
Dove porta questa necessità di disdettare il contratto dei meccanici e di uscire da Confindustria?
Si dice che Marchionne punti a un modello di relazioni industriali all’americana, dove il parametro è Detroit e non più Torino.
Probabilmente è così.
Ma questo tradisce una volta di più i contenuti veri del Lodo Fiat-Chrysler. Non è la prima che ha comprato la seconda, com’è sembrato all’inizio.
Ma in prospettiva sarà la seconda ad aver comprato la prima, nello schema classico del “reverse take-over”.
Uno schema che non prevede compromessi.
Il modello è il capitalismo compassionevole degli Stati Uniti, non più il Welfare universale della Vecchia Europa.
Se vi sta bene è così, altrimenti il Lingotto se ne va.
Questa è la vera posta in palio del caso Fiat.
Alla faccia della Modernità .
Massimo Giannini
(da “La Repubblica“)
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Dicembre 30th, 2010 Riccardo Fucile
DAL 1 GENNAIO, LE 125 UNITA’ ESTERNE DEGLI “ANGELI DEL TERREMOTO” SARANNO RIMANDATE A CASA… “GIA’ NON BASTANO IL PERSONALE E I MEZZI CHE CI SONO ORA” DENUNCIANO I VIGILI DEL FUOCO…DI QUESTO PASSO SOLO PER RIMUOVERE LE MACERIE OCCORRERANNO 70 ANNI….IN UN ANNO AI VIGILI DEL FUOCO NON SONO MAI STATI PAGATI GLI STRAORDINARI
La notte del 6 aprile 2009, quando lo scossone ha devastato L’Aquila, in città erano di
servizio 13 vigili del fuoco: dieci in pattuglia e tre alla base.
Del tutto insufficienti, com’è ovvio, per far fronte alla catastrofe.
Poi però arrivarono pattuglie da tutta Italia per estrarre dalle macerie decine di superstiti sepolti sotto tonnellate di cemento e mattoni. E i morti, 308.
A L’Aquila ora li chiamano “gli angeli del terremoto”. Sì, perchè in un anno e mezzo sono stati il braccio operativo più flessibile e più vicino alla gente.
Dal puntellamento degli edifici pericolanti alla rimozione delle macerie.
Hanno scortato nelle case inagibili i residenti per recuperare mobili e oggetti utili o cari.
Il rosso delle vetture, il verde e il giallo delle divise per gli aquilani sono sinonimo di assistenza, cortesia, sicurezza. Una gentilezza molto meno presente in altri uomini mandati in Abruzzo dalle istituzioni.
Adesso, però, i Vigili del fuoco se ne devono andare: se non ci saranno proroghe al decreto del commissario per la ricostruzione Gianni Chiodi, infatti, da gennaio tutte le unità non aquilane ora di stanza nella zona colpita dal terremoto, torneranno nelle zone di provenienza, lasciando l’emergenza in mano al solo comando abruzzese.
Una metà delle 125 unità di appoggio ora presenti nel cratere ha già fatto le valigie. Entro la fine del mese se ne andranno tutti.
Come se in Abruzzo ormai fosse tutto a posto.
«Già non bastano il personale e i mezzi che ci sono ora», spiega un vigile del fuoco aquilano che accetta di spiegare la situazione a patto di mantenere l’anonimato , «perchè siamo gli unici autorizzati a rimuovere e trasportare le macerie assieme all’esercito.
Inutile dire che va molto a rilento. Se se ne vanno le unità esterne come si fa? Rimarremmo 88 per tutto il cratere, divisi in quattro turni».
Nonostante il piano presentato a marzo dal ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo per liberare i comuni dalle macerie, L’Aquila e i centri storici del cratere sismico attendono ancora.
Oltre due milioni di tonnellate di materiale da selezionare, dividere, smaltire. Ma questa è purtroppo la stima più rassicurante.
Legambiente, in un dossier redatto proprio su una valutazione di Vdf e Cnr, a ottobre ha azzardato 70 anni, il tempo che ci vorrà per liberare il territorio. «All’inizio si andava spediti, ma era solo un’operazione di facciata. Ora conferiamo in discarica meno della metà del materiale rispetto alla scorsa primavera».
Solo i pochi mezzi disponibili dell’esercito e dei Vigili del fuoco sono autorizzati a scaricare materiali nell’unico sito disponibile, una cava dismessa in via di saturazione.
E allora chi rimarrà per liberare L’Aquila dalle macerie, primo passo per avviare la ricostruzione? «Non so», risponde il pompiere mentre mostra una pila di fogli «ma io ho qui una montagna di ordini di esecuzione che non ho idea di come evadere».
Così i Vigili del fuoco in Abruzzo sono in subbuglio.
Quando se ne ne andranno i colleghi, sarà un caos infernale, per la popolazione e ovviamente per loro.
In un comunicato sindacale lamentano «la totale incertezza in cui è lasciato tutto il personale e, soprattutto a causa del senso di abbandono che lo pervade». Aggiungono: «Nulla, infatti ci è dato sapere su cosa accadrà dal 1° gennaio 2011 per quanto concerne il dispositivo di soccorso della struttura emergenziale».
Tra le rivendicazioni avanzate al Comando nazionale di Roma (accusato in una lettera alla cittadinanza di fare solamente passerella) e al governo c’è anche un altro problemuccio: ìn un anno di straordinari arretrati mai pagati.
Ma questa è solo l’ultima “carineria”.
Nel corso dell’emergenza Abruzzo ne hanno viste di tutti i colori a cominciare dal sito del comando a L’Aquila, posizionato sopra una discarica tossica: «A giugno di quest’anno la stessa storia, ci hanno lasciati appesi fino all’ultimo, senza informarci di quello che sarebbe stato il futuro. Sembra abbiano paura di noi, in occasione della cerimonia di conferimento delle onorificenze i Vigili del fuoco che hanno lavorato qui non hanno avuto nemmeno un posto riservato, si sono portati dietro delle comparse da Roma».
E poi la beffa delle medaglie.
La benemerenza meritata per il coraggio la competenza e l’abnegazione.
Solo che il kit medaglia, fornito da una società privata, era a pagamento: 140 euro. «Le abbiamo lasciate tutte dove stavano», spiega un pompiere.
Pagare per un attestato, anche nell’Italia berlusconiana, è un po’ troppo.
L’intento malcelato, per ora, sembra essere quello di evitare la brutta figura di far partire tutti quanti insieme come una fuga.
Nell’incontro di oggi a Roma tra le sigle sindacali dei Vigili del fuoco e i vertici del dipartimento, la parola d’ordine è stata “salviamo la faccia”.
Si sono espressi più o meno così il prefetto Francesco Paolo Tronca, capo dipartimento, e il suo vice Alfio Pini, stando a quanto racconta Tonino Jiritano della UsbRdb: “Si è parlato solo di salvare l’immagine del corpo nazionale — spiega — e sulla considerazione che l’emergenza è ormai conclusa e bisogna lasciare il compito di rimozione e messa i sicurezza ai privati, perchè Chiodi di soldi non ne ha, anche se ha detto che proverà a trovarli”.
Cgil, Cisl e Uil, presenti all’incontro, hanno dato il loro parere positivo a questa risoluzione.
Un po’ come con la questione delle tasse, Chiodi proverà a mendicare fondi a Roma.
Intanto dunque si va avanti a spizzichi e bocconi “fino a che la pressione dei giornali non sarà allentata”.
Solo a gennaio il dipartimento continuerà a inviare tecnici specialisti per la messa in sicurezza degli edifici, poi tutti a casa.
Matteo Marini
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Dicembre 30th, 2010 Riccardo Fucile
IN POLONIA E IN BRASILE LA SETTIMANA LAVORATIVA E’ PER LEGGE DI 48 ORE E SI LAVORA IL SABATO… LE DIFFERENZE RISPETTO AI CONTRATTI NAZIONALI E QUELLI AZIENDALI, I DIVERSI DIRITTI SINDACALI E LA RAPPRESENTANZA… LE PAUSE PREVISTE
Pause, straordinari, democrazia sindacale.
I temi che fanno discutere l’Italia dopo la spaccatura tra sindacati a Pomigliano e Mirafiori sono gli stessi che agitano la discussione all’estero.
La globalizzazione frulla norme e tradizioni molto diverse tra loro mettendole in concorrenza e sullo stesso piano a migliaia di chilometri di distanza.
Dire straordinario è semplice ma ingannevole.
In Polonia e in Brasile, tanto per rimanere nel pianeta Fiat, la settimana lavorativa è per legge di 48 ore mentre in Italia è di 40.
Questo significa che tutta la discussione sui sabati di straordinario che ha attraversato l’estate italiana, in quei due paesi non avrebbe avuto senso semplicemente perchè il lavoro al sabato fa parte della normalità .
Analoghe considerazioni valgono per il contratto nazionale di lavoro, quello che la Fiat intende abbandonare nelle sue fabbriche.
Il sistema dei due livelli contrattuali (uno nazionale uguale per tutti e uno aziendale) è tipico dell’Europa (con l’eccezione della Gran Bretagna).
Ma di fronte alla crisi, segnalano gli studi dell’Unione europea, i contratti nazionali tendono a perdere peso anche in paesi come Italia, Germania e Spagna dove per cultura i contratti aziendali hanno sempre avuto minore importanza.
La contrattazione nel territorio o azienda per azienda sta prendendo piede proprio perchè nella crisi ogni impresa cerca di trovare la sua soluzione. Vincono modelli come quello brasiliano dove ogni territorio ha regole diverse o quello inglese dove il contratto nazionale non è mai esistito.
Il sistema dei diritti sindacali è molto diverso da paese a paese.
In Europa prevale il modello del pluralismo sindacale: in ogni azienda le organizzazioni dei lavoratori sono più d’una e contano in base alla rappresentanza effettiva che hanno tra i dipendenti.
Negli Stati Uniti non è così: Bon King, leader del sindacato Uaw, è l’unico titolato a trattare con la Chrysler perchè negli Usa per essere presenti in fabbrica è necessario superare le elezioni che si svolgono tra sindacati diversi: chi vince rappresenta tutti.
Questo spiega lo stupore di Marchionne in Italia: “Non capisco perchè devo trattare con tutti questi sindacati”.
Infine la questione dello stress.
I sindacati italiani hanno contestato la richiesta della Fiat di ridurre le pause da 40 a 30 minuti per turno.
Ma le tabelle dimostrano che nella stragrande maggioranza degli stabilimenti europei le pause sono intorno ai 30 minuti o più basse.
Fa eccezione lo stabilimento della Nissan di Barcellona che prevede 45 minuti di pausa per turno.
All’opposto lo stabilimento Renault di Sandouville, in Normandia, dove la pausa è di soli 17 minuti.
Curiosamente Nissan e Renault fanno parte dello stesso gruppo industriale. Tra i costruttori con stabilimenti in Europa solo la Fiat prevede la pausa mensa di mezz’ora all’interno del turno di lavoro.
Gli altri costruttori invece escludono la mensa dal calcolo delle ore lavorate. Anche all’interno del sistema Fiat ci sono differenze notevoli.
Non solo sui salari: quello netto di un operaio brasiliano è di 565 euro al mese mentre il polacco arriva a 700 e l’italiano a 1.200 (tutti molto lontani dai tedeschi che portano a casa 1.700 euro netti)
Paolo Griseri
(da “La Repubblica“)
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Dicembre 30th, 2010 Riccardo Fucile
ACCOLTO IL RICORSO DELLA GIORNALISTA, PUNITA PER ESSERSI OPPOSTA ALLA LINEA EDITORIALE DEL DIRETTORISSIMO…IL TRIBUNALE DEL LAVORO NE ORDINA IL REINTEGRO COME CONDUTTRICE DEL TG1 E INVIATA SPECIALE… SCODINZOLINI SI ARRAMPICA SUGLI SPECCHI
Il tribunale di Roma sezione lavoro, giudice Marrocco, accogliendo il ricorso in via
d’urgenza della giornalista Tiziana Ferrario (assistita dagli avvocati Domenico e Giovanni Nicola D’Amati), ha ordinato alla Rai di reintegrare la giornalista nelle mansioni di conduttrice del Tg1 delle 20 e di inviata speciale per grandi eventi.
Il giudice ha ravvisato nella rimozione di Tiziana Ferrario dell’incarico di conduttrice del tg della rete ammiraglia una “grave lesione della sua professionalità per motivi di discriminazione politica a seguito dell’opposizione della stessa giornalista alla linea editoriale del direttore Augusto Minzolini.
Secondo il giudice Marrocco, “i provvedimenti che hanno riguardato la Ferrario sono stati adottati in contiguità temporale con la manifestazione, da parte della lavoratrice, del dissenso alla linea editoriale impressa al telegiornale dal nuovo direttore, con l’adesione da parte sua alla protesta sollevata dal cdr e diretta a far applicare nel tg i principi di completezza e pluralismo nell’informazione e, infine, con la mancata sottoscrizione da parte della stessa del documento di censura al cdr il 4 marzo scorso”.
E ancora nella motivazione si legge che detti provvedimenti “sono stati antitetici rispetto a quelli adottati nei confronti dei colleghi di redazione che non avevano posto in essere le suddette condotte”.
In particolare, “in merito alla rimozione dell’incarico di conduzione del Tg1, dichiaratamente collegata dal direttore del telegiornale all’intento di ringiovanire i volti del tg, risulta in atti che identica decisione non ha coinvolto due giornalisti in sostanza coetanei della ricorrente (Petruni e Romita), i quali, di contro, avevano sottoscritto il documento 4 marzo 2010 di sostegno alla linea editoriale”.
Da qui l’ordine impartito alla Rai, che dovrà pagare anche le spese di giudizio, di restituire la conduzione del Tg1 delle 20 alla Ferrario oltre alla mansione di inviata speciale per i grandi eventi.
“Da parte mia c’è grande soddisfazione perchè è stata riconosciuta un’ingiustizia professionale”. Così commenta la sentenza la diretta interessata.
“Voglio condividere questa soddisfazione – continua la Ferrario – con gli altri colleghi che si trovano nella stessa situazione, i primi che ho chiamato appena ho avuto questa notizia”.
“E’ stato affermato un principio fondamentale, vale a dire che la legge non dà il diritto a nessun direttore di emarginare i colleghi che non sono d’accordo con lui e che tutti devono concorre alla buona riuscita di un telegiornale, soprattutto se si tratta del servizio pubblico”.
Secondo Minzolini invece “la decisione del giudice è assurda perchè interviene in decisioni di fatto del direttore: quello che è normale negli altri Paesi, qui non lo è e resta il concetto che un ruolo rimane acquisito…”.
Forse negli altri Paesi esistono dei direttori di Tg che, oltre a non far perdere ascolti, non prendono ordine dai palazzi del potere e non spendono 80.000 euro di spese di rappresentanza.
Oltre a non censurare i servizi.
Solo una pseudo destra di accattoni poteva designare un direttore di questo genere a Rai 1 per rimediare simili figure.
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Dicembre 30th, 2010 Riccardo Fucile
NEL 2009 E’ AUMENTATA ANCORA LA PERCENTUALE DI CHI NON PUO’ PAGARE UN CONTO NON PREVENTIVATO DI 750 EURO….I REDDITI NETTI SONO CALATI DEL 2,1%, META’ DELLE FAMIGLIE VIVE CON MENO DI 2.026 EURO AL MESE.. LE FAMIGLIE CON FIGLI SONO QUELLE PIU’ IN DIFFICOLTA’
Un’improvvisa malattia, la riparazione dell’auto, la sostituzione della caldaia, l’aumento delle spese condominiali diventano un dramma per un numero sempre maggiore di famiglie italiane.
Inoltre, dato che l’inflazione è stata più alta dell’aumento dei salari, in termini reali i redditi netti delle famiglie sono scesi del 2,1%.
Lo rivela l’Istat nel rapporto Distribuzione del reddito e condizioni di vita in Italia, che evidenzia che nel 2009 è cresciuta la difficoltà delle famiglie di far fronte alle spese impreviste.
L’istituto di statistica precisa inoltre che le famiglie che non potrebbero far fronte a spese impreviste di 750 euro sono aumentate dal 32% al 33,3%. Rispetto al 2008 cresce inoltre il numero di famiglie che sono state in arretrato con debiti diversi dal mutuo (dal 10,5 al 14% di quelle che hanno debiti) e quelle che si sono indebitate (dal 14,8 al 16,5%).
Le famiglie con figli sono «relativamente più esposte a situazioni di disagio». L’11,7% delle coppie con figli dichiara di essersi trovata in arretrato con il pagamento delle bollette (contro il 5,4% di quelle senza figli), ma la percentuale sale al 22% per quelle con tre o più figli.
La situazione di «maggiore vulnerabilità » delle coppie con almeno tre figli, precisa l’Istat, è confermata anche dal fatto che il 31,5% dichiara di arrivare a fine mese con molta difficoltà , il 7,3% di aver avuto insufficienti risorse per le spese alimentari, il 29,2% per le spese di vestiario e il 22% di quelle che vivono in affitto o hanno contratto un mutuo sono state in arretrato con il pagamento delle rate.
Insieme a queste si trovano più frequentemente coinvolte in situazioni di difficoltà economica le famiglie con un solo genitore e gli anziani soli.
Nel 2009 la crisi, prosegue l’Istat nella sua analisi, ha colpito in larga maggioranza le famiglie che si trovavano in condizioni di deprivazione materiale già nel 2008.
Inoltre, la caduta dell’occupazione ha riguardato soprattutto i figli che vivono nella famiglia di origine, mentre i genitori hanno potuto contare sulla cassa integrazione, evitando che la situazione diventasse ancora più grave.
Nel 2008 le famiglie residenti in Italia hanno percepito un reddito netto medio di 29.606 euro, pari a circa 2.467 euro al mese, ma la metà delle famiglie ha percepito meno di 2.026 euro al mese.
Tra il 2007 e il 2008 il valore medio del reddito netto familiare è aumentato dell’1,2%, ma se si tiene conto dell’inflazione (che nel 2008 è cresciuta del 3,3%), in realtà i redditi delle famiglia sono scesi in termini reali del 2,1%.
E nel Sud e nelle Isole i redditi sono pari a poco più di tre quarti di quelli delle famiglie del Centro-Nord.
E aumenta la disparità non solo regionale, ma anche tra chi si trova più in alto nella scala sociale e chi invece si trova sotto: il 37,5% del reddito totale percepito nel 2008 è andato al 20% più ricco delle famiglie, mentre il 20% delle famiglie con i redditi più bassi ha potuto contare solamente sull’8,3% del reddito totale.
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Dicembre 29th, 2010 Riccardo Fucile
I PARERI DI LUCIA ANNUNZIATA, ENRICO MENTANA, PINO CORRIAS, MICHELLE PADOVANI, PIERO OTTONE, MIGUEL MORA, CURZIO MALTESE SUL KILLERAGGIO MEDIATICO ALLA BELPIETRO… PROPAGARE NOTIZIE SENZA ALCUNA VERIFICA E POI RIFIUTARSI DI INDICARE LA FONTE DEL PRESUNTO SCOOP O NOTIZIA TAROCCO
Le novità nell’atteggiamento di Maurizio Belpietro, autore dell’ultimo “scoop” sul
presidente della Camera Gianfranco Fini, sono due: ammette che la notizia del presunto auto-attentato che dà potrebbe essere falsa e rivendica il diritto di pubblicarla comunque.
Un’accelerazione rispetto al neo direttore editoriale di Libero Vittorio Feltri, che per riconoscere sul Giornale la bufala del caso Boffo da lui montato ci mise tre mesi (e ancora sconta la sospensione decisa dall’ordine dei giornalisti).
Belpietro scrive che, secondo una fonte mai conosciuta prima ma “che non mi è sembrato un matto”, era in preparazione un finto agguato contro Fini per poi far ricadere la colpa su Berlusconi.
“Ha ragione Belpietro, le notizie vanno date. Se le catastrofi del 2012 poi si verificassero io prenderei un bel buco a non annunciarle”, ironizza Pino Corrias, giornalista e dirigente di Rai Cinema.
Poi si fa serio: “Questo è un esempio di giornalismo barbarico, senza regole nè perimetro”.
L’operazione, spiega Corrias, è chiara: “Bisogna delineare un contesto lugubre in cui Fini si muove tra prostitute, case trafugate e personaggi dal passato losco. Il messaggio è che sono tutti uguali, quindi tanto vale tenersi Berlusconi”.
Se si abbattono le regole allora “anche io posso raccontare qualsiasi cosa, per esempio che Belpietro sta per sposarsi con un muratore tunisino. Me l’ha detto una fonte certa, e non potevo certo farmi scippare lo scoop da Chi”.
Se fosse vero. Ammettendo invece che la notizia ci sia davvero, l’unica prova resta comunque la parola di Maurizio Belpietro. “Se le tre inchieste della magistratura stabilissero che in Puglia si stava preparando qualcosa di serio, Belpietro avrebbe fatto bene a dare la notizia”, sostiene il direttore del Tg La7 Enrico Mentana.
Tutto dipende quindi dall’autorevolezza della fonte.
“Il problema è che non so chi sia questa persona — spiega Mentana — ma se un giornalista esperto la reputa credibile è normale che pubblichi l’articolo, anche senza ulteriori riscontri. D’altronde cosa poteva fare, chiamare l’attentatore?”.
Tutti i giornali ora parlano della escort, che giura di essere “nipote di un camerata di partito”, che Fini avrebbe comprato per duemila euro a notte, e di 200mila euro promessi a due criminali per ferire lievemente il leader di Fli lasciandosi dietro l’ombra del Cavaliere.
Un accostamento, quello tra le due vicende, che secondo Mentana “contamina già in partenza la percezione dell’articolo, rendendo quasi obbligatorie reazione negative. Ma se fosse un bluff, il primo a perderci sarebbe proprio Belpietro, visto che lui stesso è stato bersaglio di un controverso attentato. O il direttore ha ragione, o si è appena lanciato un doppio boomerang”.
E proprio nel precedente di Belpietro, suggerisce l’editorialista di Repubblica Curzio Maltese, si celerebbe una perversione psicologica (poco originale) del direttore di Libero: “Hitler, com’è noto, ha fatto suicidare la nipote con cui aveva rapporti sessuali. E, guarda caso, accusava i suoi nemici proprio di andare a letto con ragazzine o con parenti. Belpietro ora scrive di un falso attentato e di una escort: quest’ultima professione è diventata politicamente celebre grazie a Berlusconi, e sugli attentati fasulli il caposcorta di Belpietro potrebbe tenere lezioni. Perchè il direttore non indaga sul tizio che avrebbe sparato sulle scale di casa sua e che poi, neanche fosse un caccia americano a prova di radar, è svanito nel nulla?”.
Il complotto. “Girano strane storie…”: ecco come, l’altroieri, cominciava la ricostruzione di Libero.
E, almeno su questo aspetto, è d’accordissimo la conduttrice di In mezz’ora, Lucia Annunziata: “La vicenda è troppo strana per essere stata completamente inventata, va oltre ogni limite. Penso che dietro ci sia un gioco oscuro”.
Secondo l’ex presidente della Rai “gira un’intercettazione, o un video, in cui un camorrista immagina di attaccare Fini per compiacere Berlusconi. Penso che da qualche parte ci sia un documento che ha aperto una nuova serie di ricatti. E credo che Belpietro abbia costruito questa storia solo per smontare preventivamente quella vera che potrebbe presto uscire. Però ha esagerato, segno che il gruppo di fuoco della macchina del fango è in grande difficoltà ”.
La deriva. Vera o falsa, una notizia data così suscita comunque qualche perplessità in chi ha la giusta memoria storica della professione per cercare analogie.
L’ex direttore del Corriere della Sera e del Secolo XIX Piero Ottone, ammette che “non ricordo precedenti simili nella mia lunga carriera da giornalista. Sul caso specifico non ho niente da dire, mi dispiaccio invece che in Italia il giornalismo abbia preso proprio una brutta piega”.
Nessuna condanna invece da un altro ex direttore del Corriere, Paolo Mieli: “Io faccio un altro mestiere, ha domande editoriali da farmi?”.
Il presidente della Federazione nazionale della Stampa, il sindacato dei giornalisti, Roberto Natale, è più esplicito: “Dare dignità di notizia a chiacchiere non verificate significa eliminare il compito del giornalista”.
I corrispondenti esteri hanno gioco facile a denunciare la pochezza del giornalismo italico: per Miguel Mora di El Paìs “in Spagna una notizia come questa non sarebbe mai stata pubblicata, in caso contrario l’autore sarebbe poi finito sotto inchiesta. Se le fonti sono anonime, senza riscontri o rumors semplicemente non è giornalismo”.
Non è più benevola la corrispondente francese Marcelle Padovani: “Queste persone non fanno il nostro mestiere. Sono ricattatori al servizio di un padrone: niente a che fare con il giornalismo”.
Beatrice Borromeo
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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