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BOSSI E “CERCHIO MAGICO” PRONTI ALLE ELEZIONI: STILATA GIA’ LA LISTA DEI MARONIANI DA EPURARE

Ottobre 25th, 2011 Riccardo Fucile

LA BADANTE ROSY MAURO TIENE LA NOTA DEGLI EPURANDI DALLA CASA DI CURA PADANA: DA GIACOMO STUCCHI A GIANCARLO GIORGETTI, DA CAPRINI A GRIMOLDI, DA VOLPI A RAINIERI, DA PINI A BRAGANTINI, DA CONSIGLIO A FAVA LA LISTA E’ LUNGA… I MARONIANI   PUNTANO A UN GOVERNO DI TRANSIZIONE PER AVERE TEMPO DI SPODESTARE IL CERCHIO MAGICO E SI RIUNISCONO A LENDINARA

Umberto Bossi ha confermato la linea della fermezza contro i ritocchi alle pensioni d’anzianità  proposti da Silvio Berlusconi, determinando di fatto lo stallo totale dell’esecutivo.
Ma qualcosa, comunque, sembra muoversi.
Una sorta di “accordo” si sarebbe comunque trovato, quel tanto per far vedere all’Europa che l’intenzione di lavorare nel senso indicato c’è, solo che i tempi, in qualche modo, li vuole dettare l’Italia.
Il dato politico, dopo una giornata che è stata solo un lungo vertice di maggioranza, è però sempre più chiaro: le sorti del governo, oggi più che mai, sono nelle mani del leader del Carroccio.
Eppure, per quanto il Senatùr sia tentato di staccare la spina, di fatto è costretto a temporeggiare: ha bisogno della garanzia che si vada a elezioni anticipate senza passare per un esecutivo tecnico o di transizione.
Per un semplice motivo: anche lui, come il Cavaliere, vuole presentarsi alle urne con l’attuale legge elettorale così da poter epurare i maroniani.
La lista già  esiste da tempo.
E’ custodita da Rosy Mauro, asse portante del cerchio magico, nonchè unica interlocutrice della moglie del Senatùr, Manuela Marrone.
Un elenco di parlamentari, per lo più deputati, che in questi mesi si sono macchiati della grave colpa di aver criticato il Capo e si sono schierati con Roberto Maroni, il ministro dell’Interno che la base del partito vuole leader e lo invoca come presidente del Consiglio.
In cima alla lista c’è Giacomo Stucchi, che poche settimane fa era candidato a sfilare la carica di capogruppo a Montecitorio del bossiano Marco Reguzzoni.
E anche Giancarlo Giorgetti, segretario del Carroccio in Lombardia, è finito nella lista nera, colpevole di aver candidato sul territorio troppi maroniani.
C’è poi Davide Caparini, che con il padre Bruno si sono contrapposti al cerchio magico in ogni modo, fino a staccarsi dalla segreteria provinciale di Brescia e istituire una sorta di feudo in val Camonica, a Ponte di Legno.
Da epurare anche Paolo Grimoldi, monzese fautore della diffusione del movimento dei giovani padani in molte regioni del nord e centro Italia, considerato l’uomo di Maroni tra i giovani del Carroccio.
Altro da cancellare dalle liste è Raffaele Volpi. Bresciano, braccio destro di Fabio Rolfi, il maroniano che a Brescia ha sconfitto il candidato del cerchio magico, Mattina Capitanio (sostenuto dall’ assessore regionale allo Sport e giovani Monica Rizzi, “tutor” di Renzo Bossi in Lombardia), conquistando la poltrona di segretario provinciale.
Poi ci sono gli emiliani: Fabio Rainieri, Gianluca Pini ed Emanuela Munerato.
Tutti “scoperti” e lanciati da Maroni.
Il ministro dell’Interno venerdì prossimo arriverà  fino a Lendinara, un paesino sperduto in provincia di Rovigo, per partecipare a un convegno sul federalismo organizzato da Munerato.
E con Maroni hanno garantito la loro presenza il governatore del Piemonte, Roberto Cota, e il sindaco di Venezia, Flavio Tosi.
Altro frondista che il cerchio magico sta cercando di cacciare da settimane, ma ha dovuto rinunciare: “Se cacciano Tosi viene giù tutto”, aveva detto l’altro sindaco maroniano Attilio Fontana, primo cittadino di Varese.
Ma per colpire Tosi, Rosy Mauro ha inserito due deputati considerati a lui vicini: Matteo Bragantini e Giovanna Negro.
Ovviamente anche loro maroniani.
C’è poi Nunziante Consiglio, storico organizzatore della Berghem fest, dove Maroni è preferito al Capo.
E ancora: Giovanni Fava e il giovanissimo Maurizio Fugatti, segretario trentino da sempre distante da posizioni cerchiste.
Per questo la Lega vuole elezioni anticipate.
Lo ha detto a chiare lettere anche Bossi oggi, dopo giorni di silenzio: “Nessun governo tecnico”.
Di diverso avviso, ovviamente, i maroniani.
Che non sono rimasti a guardare. Anzi, alla Camera, dove sono la maggioranza del Carroccio, si sono riuniti in serata per valutare l’ipotesi di una fine anticipata del governo e prepararsi alla scalata del partito e al dopo Berlusconi.
Ma i fedeli del ministro dell’Interno vogliono un esecutivo di transizione che cancelli il porcellum e ritorni alla preferenza secca.
Un esecutivo a cui potrebbero dare il sostegno esterno su alcuni punti necessari, a partire dalle misure a favore del rilancio economico del Paese.
Ma basta leggi ad personam per il premier, basta mafiosi salvati con il voto di fiducia, basta lasciare inascoltata la base e i militanti che nell’ultimo anno sono diminuiti notevolmente: l’ultimo sondaggio che gira in via Bellerio assegna al Carroccio appena il 5,3%.
Così facendo, ragionano i maroniani, si potrebbe riprendere in mano la guida del movimento recuperando così parte del consenso perso.
Ovviamente Bossi non si tocca: è il cerchio magico che va annientato, è il “tumore” da estirpare.
Sul territorio l’esercito è già  pronto, finora è mancato il generale.
Riuscirà  Maroni a rappresentarli?

Sara Nicoli e Davide Vecchi
(da “Il Fatto Quotidiano”)

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LA LEGA DIFENDE I BABY PENSIONATI DEL NORD (COME LA MOGLIE DEL SENATUR, ANDATA IN PENSIONE A 39 ANNI)

Ottobre 25th, 2011 Riccardo Fucile

COME NEL 1994 BOSSI CAVALCA GLI INTERESSI DEI   SUOI SEMPRE MENO LAVORATORI-ELETTORI, DEGLI ALTRI SE NE FOTTE

Roma ladrona vuole i soldi dei lavoratori del Nord per tenere viva la vecchia pratica assistenzialista. Ad ogni giro ritornano, come nel gioco della roulette…», disse una sera all’Ansa Umberto Bossi, correva l’anno 2003.
La riforma Maroni (2004) doveva ancora venire.
Nove anni prima, nel ’94, il Carroccio ruppe con Berlusconi proprio sulle pensioni.
Le barricate leghiste sono dunque un marchio di fabbrica.
Soprattutto su quelle di anzianità , tipiche del lavoro dipendente nel settore privato, diffusissimo nelle province industriali del Nord, dove migliaia di lavoratori sono entrati in fabbrica a 18-20 anni e vorrebbero continuare a pensionarsi a 58-59, dopo 40 di contributi.
Più ancora del tam tam politico è la geografia a spiegare l’ultima trincea leghista.
L’Italia previdenziale è spaccata come una mela: pensioni di anzianità  al Nord, con il 65% degli assegni Inps che si concentrano tra Piemonte (100 assegni ogni 1000 abitanti), Emilia Romagna (92), Lombardia (91) e Veneto (80); invalidità  e assegni sociali al Sud.
Di qui la battaglia a difesa di una rappresentanza sempre più nervo scoperto: una riforma previdenziale come vorrebbe Bruxelles colpirebbe quell’esercito di lavoratori padani ormai vicini all’età  di uscita dal lavoro, che si vedrebbe imporre i tempi supplementari.
L’attuale crisi del Carroccio ha caratteri più profondi della faida interna «maroniani-cerchisti» proprio perchè coinvolge quel blocco sociale che nel ciclo 2008- 2010 lo ha gonfiato di voti come nei primi Anni 90 dello strappo pensionistico, usandolo come taxi per denunciare il male del Nord.
Per il politologo Roberto Biorcio, infatti, «la crisi economica ha colpito duramente quel bacino interclassista fatto di partite Iva e lavoro dipendente, operai, professionisti e ceto impiegatizio tipicamente nordista che imputa ad un governo a trazione leghista la scarsa protezione nella tempesta e un vuoto di riformismo».
Per capire il cortocircuito di queste ore bisogna tornare ai tre cicli elettorali leghisti.
La prima ondata culmina nel ’92, quando il partito di Bossi diventa il secondo nel Nord raccogliendo il 17,3% di consensi (8,7% nazionale con 3,4 milioni di voti).
La seconda si registra nel ’96: 10,1% nazionale con 3,7 milioni di italiani che salgono sul Carroccio, record storico.
Un pieno che si sgonfierà  subito: la corsa solitaria lo lascia ai margini del gioco politico e l’ingresso dell’Italia in Europa azzera le ragioni economiche della secessione.
Non a caso al voto 2001 il Carroccio lascia per strada 2,3 milioni di consensi: 3,9% nazionale.
Rispetto al ’96 crolla la preferenza operaia (dal 17 al 9% dell’intero elettorato verde), di artigiani e commercianti (dal 23 all’8%) e di impiegati e insegnanti (dal 30 al 10%), finiti tutti nell’orbita patinata del Cavaliere.
La terza ondata è invece quella scoccata col voto 2008, quando la Lega passa da 1,7 milioni di consensi 2006 (4,3%) a 3 (8,3%), con il voto di imprenditori e professionisti che cresce dal 7 al 12% dell’elettorato, sdoganando il partito di Bossi nel voto di opinione dei centri urbani, quello dei lavoratori dipendenti dall’8 al 19%, degli operai dall’8 all’11% e di artigiani e commercianti dall’15 al 20%.
Cos’è successo nel biennio da giustificare un exploit che esonda dai bastioni pedemontani per mietere successi sulla via Emilia?
Il Carroccio cavalca la faccia brutta della globalizzazione: l’anti islamismo e il vade retro immigrazione, la protezione della «roba» contro l’invasione cinese, le critiche alla finanza apolide.
L’innesco della crisi mondiale spinge il blocco dei produttori sulla stessa barca, padroncini e salariati che rischiano di impoverirsi.
In questo frangente la Lega cresce nei territori tipici di piccola impresa ma anche nei quartieri operai delle grandi città  (rubando voti a sinistra).
Nel ciclo elettorale 2009-2010 consolida questa ondata, saldando dimensione economica e sociale di cui le pensioni sono uno dei simboli: imprenditori e professionisti salgono dal 12 al 14% dell’elettorato, gli operai dall’11 al 14%, impiegati e insegnanti dal 19 al 25%.
Poi il giochino si rompe.
Già  alle Regionali 2010 la fine dell’espansione viene nascosta dalla vittoria in Piemonte e Veneto e dall’effetto cestino sui voti Pdl.
Alle amministrative 2011 viene meno anche questa finzione. I
l Carroccio nelle sue capitali rivince ma crolla: alle provinciali a Treviso passa da 190 mila voti del 2010 a 98 mila! Tenere insieme promesse e risultati è impossibile nella grande crisi. Specie se i più colpiti sono proprio quei settori come legno-arredo, tessile, macchinari e apparecchiature elettriche tipici delle grandi province manifatturiere dove la Lega spopola.
Se aggiungiamo i comuni strozzati dai tagli proprio mentre il Carroccio ne governa quasi 400, le tasse che aumentano e i redditi scivolati al livello del 1999, si capisce come i miasmi leghisti siano anche figli del modo in cui il Nord resta impigliato nella crisi.
Enfatizzando la crisi di rappresentanza.

Marco Alfieri
(da “La Stampa”)

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BERLUSCONI PORTA A BRUXELLES SOLO UNA LETTERINA PER BABBO NATALE

Ottobre 25th, 2011 Riccardo Fucile

CON IL NO DELLA LEGA SULLA RIFORMA DELLA PREVIDENZA SOCIALE, IL PREMIER SI PRESENTA IN EUROPA CON UNA LETTERINA DI INTENTI IN CUI RICICLA I BUONI PROPOSITI DI AGOSTO… MA GIOVEDI’ VI SARA’ L’ESAME DELLE BORSE E DEI MERCATI

Da un lato l’Unione europea, dall’altro i mercati, al centro il braccio di ferro con la Lega.
E nella manica non un asso, bensì una carta d’attesa: la letterina dei buoni propositi da presentare all’Ue, sperando che ci creda e che ci credano anche e soprattutto le borse.
Silvio Berlusconi si presenterà  così a Bruxelles per partecipare al Consiglio europeo che dovrà  decidere della bontà  dei provvedimenti sulla crescita e, di conseguenza, sulla tenuta del suo governo.
Il problema, però, è che le misure per lo sviluppo non ci sono o, meglio, sono le stesse delle due manovre finanziarie d’estate.
In attesa del responso, l’esecutivo ha vissuto la giornata più difficile della legislatura.
Dopo 24 ore di vertici di partito e summit di coalizione, infatti, la montagna ha partorito due topolini: la missiva per Bruxelles e l’accordo con la Lega sulla riforma delle pensioni.
In tal senso, Bossi non ha mollato: si è detto disponibile al tetto dei 67 anni, ma ha alzato barricate sulle pensioni di anzianità .
Secondo alcune indiscrezioni, per l’età  pensionabile si parlerebbe di un maxi scalone con applicazione progressiva dal 2012 al 2025.
Solo un brodino, quindi, per la fame di riforme del governo, che ora deve far passare per buona un’intesa al ribasso.
La ‘vittoria’ leghista è confermata anche dal titola d’apertura de La Padania, che in prima pagina rilancia il concetto con toni trionfalistici.
Incassata la vittoria di Pirro, il presidente del Consiglio cercherà  di aggirare l’ultimatum di Bruxelles, che attende di conoscere i contenuti e il calendario del pacchetto per il rilancio della crescita.
Sarà  un attesa vana, che il Cavaliere cercherà  di aggirare con un memorandum di intenti.
Quest’ultimo punterà  su due diversivi: l’ennesima riproposizione di ciò che è stato fatto (le finanziarie di agosto e settembre) e le rassicurazioni su ciò che si vorrà  fare, ovvero il pareggio di bilancio entro il 2013.
Con quali strumenti?
Sempre gli stessi: solide basi per il gettito da recuperare con la lotta all’evasione e ferrea volontà  di confermare i tagli.
Quanto alla ripresa, Silvio Berlusconi confermerà  l’intenzione di procedere sul fronte delle liberalizzazioni, delle privatizzazioni, delle dismissioni così come su quello della riforma del mercato del lavoro e della ‘sburocratizzazione’ per le imprese.
Per quanto riguarda le pensioni, invece, il capo del governo annuncerà  i piccoli ritocchi concessi dalla Lega e cercherà  di confermare la sostenibilità  del sistema pensionistico italiano.
L’Europa gli crederà ? Può darsi.
Per un motivo ben preciso: perchè Germania e Francia – è il pensiero del premier — non potranno protestare più di tanto visto che una caduta dell’Italia rischia di trascinare nel baratro anche tutta l’economia continentale.
Se l’Europa accettasse il compromesso made in Italy, però, il governo dovrà  superare un altro esame, ancor più arduo.
Giovedì, infatti, i mercati potrebbero condannare definitivamente la mancanza di uno strumento per la crescita del Paese.
E in tal caso Berlusconi dovrà  davvero mettere mano alle pensioni di anzianità  o studiare qualche exit strategy, con il rischio concreto che Umberto Bossi decida di staccare davvero la spina.
In questa direzione vanno lette le indiscrezioni circolate oggi, a cominciare dall’ipotesi di un governo Letta o Schifani in caso di fine anticipata dell’esecutivo, con allargamento ad una coalizione di responsabilità  e conseguente strappo definitivo con il Carroccio.
Berlusconi, però, a questa eventualità  non vuole neanche pensare: proverà  a resistere, almeno fino a Natale, in modo da preparare una uscita di scena ‘dolce’ che potrebbe arrivare a gennaio.
Ma il 2012 è ancora lontano: il futuro del presidente del Consiglio e del suo esecutivo è nelle mani dell’Europa e dei mercati finanziari.

(da “Il Fatto Quotidiano“)

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IL PREMIER RIDENS SEPPELLITO DA UNA RISATA

Ottobre 25th, 2011 Riccardo Fucile

LE DIPLOMAZIE: SOLTANTO INCOMPRENSIONI… MA LO SCHERNO DI MERKEL E SARKOZY E’ IL PUNTO DI NON RITORNO

“Una risata vi seppellirà ”, profetizzavano gli anarchici nel secolo Novecento.
Ma nel farlo immaginavano che il potere sarebbe stato rovesciato da una risata catartica, ribelle, liberatoria, la risata delle foto color seppia con gli scioperanti che si opponevano a braccia disarmate contro la polizia.
Mai nessuno avrebbe immaginato — invece — che Silvio Berlusconi sarebbe stato sepolto da una risata affilata, sarcastica e feroce, una euro-risata avvelenata, una sarko-risata. Ovvero: dalla manifestazione plateale della sfiducia che la lingua della diplomazia non poteva esplicitare, e che quella del corpo ha reso invece un punto senza ritorno nella storia del crepuscolo berlusconiano.
Cosa dice, all’opinione pubblica di mezza Europa, il sorriso di Sarkozy?
Se la domanda era “Lei crede che l’Italia rispetterà  i suoi impegni?”, la risposta disegnata da quel sorriso era un plateale no. Ed è davvero curioso, dopo anni in cui Berlusconi ha provato ad affermare in politica estera una sua lingua informale, che quel sorriso sia un contravveleno omeopatico, un atto di diplomazia altrettanto informale, aggressiva e anti-protocollare.
Ma se la risata di Nicolas Sarkozy e di Angela Merkel è letale per la nostra diplomazia e per la nostra credibilità , lo è perchè il premier di Arcore, in questi anni, ha aperto con le sue stesse mani la breccia attraverso cui ha ricevuto il colpo.
E lo è anche perchè questa estate, con l’epopea delle cinque Finanziarie (in cinque giorni) ha minato le basi stesse della propria credibilità .
Il sorriso di Sarkozy è figlio di quel “contributo di solidarietà ” presentato, dibattuto e poi ritirato come se nulla fosse.
Ed è figlio di quella ridicola ed eterna diatriba sulle pensioni da tagliare, anzi da non tagliare perchè Bossi si arrabbia, anzi sì, forse no.
Quel sorriso è figlio della saga delle province cancellate con un tratto di penna, poi in realtà  solo le meno popolose, poi anche le meno estese e meno popolose, e poi nessuna, finchè non si tocca la Costituzione.
L’Europa ha cominciato a ridere di Berlusconi (e non ha più finito) quando ha visto un premier che non riesce a mantenere più nemmeno gli impegni che prende con se stesso.
È curioso anche un altro paradosso della risata sarkostica (o sarkastica).
A seppellire la credibilità  del governo italiano, sono i due leader che politicamente gli dovrebbero essere più vicini: il gollista di centrodestra e la popolare, ovvero i genitori delle due famiglie europee a cui il Pdl vorrebbe ancorare la sua storia.
Almeno questo sottrae ogni possibile alibi allo scenario del complotto di qualche fantomatica internazionale ulivista o socialdemocratica : non sono stati Tony Blair o il detestato Josè Luis Rodrà­guez Zapatero a dare lo sfratto al premier, e nemmeno “l’abbronzato” Obama.
Ma quelli che gli avevano concesso il loro credito.
Ieri le fonti diplomatiche del governo tedesco provavano a tappare la pezza con un rammendo più esteso del buco: “Le allusioni italiane sul sorriso scambiato ieri in conferenza stampa tra Merkel e Sarkozy sono basate su un equivoco”.
Un equivoco a cui nessuno potrebbe credere, dopo quel filmato.
E ieri facevano più male le manifestazioni di solidarietà  che gli attacchi, ad esempio la solidarietà  di Emma Marcegaglia che, definendo “inaccettabili quei risolini”, non facevano che sottolineare la gravità  irreversibile del “sarko-sorriso”.
In questi giorni, per capire come Berlusconi ha metabolizzato l’euro-sgarro di Bruxelles, bastava gettare l’occhio sui telegiornali Mediaset e sull’informazione minzoliniana: il sorriso era stato sbianchettato.
Il Tg4 non lo faceva vedere. Il Tg5 diceva che l’Europa riconfermava la fiducia all’Italia. E il Tg1 di Minzolini si esibiva in un capolavoro di taglia-e-cuci.
Prima mossa: far scomparire la domanda della giornalista (senza cui il Sarko-sorriso non aveva senso).
Seconda mossa: accorciare il lungo imbarazzato silenzio, l’occhiata di Sarkozy, lo scambio di silenziosa complicità  tra i due leader.
Terza mossa: far partire il servizio dalle risate.
Il clima goliardico era dovuto all’irritualità  della domanda, e non al suo contenuto.
Ma se vuoi capire cosa direbbe Berlusconi, se non ci fossero le forbici dei suoi zelanti chierici, basta leggere la prima pagina de Il Giornale, dove Feltri e Sallusti (in questo facendo giornalismo senza pecette o censure) davano corpo a quello che il premier pensa davvero: “Sarkozy come Zidane”. Sottotitolo: “Il marito di Carla Bruni ci offende ridendo di noi. Così imita il calciatore che aggredì Materazzi con un colpo basso. Una ripicca per non aver liberato il posto di Bini Smaghi alla Bce. Berlusconi lo gela”.
Ecco, Il Giornale — sia pure con toni di patriottico alzabandiera, spiega che l’ultima patacca rifilata dall’Italia all’Europa è l’eurobanchiere imbullonato che ha scritto Eugenio Scalfari — mette in difficoltà  il suo paese per difendere la sua poltrona.
Ma se si allarga lo sguardo, e si consultano i precedenti, ci si rende subito conto che la Sarko-risata è una legge del taglione con cui Berlusconi paga le sue corna ai ministri spagnoli, i suoi “Mr Obamaaa!”, il suo Cucù alla Merkel, il suo “lavitolese” sulla “culona inchiavabile”, la sua diplomazia panamense che è perfetta per il Sudamerica, ma fuori da ogni senso nell’Europa dei parametri econometrici inviolabili.
Non è bello che il premier abbandoni per un commissariamento internazionale, che sia squalificato con un cartellino rosso e un sorriso di scherno.
Ma, da ieri — con buona pace di Minzolini — è semplicemente quello che sta accadendo.

Luca Telese blog

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ETA’ PENSIONE A 67 ANNI, I TEDESCHI DOPO DI NOI

Ottobre 25th, 2011 Riccardo Fucile

PIU’ TARDI ANCHE DEI FRANCESI…IN ITALIA LA SOGLIA RAGGIUNTA NEL 2023, A BERLINO NEL 2029

In pensione a 67 anni per fare come il resto d’Europa?
Non proprio, visto che in alcuni Paesi del vecchio Continente, anche nella stessa Francia che ci chiede sacrifici, l’età  media di pensionamento viaggia addirittura sotto i 60 anni.
Lo raccontano gli ultimi dati dell’Ocse, riferiti al periodo 2004-2009: gli uomini italiani vanno in pensione in media a 61,1 anni, i francesi a 59,1.
Sotto quota 60 anche le donne d’Oltralpe, con il primo assegno previdenziale che arriva in media a 59,7 anni.
Questa volta, però, le italiane se la cavano meglio: per loro l’addio definitivo a uffici e stabilimenti arriva a 58,7 anni.
Riforme a confront
Ma – tra messieurs e signori – a ridere continuano a essere i primi più dei secondi, anche quando in conto si mettono le riforme degli ultimi mesi di Parigi e Roma. Oltralpe l’aumento progressivo dell’età  pensionabile, per gli assegni a tasso pieno di uomini e donne, porterà  l’agognato passaggio dalle scrivanie all’orto in giardino da 65 anni (oggi) a 67 anni nel 2023.
In quell’anno, però, gli uomini italiani dovranno avere tre mesi in più dei cugini francesi (67 e 3 mesi, quindi), per andare in pensione, complici le nuove «finestre mobili» e l’adeguamento alla speranza di vita.
Quei 67 anni e tre mesi diventano poi 67 anni e nove mesi per gli autonomi, il cui tempo d’attesa della «finestra» è più lungo di sei mesi.
Stesso discorso e stessi numeri (67 anni e tre mesi) per le dipendenti del settore pubblico, mentre le assunte nel privato potranno fermarsi a 65 anni e sei mesi.
Senza contare, però, l’ultima stretta italiana attesa in questi giorni, che dovrebbe spostare ulteriormente più in là  l’asticella tra Otranto e Ventimiglia.
Ma i francesi hanno dalla loro parte un debito ben più contenuto del nostro, e non si concedono le pensioni di anzianità  all’italiana con il primo assegno a 60 anni per 36 annualità  contributive (più un anno di «finestra»).
Oggi possono comunque lasciare il lavoro, per le pensioni che non sono a «tasso pieno», a 60 anni con 40 di contributi. Da sessanta si passerà  a sessantadue nel 2018.
Formiche e cicale?
L’Italia non fa la figura della cicala neanche nel confronto con la formica per eccellenza, la Germania.
Incrociando i dati dell’Inps con quelli della Commissione europea si scopre che, mettendo in conto le riforme già  approvate a Roma e Berlino, nel 2020 i tedeschi – uomini e donne – incasseranno il primo assegno previdenziale a 65 anni e nove mesi: vale a dire 14 mesi prima dei maschi italiani (e delle statali), che invece dovranno aspettare i 66 anni e undici mesi.
Anche questa volta, poi, gli autonomi d’Italia devono mettere in conto sei mesi in più. Le dipendenti d’azienda, invece, potranno lasciare il lavoro a 63 anni e otto mesi, nell’attesa di un completa parità  uomini-donne e pubblico-privato che dovrebbe arrivare intorno al 2030.
Tornando in Germania, Herr e Frau Schmidt dovranno aspettare i 67 anni solo a partire dal 2029, contro il ben più vicino 2023 per i Signori e le Signore Rossi (le statali) e il 2027 delle Signore Bianchi (nel settore privato).
Insomma, a quota 67 arriveremo prima noi.
E soprattutto i nostri autonomi, che – complice il solito «sovrapprezzo» di una finestra più lunga di sei mesi – arriveranno a quota 67 già  nel 2017.
Il confronto si capovolge, ma non di tanto, sulle pensioni di anzianità : noi siamo oggi a una sorta di quota 97 (60 anni d’età , 36 di contributi e un anno di «finestra»), loro a quota 98 (63 anni d’età  e 35 di contributi, ma con un assegno previdenziale «ridotto»).
D’altra parte, però, rispetto a noi i tedeschi vantano conti pubblici decisamente più in salute, un «brand» di affidabilità  granitica e, last but not least, non hanno mai regalato baby pensioni a pioggia.
È difficile, infatti, trovare in Germania delle impiegate pubbliche andate in pensione dopo 14 anni, sei mesi e un giorno di contributi. Come invece è successo a tante italiane tra il 1973 e il 1992.
La stretta previdenziale in Europa, poi, cambierà  faccia in questo decennio.
Se oggi, infatti, l’Italia è nella parte più «spensierata» della classifica, nel 2020 sarà  – giocoforza – nel podio dell’Austherity.
Succederà  per le pensioni di vecchiaia degli uomini dipendenti (e delle statali): oggi sono solo sei i Paesi dell’Unione Europea dove i lavoratori incassano in media l’assegno previdenziale prima degli italiani; nel 2020 solo finlandesi e svedesi – e in determinati casi – andranno in pensione dopo di noi. Sarà  ancora più «rigida», in Italia, la situazione per gli autonomi.
Mentre sarà  più «generoso» lo scenario, se ci saranno ancora, per le pensioni di anzianità  e – se il livellamento non sarà  anticipato – per le dipendenti del settore privato.
Anche qui, come sempre, vale la postilla della possibile nuova riforma: se il governo deciderà  in questi giorni un’altra stretta, allora magari «quota 67» si avvicinerà  ancora. E, almeno per gli uomini – e pensioni di anzianità  a parte – potremmo smettere di lavorare più tardi non solo di tedeschi e francesi, ma anche degli scandinavi.
Altro che livellamento.

Giovanni Stringa
(da “Corriere della Sera“)

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E’ BRUNO VESPA IL VERO PORTAVOCE DI BERLUSCONI

Ottobre 25th, 2011 Riccardo Fucile

PROVE SCHIACCIANTI

Il sorpasso porta la data di otto mesi fa.
Ospite di Porta a Porta, il presidente della Camera Gianfranco Fini guardò negli occhi Bruno Vespa e disse: “Non mi pronuncio sulla faziosità  del servizio. Neanche Bonaiuti avrebbe fatto di meglio”.
Non bastò la comune cravatta a pois a rasserenare gli animi.
Il conduttore si stranì, ne nacque un lungo diverbio sulle frequentazioni del giornalista Rai.
Inutile dire con chi.
Eppure, in quella serata di marzo, i più risentiti delle parole di Fini si immagina siano stati lo stesso Paolo Bonaiuti, portavoce della presidenza del Consiglio, e Daniele Capezzone, front man del Pdl.
Da quanto tempo è che nessuno li attacca più?
La verità  è che da un pezzo le notizie su Silvio Berlusconi non escono più dalle stanze di via dell’Umiltà  o dagli uffici di palazzo Grazioli ma dal salotto di Porta a Porta.
I “porno giornalisti” e i “porno magistrati” che lo “ricoprono di calunnie” sono cronaca di questi giorni. Così come la spiegazione dei rapporti con Lavitola: tutta colpa d’Alfredo, il maggiordomo. Ma guai a pensare che siano solo frasi buone per lanciare l’ultimo libro del giornalista Rai.
Da “Questo amore”, Silvio Berlusconi è autorizzato ad attingere a suo uso e consumo.
Lo ha già  fatto con “Viaggio in un’Italia diversa”: le anticipazioni del settembre 2008, sono tornate utili al premier a maggio 2009 e ancora con due anni di ritardo, a maggio del 2011, distribuite ai giornalisti durante una pausa dell’udienza Mills.
Come un comunicato qualsiasi.
Così, dalla firma in diretta del Contratto agli italiani del 2001, Vespa si è ritagliato un ruolo che non conosce rivali.
Si vanta di essere “uno che dà  i soldi a Berlusconi” (quindi, quando c’è un libro in uscita, si presume il premier debba garantire il silenzio stampa).
Pubblica con Mondadori, in cambio ha da 15 anni “il privilegio” di vederselo presentare dal premier in persona.
Solo una volta ha dato forfait: “Donne di Cuori” ha dovuto fare a meno della benedizione di B., colpito al volto due giorni prima dalla statuetta del Duomo lanciata da Massimo Tartaglia.
Nel salotto tv di Vespa, Berlusconi ha portato la sua versione della rottura con Veronica (“Adesso parlo io”).
Ufficio stampa in trasferta a L’Aquila a settembre 2009 con la consegna delle casette post-terremoto.
A Natale di quell’anno, poichè “il presidente del Consiglio non ha ritenuto opportuno un dialogo, sia pure mediato, con il quotidiano romano”, ci ha pensato Vespa, “riformulando” le celebri 10 domande di “Repubblica”: “Berlusconi risponde di fatto a quasi tutte”, chiariva il mediatore.
A luglio 2010 ha addirittura messo a disposizione casa per una cena con Berlusconi, sua figlia Marina, Draghi, il cardinal Bertone e il leader Udc Casini.
Nemmeno invitato Paolo Bonaiuti, che finora ha mantenuto almeno il ruolo di officiante agli incontri di palazzo Grazioli, oltre a quello di sfondo alle immagini del premier. Capezzone neanche quello.
Colpito da un pugno in faccia un anno fa, sembra ancora tramortito: nell’ultimo mese si è occupato di indignati, di Todi, ma soprattutto di Amanda e Raffaele.
Bonaiuti invece è zitto da venerdì.
Ora è alle prese con i tagli all’editoria, di cui ha la delega, ma secondo governo.it  , nell’ultimo anno le sue uscite da portavoce sono solo 8, quasi sempre per delle precisazioni.
Su Facebook qualcuno ha lanciato la campagna “Questo cavolo avrà  più fan di Paolo Bonaiuti”.
Lo fecero già  con Berlusconi: il premier fu sconfitto in consensi da un pomodoro. Paolino, per ora, resiste.

Paola Zanca
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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PENSIONE A 67 ANNI? LA BOMBA PREVIDENZIALE SCOPPIERA’ COMUNQUE IN FACCIA AI PRECARI

Ottobre 25th, 2011 Riccardo Fucile

WALTER PASSERINI NEL SUO LIBRO “SENZA PENSIONI” SPIEGA PERCHE’ IL DECRETO SVILUPPO E’ TARDIVO E INEFFICACE

Walter Passerini, autore con Ignazio Marino del libro “Senza pensioni”, racconta perchè il provvedimento pensato da Berlusconi per il decreto sviluppo è tardivo e poco efficace.
“I governi di centrodestra hanno fatto il gioco del cerino e intanto ci raccontavano favole”.
Se non si agevola l’ingresso al lavoro dei giovani e delle donne, una “generazione sprecata” è condannata a una vecchiaia di poverta.
Nel suo libro descrive un futuro, neppure troppo lontano, in cui i giovani del lavoro nero e del precariato spinto compiranno 65 anni e da lì in poi sbarcheranno il lunario con l’assegno sociale, poco più di 300 euro al mese.
Insomma, saranno tecnicamente poveri.
E molti altri, che i contributi li avranno regolarmente versati, almeno in parte, rimedieranno pensioni neppure lontanamente paragonabili a quelle dei loro genitori.
La povertà  sarà  uno spettro anche per loro a causa del passaggio dal sistema retributivo (pensione calcolata in base agli ultimi stipendi) al sistema contributivo (pensione legata ai contributi realmente versati durante la vita professionale), combinato con la crescente precarietà  del lavoro e la mancanza di crescita economica.
Per questo Walter Passerini, autore insieme a Ignazio Marino di Senza Pensioni. Tutto quello che dovete sapere sul vostro futuro e che nessuno osa raccontarvi (Chiarelettere 2011, 13,90 euro), accoglie con un certo sarcarsmo la proposta di Silvio Berlusconi sull’innalzamento da 65 a 67 anni dell’età  pensionabile.
“Doveva essere fatto almeno cinque anni fa, invece ci dicevano che andava tutto bene. Dopo tutte le favole che ci hanno raccontato, ora scoprono che bisogna intervenire sulle pensioni”, ironizza Passerini, giornalista economico, fondatore di Corriere Lavoro nei primi anni Novanta e oggi responsabile di “Tuttolavoro”, inserto della Stampa.
“Certo che l’età  per le pensioni di vecchiaia va alzata, anche per ragioni demografiche”, continua Passerini, “ma attraverso un processo graduale. Bisogna però mettersi in testa che con le pensioni non si può fare cassa per tamponare il debito pubblico. Quello che è accaduto alle donne dipendenti del pubblico impiego, che con la manovra estiva hanno visto l’età  pensionabile alzarsi da un giorno all’altro da 60 a 65 anni, è vergognoso”.
Il colpo che Berlusconi intende sfoderare davanti ai partner europei, insomma, ha le polveri bagnate.
Un provvedimento da un lato tardivo e dall’altro incompleto, a maggior ragione se l’intento è innescare sviluppo economico.
“In Italia, il dibattito politico sulle pensioni si concentra sempre sulle uscite, mai sulle entrate”.
Maggiori risorse possono essere raccolte “colpendo l’evasione contributiva”, ma ancora di più “agevolando l’ingresso nel mondo del lavoro dei giovani e delle donne”.
Se no, dice ancora Passerini, “continuiamo a tappare i buchi, ma non mettiamo più acqua nella vasca. E non usciamo dal paradosso che oggi a pagare le pensioni di chi ha smesso di lavorare sono i precari e gli immigrati”.
Rischiano, e molto, anche le pensioni di anzianità , legate agli anni di contributi versati (e anche queste già  ampiamente riformate negli ultimi anni).
Sono una particolarità  italiana rispetto all’Europa, ma attenzione, ricorda Passerini, “riguardano persone che hanno inziato a lavorare a quindici anni, magari con lunghi periodi di nero, che oggi diventano il capro espiatorio dell’irresponsabilità  di un’intera classe politica”.
Irresponsabilità  politica, altro tema ricorrente nel libro di Passerini e Marino (quest’ultimo giornalista di Italia Oggi specializzato in previdenza).
“Mentre i governi di centrosinistra hanno fatto interventi seri, penso soprattutto alla riforma Dini del 1995″, spiega Passerini, “quelli di centrodestra hanno spostato il cerino sempre più in là , hanno nascosto la polvere sotto il tappeto. Il problema è che chi tocca le pensioni perde consenso. Ma credo che ormai questo governo non abbia la credibilità  per fare una riforma vera”.
Intanto la “bomba previdenziale” resta innescata, e in mancanza di interventi strutturali seri scoppierà  in faccia a quella che in Senza Pensioni è definita “una generazione di sprecati”.

Mario Portanova

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DIA, L’ANTIMAFIA MUORE, LE AUTOBLU RESTANO

Ottobre 25th, 2011 Riccardo Fucile

VETTURE DI LUSSO PORTANO IN GIRO I FUNZIONARI DI POLIZIA MENTRA UNA NORMA RISCHIA DI CANCELLARE L’IDEA DI FALCONE… AL POLO TUSCOLANO 70 VETTURE A DISPOSIZIONE DEI DIRIGENTI, QUANTO LE VOLANTI DELL’INTERA CITTA’

Bmw X3, Mercedes classe E, Audi A6. E poi Volvo, Citroen, altri modelli di Bmw, persino Mini Cooper.
I tempi sono sempre più magri, ma non per tutti.
Nonostante il decreto legge della Presidenza del Consiglio che imporrebbe auto blu di cilindrata massima 1600 cc, curiosando al “Polo Tuscolano” della Polizia si trova di tutto.
Una struttura tutta specchi inaugurata nel 2005 proprio di fronte agli studi di Cinecittà , a Roma, che ospita ben quattro direzioni centrali: l’anticrimine (al cui interno ci sono lo Sco, la scientifica e il controllo del territorio), la polizia di prevenzione (l’Ucigos), l’immigrazione e le specialità .
Quindi quattro direttori centrali, i soli che — secondo un regio decreto ancora in vigore (da allora sono state emanate solo circolari interne) — avrebbero diritto alla vettura anche per essere accompagnati a casa.
Tutti gli altri, alti dirigenti e funzionari compresi, potrebbero salire a bordo solo per lo svolgimento del proprio servizio sul territorio e per fini istituzionali.
Eppure ogni giorno dal Polo Tuscolano escono circa 35 vetture nuove e di grossa cilindrata e almeno altrettante sono quelle che rimangono parcheggiate “a disposizione della segreteria”.
Impossibile quantificare la spesa: non tutte sono di proprietà  del Dipartimento della Pubblica sicurezza, cioè del Viminale.
Alcune vengono noleggiate perchè, secondo l’amministrazione, i contratti con le società  di noleggio sono più convenienti.
Ci sarebbero persino auto di altre amministrazioni, per esempio l’ente Poste, messe a disposizione dei vertici.
Se si pensa che per ogni vettura ci sono almeno due autisti e che ogni dirigente ha a disposizione anche più di quattro ruote, si comprende bene lo spreco di denaro pubblico.
Forse, però, la cosa che fa arrabbiare di più — soprattutto i poliziotti — è che il numero delle auto presenti al Polo Tuscolano supera quello totale delle volanti (non certo nuove o di lusso) presenti sull’intero territorio della capitale.
Secondo i dati del Silp, ogni turno prevede l’uscita di 20 volanti dalla caserma di via Guido Reni e di altre 30 volanti dai commissariati.
“La classe politica non è all’altezza di controllare la classe amministrativa — commenta Gianni Ciotti, segretario provinciale Silp —. Nonostante varie censure della Corte dei Conti, si fa un uso abnorme delle auto blu. Il decreto emanato in agosto dalla Presidenza del Consiglio sta cercando di mettere ordine nella giungla normativa, ma noi ribadiamo che si tratta di una questione culturale”.
Se le volanti rimangono senza benzina, non si capisce perchè le auto blu debbano girare indisturbate.
C’è, però, un altro elemento che allarma le forze dell’ordine.
Nella legge di stabilità , a meno di stravolgimenti politici, è inserito un comma che, unito ai tagli al comparto, andrebbe ad uccidere la Direzione investigativa antimafia. Proprio quella voluta da Giovanni Falcone, quella che fa sbandierare al ministro Maroni i dati sui sequestri e sulle confische: 5,7 e 1,2 miliardi di euro tra il 2009 e il primo semestre 2011.
Il comma 21 dell’articolo 4 colpirebbe il “Tea”, trattamento economico aggiuntivo, riducendo del 20 per cento gli stipendi dei 1300 operatori. I sindacati di polizia hanno calcolato che, assieme ai tagli operati negli ultimi anni, alla Dia mancherebbero ben 13 milioni di euro.
Una riduzione che comporterebbe la morte dell’antimafia.
Con un comunicato congiunto, Silp Cgil, Anfp, Siulp, Sap, Siap Ciosp, Consap, Ugl e Uil hanno chiesto lumi al titolare del Viminale, denunciando un “senso di mancata considerazione per l’opera prestata con impegno costante e abnegazione, a volte mettendo a repentaglio la propria incolumità , nella consapevolezza e convinzione di rendere un servizio al Paese”.
A metterci il carico da 90 ci hanno pensato poi i rappresentanti dei carabinieri: un provvedimento “assolutamente incomprensibile — si legge in una nota del Cocer — che sarebbe apparso più logico ed accettabile se fosse stato promanato da quegli individui che gli uomini della Dia hanno assicurato alla giustizia”.
Il timore è che non si tratti soltanto di fare cassa, ma di voler deliberatamente uccidere un organismo fondamentale nelle inchieste che sfiorano anche apparati dello Stato.
Il mondo dell’antimafia è in rivolta, da Libera di don Ciotti alla Fondazione Caponetto a Rita Borsellino.
Finora, però, senza risultati.

Silvia D’Onghia
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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TRE CARTE SUL TAVOLO DELLA PREVIDENZA: ANZIANITA’ A 62 ANNI, DONNE E CONTRIBUTIVO

Ottobre 25th, 2011 Riccardo Fucile

TUTTE LE IPOTESI AL CENTRO DELLE TRATTATIVE NEL GOVERNO SULLA RIFORMA DELLE PENSIONI…RIVISTI I REGIMI DI FAVORE PER TELEFONICI E MILITARI

Bossi sbarra la strada, ma il problema delle pensioni – e il pressing della Ue – restano un’emergenza e la carta dell’ultima ora sembra tornare quella della riforma Maroni, con l’intento implicito di far convergere la Lega su un provvedimento firmato da un proprio ministro, che innalza e blocca l’età  minima per l’anzianità  a 62 anni più 35 di contributi fin dal 2012.
Ma di ipotesi, fino a tarda notte, ne sono uscite parecchie fino a surriscaldare i computer della Ragioneria generale e dell’Inps.
In prima linea l’abolizione definitiva delle pensioni d’anzianità , seguita a ruota da una ulteriore stretta sull’età  di pensionamento di vecchiaia delle donne del settore privato e dall’equiparazione dei due sistemi retributivo e contributivo.
Senza contare che si lavora anche ad un intervento, da 500 milioni, per alcuni regimi di favore ancora in vita come quelli dei militari e dei telefonici.
La partita più grossa è quella delle pensioni di anzianità  che potrebbero resistere ma in forma “ridotta”.
Prende corpo, in nottata, il ritorno alla legge Maroni, il cosiddetto “scalone” (abolito dal governo Prodi) in base al quale l’età  pensionabile sale e si ferma a 62 anni più 35 di contributi (dunque “quota 97”).
Un meccanismo, oggi previsto per il 2013, che sarebbe anticipato al 2012 per restare bloccato a questo livello.
Non è escluso che la norma preveda che anche chi ha 40 di contributi – oggetto di un forte contrasto nel governo – debba sottostare ai limiti anagrafici.
Più severo, ma qui la Lega si oppone, il meccanismo di “quota 100” nel 2015. Secondo questo progetto in quell’anno si potrà  andare in pensione solo con 65 anni di età  anagrafica e 35 di contributi, abolendo di fatto l’anzianità .
Per arrivarci – visto che nel 2012 la quota è 96 (ovvero 60 anni più 36 di contributi) – il percorso potrebbe prevedere un aumento di dodici mesi all’anno in modo da anticipare “quota 97” al 2012 e via via fino ai 65 anni più 35 anni di contributi.
Resta, anche in questo caso, il nodo dei 40 anni di contributi, che oggi rappresentano una sorta di certificato per la libera uscita (anche prima dei 60 anni di età  anagrafica), ma che potrebbero restare impigliati nella nuova gabbia e sottostare anch’essi all’età  anagrafica.
L’operazione potrebbe portare a risparmi di 1,7 miliardi l’anno.
L’altra ipotesi, più “soft”, resta quella di lasciare invariata l’attuale “quota 96” e introdurre un meccanismo, originario della riforma Dini, in base al quale sarebbero previste penalizzazioni per chi lascia e premi per chi resta in base alla filosofia del sistema contributivo.
Sempre in campo l’idea dell’adeguamento dell’età  di vecchiaia delle donne nel settore privato (adesso a 60 anni a fronte dei 65 anni degli uomini e dei 61 delle donne del pubblico che nel 2012 andranno direttamente a 65).
E’ previsto al momento un adeguamento molto “soft” tra il 2014 e il 2026 e si potrebbe decidere di accelerare: lo scalone a 65 anni nel 2012 per le donne del privato porterebbe secondo alcuni calcoli dei tecnici 3,5 miliardi di risparmi nel triennio 2013-2015.

Roberto Petrini
(da “La Repubblica”)

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