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LE IILLUSIONI DELLA RIFORMA ELETTORALE: MAGGIORANZA IMPOSSIBILE ANCHE CON IL MATTARELLUM

Aprile 11th, 2013 Riccardo Fucile

IN CASO DI PDL COME PRIMO PARTITO LA SIMULAZIONE PREVEDE 259 DEPUTATI AL CAVALIERE, 235 AL PD E 108 A GRILLO…NON CAMBIEREBBE NULLA

Troppo tardi: neanche il ritorno al Mattarellum basterebbe, ormai, a garantire la governabilità .
Lo dicono i numeri, lo spiega una eloquente tabellina che da qualche giorno è sulla scrivania di Napolitano e sul tavolo dei quattro «saggi» incaricati di risolvere il rebus della legge elettorale.
Titolo: «Applicazione di un sistema elettorale misto (“Mattarellum”, 75 % maggioritario, 25 % proporzionale) sulla base dei risultati elettorali del 24-25 febbraio 2013».
Una sola paginetta, una tabella ben impaginata, con una premessa doverosa e sottintesa: quando cambiano i sistemi elettorali cambiano anche i comportamenti dei partiti e degli elettori, quindi non è affatto detto che le cose sarebbero andate esattamente così.
Però, sia pure prendendola con le pinze, la simulazione ci consegna un risultato sorprendente: incassando gli stessi voti di sei settimane fa, non avrebbe vinto Bersani ma Berlusconi.
Raccogliendo lo 0,4 per cento in meno della coalizione avversaria, il centro-destra avrebbe conquistato la maggioranza relativa dei seggi a Montecitorio.
Avrebbe vinto in 216 collegi uninominali e avrebbe ottenuto altri 43 seggi nella quota proporzionale.
Totale, 259 deputati: più del doppio dei 125 seggi che il Pdl e i suoi alleati occupano oggi alla Camera.
Ma soprattutto, 24 seggi in più del Pd, che si sarebbe fermato a 192 collegi uninominali e a 43 deputati nella quota proporzionale, totalizzando 235 onorevoli (e non gli attuali 345)
Dunque avrebbe vinto Berlusconi.
Ma neanche lui, come oggi capita a Bersani, avrebbe avuto i numeri per formare il governo: con quei 259 seggi il centrodestra avrebbe potuto rivendicare la maggioranza relativa (e formare il gruppo più numeroso) ma non la maggioranza assoluta, la metà  più uno degli eletti, quella che serve per ottenere la fiducia.
Non solo, ma la presenza del terzo incomodo, il Movimento 5 Stelle, sarebbe stata assolutamente identica: 108 seggiha oggi, 108 ne avrebbe ottenuti con il Mattarellum (vincendo in 65 collegi uninominali).
Il vero perdente sarebbe stato Monti, che invece degli attuali 45 deputati ne avrebbe avuti appena 15, trionfando in un solo collegio uninominale: soltanto uno, su 474.
E’ una simulazione attendibile? Assolutamente sì.
L’hanno preparata due studiosi che sono considerati tra i massimi esperti italiani dei meccanismi elettorali.
Il primo è Antonio Agosta, oggi docente di Scienza della politica all’università  di Roma Tre, già  esperto elettorale del Viminale e membro della commissione che nel 1993 disegnò i confini dei collegi uninominali.
L’altro è Nicola D’Amelio, docente di Tecniche di analisi elettorale a Roma Tre e direttore dell’Archivio storico delle elezioni al ministero dell’Interno.
Con un lavoro certosino, i due studiosi hanno calato il voto degli italiani nei vecchi contenitori, quelli del Mattarellum: collegio per collegio, partito per partito.
E ci consegnano un responso chiarissimo: con l’Italia ormai tripolarizzata, neanche il sistema che per tre volte fece nascere una maggioranza oggi riuscirebbe a garantire
la governabilit�
Non solo: ma già  che c’erano, Agosta e D’Amelio hanno voluto provare a vedere gli effetti dell’uninominale secco, all’inglese: senza quota proporzionale.
E in questo caso alla premessa sulle simulazioni se ne aggiunge una sulla precisione: portare i collegi da 474 a 617 comporterebbe scelte discrezionali sulla ridefinizione dei confini di ciascun collegio che potrebbero riflettersi sui risultati.
Dunque, per correttezza, hanno indicato per ciascuna coalizione un minimo e un massimo.
E non è incoraggiante constatare che anche applicando il maggioritario più spinto che si conosca, nessuno si avvicinerebbe alla maggioranza assoluta: nell’ipotesi migliore (per lui) Berlusconi otterrebbe 300 deputati, 16 in meno di quelli necessari per governare
In passato, certo, il Mattarellum ha funzionato.
Ma i numeri erano assai diversi da quelli di oggi.
Nel 1994 il centro-destra raggiunse il 46 per cento (e nonostante questo al Senato si fermò a 155 seggi, sotto la metà ).
Nel 1996 Prodi raccolse il 44,8 per cento (e alla Camera portò 319 deputati, che però non gli bastarono per evitare la sfiducia).
E nel 2001 Berlusconi ottenne un’ampia maggioranza in entrambe le Camere, con il 45,5 per cento.
Ma oggi nessuno supera il 30 per cento, e il Mattarellum non basterebbe più a ridarci governabilità .
E allora? «Io vedo solo due soluzioni» spiega Agosta.
«La prima è quella di estendere al Senato il meccanismo del premio nazionale: ma per farlo occorrerebbe una modifica della Costituzione, visto che il Senato va eletto “su base regionale”.
E non è neanche detto che funzionerebbe, considerato che le due Camere hanno elettorati diversi (per Montecitorio votano i 18-25 enni) che potrebbero anche esprimere due maggioranze diverse.
La seconda, forse più lineare, sarebbe quella di differenziare i ruoli delle due Camere, lasciando solo a Montecitorio il potere di dare e revocare la fiducia al governo.
Anche in questo caso sarebbe necessario mettere mano alla Costituzione, ma almeno il risultato sarebbe più limpido».

Sebastiano Messina
(da “La Repubblica“)

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LA SVOLTA DI BERLUSCONI PER IL COLLE: “VIA LIBERA A BERSANI, POI GOVERNO DI LARGHE INTESE”

Aprile 11th, 2013 Riccardo Fucile

IL CAVALIERE LO INCLUDE NELLA “ROSA”: COSI’ SI FA IL GOVERNO DI SCOPO

E adesso il Pdl accarezza l’idea di lasciar eleggere Pierluigi Bersani al Colle.
Una «folle idea», soluzione a sorpresa che tuttavia in questo scenario imprevedibile Silvio Berlusconi ha prospettato ai suoi nei conciliaboli delle ultime 36 ore.
Mossa disperata e ultima, per aprire poi al governo di «larghe convergenze».
Sta di fatto che parlamentari e dirigenti a lui vicini sono stati impegnati per tutto il pomeriggio a rilanciarla e metterla in circolo, tra il Transatlantico della Camera e la buvette del Senato.
Quasi per sondare fin d’ora l’effetto che fa.
«Dal colloquio avuto con Pierluigi ho avuto la sensazione che non escluda affatto di finire lui stesso al Colle e a quel punto, vi dirò, potrebbe pure servire a sbloccare la situazione» racconta il Cavaliere nella cena avuta martedì sera fino a tarda ora con Alfano, Verdini, Brunetta, Schifani, Gasparri, Cicchitto, a Palazzo Grazioli. Il faccia a faccia si è concluso da qualche ora.
Il ragionamento dell’ex premier, riproposto ad altri dirigenti andati a trovarlo ieri nella sua residenza romana, va detto che è improntato di nuovo al pessimismo.
«Non mi attendo nulla di buono, Bersani mi è apparso assai fragile, non so fino a che punto sia in grado di garantire la compattezza dei suoi».
La polemica di Renzi in ultimo fornisce a suo dire un quadro assai frastagliato e incerto dentro il Pd.
Il clima si è «imbruttito », conferma chi è di casa a Grazioli.
Con i “falchi” del partito, da Brunetta a Gasparri, a rincarare la dose: «A breve le elezioni amministrative, come si fa a dar credito e fare accordi con questi del Pd?».
Ma quella bersaniana potrebbe essere la carta che spariglia, secondo Berlusconi. «Chiaro che se loro puntano su Bersani — ragiona -, noi dovremo decidere se votare un nostro candidato di bandiera ma lasciando che venga eletto o addirittura ufficializzare il nostro sostegno ».
«Ma tutta la partita a quel punto si riapre, il clima potrebbe diventerebbe favorevole a un governo di larghe convergenze» come ama definirlo ora il Cavaliere. Esecutivo con ministri politici Pdl o di area, governo di scopo: quello che negli anni Settanta veniva definito «governo orrendo», da naso turato, insomma.
Ma le due partite, l’“azzardo” Bersani e il governissimo, per Berlusconi devono tenersi insieme.
«Anche l’Europa ci chiede di dar vita in fretta a un governo, come fanno a non rendersene conto?», ha insistito coi suoi Berlusconi, alludendo al richiamo Ue di ieri mattina sul rischio-contagio Italia.
Il leader Pdl intende tornare alla carica con Bersani, nella telefonata che potrebbe intercorrere prima di sabato e nell’incontro della prossima settimana.
«Di positivo c’è che i due hanno instaurato un filo diretto, vedremo a che porta» spiega il neo vicecapogruppo al Senato, Paolo Romani.
Ad ora, prevale il pessimismo e il voto (il 7 luglio) resta l’ipotesi su cui scommettono in via dell’Umiltà .
È un coro, «il Paese paga l’irresponsabilità  del Pd e la chiusura testarda di Bersani», sintetizza Anna Maria Bernini, da ieri portavoce del gruppo al Senato.
Anche perchè «lo scenario non è mutato e la nostra strada è dritta» puntata sulle elezioni, intende Maurizio Lupi.
Non a caso il capo ha già  preparato un discorso tutto in attacco, in vista della manifestazione di sabato a Bari. E poi, ragiona Augusto Minzolini nel Salone Garibaldi del Senato durante i lavori d’aula, «a fronte del pantano in cui ci troviamo, il voto anticipato consentirebbe di approfittare del forte calo dei consenti di Grillo». Quel che tutti tacciono è che senza un presidente garante e un governo con ministri Pdl, Berlusconi vede il solo ritorno a Palazzo Chigi quale baluardo per difendersi dai processi che lo assediano.

Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica”)

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IN EREDITA DA MONTI INTERVENTI DA 22 MILIARDI

Aprile 11th, 2013 Riccardo Fucile

NE SERVONO 7 NEL 2013… E DAL 2015 CI SARà€ UN PROBLEMA DI ENTRATE: SE I PARTITI TOCCANO L’IMU IL CONTO SALE A 32 MILIARDI

La buona notizia è che siamo uno dei Paesi più virtuosi d’Europa, debito a parte.
La cattiva è che una nuova manovra correttiva è ormai certa.
Il governo Monti ha approvato ieri il documento più politico dell’anno, cioè il Documento di economia e finanza che è la base su cui si decidono eventuali interventi in corso del 2013 e la legge di stabilità  (la ex Finanziaria) per il 2014.
“Data la particolare situazione in cui si trova l’Italia, il Def è un contributo work in progress”, dice il premier Mario Monti.
Infatti chiunque arrivi dopo — ammesso che non tocchi ancora ai tecnici — dovrà  trarre le conseguenze dai numeri presentati ieri e prendere qualche decisione politica su dove tagliare, dove tassare o come spiegare all’Unione europea che certi impegni non possono essere rispettati.
Il Def presenta infatti un equilibrio perfetto ma apparente: i due obiettivi europei da rispettare sono il deficit sotto il 3 per cento del Pil e il pareggio di bilancio strutturale (cioè dopo aver scorporato gli effetti della recessione).
Per il primo siamo a posto: — 2,9 nel 2013, -1,8 nel 2014, -2,5 nel 2015.
Molto più virtuosi della Francia.
Ma c’è un problema: il governo stima che “a legislazione vigente” mancheranno 25 miliardi entro il 2017.
Un buco nascosto? In parte: l’odiata Imu è stata introdotta nel 2011 in una formula “sperimentale” per tre anni.
Se non verrà  confermata, dal 2015 si tornerà  alla Imu pre-Monti che vale attorno ai 10 miliardi di euro annui.
Tradotto: il prossimo governo dovrà  trovare almeno 15 miliardi dal 2015 (e, visto che le leggi di stabilità  abbracciano un arco di tre anni, il problema va risolto già  nel 2013).
Se invece i partiti — inclusa la montiana Scelta Civica- vorranno mantenere le promesse elettorali e rivedere l’Imu, almeno sulla prima casa, i miliardi da trovare cresceranno parecchio.
à‰ una mina pericolosa: questo Parlamento, probabilmente già  in autunno, dovrà  decidere se spiegare ai propri elettori che conferma l’Imu, magari rafforzandola, oppure rifilare una nuova sequela di tagli e tasse.
Qualcosa bisognerà  comunque fare e le ricette sono soltanto due: o si persegue la riduzione del deficit, o si cerca di far aumentare il Pil, con le sempre annunciate e mai ottenute riforme strutturali per la crescita.
“Le tasse forse si potranno evitare, i tagli no”, dice Pier Paolo Baretta , vice presidente Pd della Commissione speciale alla Camera.
A complicare le cose c’è una lunga lista di ulteriori problemi: il debito sta continuando a salire, nel 2013 toccherà  il picco (colpa anche del pagamento degli arretrati della pubblica amministrazione e degli aiuti internazionali a Grecia e fondo salva Stati) al 130,4 per cento del Pil, 10 punti in più che nel 2011.
Poi dovrebbe gradualmente scendere.
E questo sempre che sia fondata l’ottimistica previsione governativa di una recessione da -1,3 per cento nel 2013 seguita da un piccolo boom dell’economia nel 2014 da +1,3 per cento.
Sempre che lo spread resti sotto controllo come in questi giorni: ieri il Tesoro ha venduto Bot a tre mesi al prezzo più basso di sempre, un tasso dello 0,243 per cento (mentre la Borsa volava a +3).
Ciliegina: nel 2013 servono circa 7-8 miliardi per le spese non rinviabili, tipo il finanziamento della cassa integrazione in deroga, delle missioni internazionali e dei contratti degli statali precari. Se poi ci aggiungiamo pure l’aumento dell’Iva di luglio, che per il 2013 vale due miliardi circa, si arriva a una sfida di politica economica che per il prossimo esecutivo vale oltre 32 miliardi di euro.
Trovarli tutti con il metodo Monti applicato a fine 2011, cioè drastici tagli di spesa (sulle pensioni) e con nuove tasse significa ammazzare l’economia.
La Commissione europea, nel suo rapporto sugli squilibri macroeconomici diffuso ieri, è assai prudente sul-l’Italia: “Il debito elevato resta un grave problema dell’Italia, vulnerabile ai repentini cambiamenti dei mercati e permane quindi il rischio di contagio (“financial spillovers”) al resto della zona Euro se si dovesse intensificare nuovamente la pressione sul debito italiano”.
I problemi immediati sono altri: le banche fragili, il Pil sette punti sotto il livello del 2008, il rigore che non si può allentare e quindi la crescita che non può ripartire.
Tutti problemi per i quali il governo Monti può fare poco, più passa il tempo più diventa complessa l’agenda del prossimo governo, di qualunque colore politico sia.

(da “Il Fatto Quotidiano“)

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RENZI FERMATO DAL SIGNOR NO

Aprile 11th, 2013 Riccardo Fucile

COME LE CONDIZIONI DEL SIGNOR ROSSI E UN SMS HANNO CANCELLATO I SOGNI QUIRINALIZI DI RENZI

La telefonata da Roma c’è stata, Pier Luigi Bersani ha chiamato il presidente della Toscana, Enrico Rossi, per affrontare il “caso Renzi”.
Nessuna imposizione, “sono fatti che devono restare dentro i confini regionali” ha detto il leader del centrosinistra, invitando il governatore a risolvere le cose “al meglio”.
Alla fine è andata come i bersaniani speravano, perchè l’immagine di Matteo Renzi protagonista del Transatlantico di Montecitorio per una settimana aveva disturbato i sonni di molti.
Rossi ha dettato tre condizioni che hanno impedito al sindaco di partire per Roma: il supporto unanime del gruppo regionale Pd, la rinuncia di Alberto Monaci, presidente del Consiglio toscano, e rinuncia ufficiale di Renzi ai voti del Pdl (perchè il sindaco, con il sostegno dell’opposizione, rischiava di prendere più voti del governatore stesso).
Alla fine, del terzo presupposto non c’è stato nemmeno bisogno, perchè sono mancati i primi due.
Il gruppo si è spaccato, dodici voti contro Renzi e dieci a favore.
Durante la riunione, durata undici ore, si è sfiorata la rissa.
Perchè un accordo che sembrava solido è venuto a mancare all’ultimo momento. Decisivo l’intervento di Rossi che ha annunciato ai colleghi l’sms di Alberto Monaci, irreperibile da dieci giorni per un problema di salute, dove spiegava che stava bene e poteva farcela: “Dò la mia disponibilità  a partecipare alla seduta plenaria del Parlamento”.
Il segnale, insieme alla frattura nel partito, che l’operazione non si poteva fare.
E alla fine anche chi era convinto di votare a favore del sindaco, si è tirato indietro. Sulla graticola sono finiti i franceschiniani (Parrini, Venturi, Rossetti) e i dalemiani (Naldoni, Ruggeri, Morelli).
Dietro di loro lo spettro delle pressioni romane. “Non ho svolto alcun ruolo nè mi è stato chiesto di svolgerlo — ha dichiarato Antonello Giacomelli, vicepresidente del gruppo Pd alla Camera — rispetto l’opinione di tutti ma ribadisco che, a quel punto, esaurita ogni possibilità  di scelte condivise, avrei votato Renzi”.
Lui è stato uno dei primi ad essere accusato di responsabilità  nella decisione perchè l’area Dem, quella di Franceschini appunto, si era sempre detta a favore del sindaco. Ma nonostante il patto di non belligeranza nel partito fiorentino tra renziani e uomini del segretario regionale Andrea Manciulli, le parole di Rossi illuminano sulle reali possibilità  che l’operazione ha avuto di andare in porto: “Non poteva essere un’eccezione toscana, serviva un accordo nazionale per cui si stabiliva che uno dei tre delegati era un sindaco, rispettando le minoranze come chiede la Costituzione”.
Ma molte Regioni avevano già  eletto i loro rappresentanti quando è nata l’ipotesi di candidare Renzi.
Non è servito nemmeno appellarsi al precedente, comunque fallimentare, del 2006, quando fu proprio lo stesso Monaci a chiedere, invano, che i tre rappresentanti non fossero figure istituzionali del Consiglio ma “delegati dalla Regione”.
In quel caso Monaci voleva ostacolare Riccardo Nencini, presidente all’epoca dell’assemblea toscana, e il voto che il socialista avrebbe garantito alla radicale Emma Bonino.
Per Renzi sarebbe dovuta andare diversamente, soprattutto dopo l’assenso del segretario Manciulli, dalemiano, che evidentemente, però, non aveva fatto i conti col signor Rossi e con gli sms dell’ultimo momento.

Giampiero Calapà  e Caterina Perniconi
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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BOTTE DA ORBI: RENZI E BERSANI TORNANO A SPACCARE I DEMOCRATICI

Aprile 11th, 2013 Riccardo Fucile

 IL SINDACO: “IL PARTITO MI PUGNALA: ESCLUSO DA GRANDE ELETTORE PER IL COLLE DOPO UNA TELEFONATA DA ROMA” IL SEGRETARIO: “NON SONO STATO IO, CHIEDI A TELECOM”

Il candore di una banale constatazione, confessata qualche giorno fa da Matteo Renzi in trattoria, “più passa il tempo e più mi brucio”, produce in Pier Luigi Bersani il sentimento esausto per le “quotidiane molestie” di cui si sente vittima.
Qui è il punto, e da qui si parta per raccontare l’ultima, feroce divisione tra i due blocchi.
Il Pd oggi è allo strazio e piange il suo telefono interno.
La questione telefonica (su chi abbia bloccato con la cornetta la nomina di Renzi a grande elettore toscano nel prossimo voto per il presidente della Repubblica) ha ieri ricondotto al ruolo di “molestatore” il giovane Matteo, alter ego di Pier Luigi, anzi il futuro prossimo del Pd, suo leader ombra.
Scatenato, dunque in perfetta forma e a suo agio in un rapido tour elettorale nel Nord est, Renzi ha spiegato: “Il problemino è che Bersani non ha vinto le elezioni”.
Dentro questo problemino l’accusa rovente: “Qualcuno mi aveva detto vai avanti tranquillo, non c’è problema, ti votiamo come delegato toscano per l’elezione del nuovo presidente. Eppoi s’è visto”.
Si è visto che c’è stata “una telefonata da Roma”.
Ecco la pressione, anzi la ritrattazione, persino il tradimento di Bersani.
Veleno puro. Seguito da un breve alleggerimento tattico: “Io mi fido, sono contro la doppiezza , ma va bene”.
Ottimo materiale, e tutto magnificamente televisivo: sorrisetti al vetriolo su Sky, dove parlava il giovane, e sorrisetto ammiccante al Tg1, dove si difendeva il segretario anziano: “Chiedetelo alla Telecom!” ha proposto, sfidando chiunque a dire che lui avesse chiamato per stopparlo. “No e poi no”.
Tra i due sorrisi lo scavo enorme nell’affresco maligno di un partito sbandato, oramai pieno solo di accidia, con lo sguardo bifronte e il portafogli doppio.
La divisione renziana, che può contare a Roma su una settantina di parlamentari, ha colpito duramente ed è passata alla baionetta di un corpo a corpo che ha svuotato l’inchiostro dei cronisti.
Nessuno dei deputati si è sottratto al commento dispiaciuto e parecchio incavolato: “È un autogol di cui certamente avremmo dovuto farne a meno”.
Oppure: “Non si capisce perchè facciano così. Anzi, si comprende benissimo”.
Lui, Matteo, pregustava l’idea di raggiungere Roma.
E aveva ogni ragione per ritenerla certa: “Al primo scrutinio avrei votato Giancarlo Antognoni. Il piacere di far entrare nella storia della Repubblica il numero 10 della Fiorentina, la storia della mia città ”.
Renzi in Transatlantico avrebbe succhiato ogni energia ai giornalisti, ogni attenzione alle telecamere sistemate nel cortile di Montecitorio.
E lui non si sarebbe risparmiato. Paroline e parolone. Frasi in scena e frasi per i retroscena. Lui astro ormai più che nascente e l’altro, Pier Luigi, astro più che calante.
Illustrazione plastica del passato e del futuro, abbrivio per condurre il Pd dietro la sigla fiorentina: “L’unica cosa che non farò mai è dividere questo partito. Ci tengo alla sua unità , alla sua forza, alla sua identità ”, garantisce Matteo.
Aveva avuto assicurazioni che tre consiglieri dalemiani toscani avrebbero concesso il nulla osta per lo sbarco a Montecitorio.
Valutazione irrobustita da una iniziale, breve ma certo non insignificante simpatia che Massimo D’Alema, la prima e più illustre vittima della rottamazione, avrebbe fatto intuire per lui.
E oggi, proprio oggi, D’Alema sarà  a Firenze per tenere un discorso all’università . E lui oggi, proprio oggi, sarebbe dovuto essergli accanto.
Non ha deciso ancora, “non so se andare oppure no”.
Conoscendolo, e soprattutto conoscendo la cura che porta per la tutela della sua immagine, propendiamo per il no.
Oggi è a Roma per l’ennesima apparizione televisiva, si registra Porta a Porta ed è un’occasionissima per lanciare ulteriori fendenti.
La guerra è aperta e totale e la corsa al voto, si voti prima che si può, è l’obiettivo principe.
Lui non è “per la perdita di tempo”, gli italiani “chiedono un governo oppure se non lo si fa non resta che il ritorno alle urne”, ma Bersani non ha simpatie per “i qualunquisti”.
“Mi ha dato del qualunquista”, ha detto Renzi col solito sorriso.
È una brutta aria, se Dario Franceschini tirando le somme degli insulti, annota: “Temo la scissione”.

Antonello Caporale
(da “Il Fatto Quotidiano”)

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